"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 18 dicembre 2016

Primapagina. 20 “Politica&banche”.



Da “Che cosa ci insegnano Mps e le altre” di Bruno Manfellotto, sul settimanale l’Espresso del 30 di ottobre 2016: (…). In principio fu una clamorosa sottovalutazione. Forse per dovere istituzionale o per spirito nazionale, governi e authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano, anche fidando nel fatto che le banche italiane, a differenza di quelle tedesche, non sono imbottite di titoli tossici. E così ogni intervento è stato rimandato mentre gli altri correvano ai ripari: la Spagna con 52 miliardi di euro, la Grecia con 40, l’Irlanda 42, la Germania 238... E la povera Italietta? Non servono soldi, proclamò il premier Mario Monti. Orgoglio? Leggerezza? Vincoli di bilancio? Come che sia, alla fine lo Stato tirò fuori appena un miliardo. Poi però Mps si è mangiato da solo 15 miliardi di ricapitalizzazioni, e ormai l’Europa ha provveduto a vietare aiuti di Stato. Su come stanno le cose si è saputo qualcosa di più solo un anno fa, dopo il default di Banca Etruria e delle casse di Marche, Ferrara e Chieti quando governo e partiti si sono trovati ad affrontare le conseguenze del famigerato “bail in” che scarica su obbligazionisti e anche i correntisti il peso del crac e che essi stessi avevano avallato a Bruxelles nel 2014. E sono emerse le magagne. La prima è che le autorità di vigilanza o non hanno fatto fino in fondo il loro dovere (Consob), o non si sono spinte oltre la semplice denuncia formale (Banca d’Italia). Poi Renzi ci ha messo il suo addebitando loro buona parte delle responsabilità. L’altra verità è che il sistema bancario è appesantito da crediti incagliati, cioè difficili o impossibili da riscuotere, per 350 miliardi. Né ci fanno dormire sonni tranquilli le rassicurazioni del governatore della Banca d’Italia secondo il quale le sofferenze vere, cioè non garantite da accantonamenti, non arrivano a 90 miliardi. Perché al di là della cifra, pur sempre pari a tre-quattro manovre finanziarie, la crisi ha rivelato un tessuto debolissimo di piccole e medie imprese finite a gambe all’aria perché tenute in vita solo da un sistema del credito schiavo del familismo finanziario, del capitalismo di relazione e dei prestiti facili riservati agli amici degli amici. Così andavano le cose anche a Siena, naturalmente, dove agli eccessi di campanilismo creditizio si aggiunge pure il peccato originale di un incauto acquisto favorito da Bankitalia, quello di Antonveneta, a carissimo prezzo, a debito, e con l’ausilio di un complicato e oscuro prodotto finanziario dal nome di dentifricio (Fresh) accreditato dall’autorevole timbro di Vittorio Grilli, allora alto dirigente del Tesoro, oggi salvatore della patria come capo in Italia della Jp Morgan chiamata a curare, a carissimo prezzo, l’aumento di capitale del Monte. Corsi e ricorsi. Per non dire dell’«odor di massoneria» evocato da Alessandro Profumo, uomo generalmente attento a pesare gesti e parole. Che pasticcio. Anche in questo caso Renzi se n’è fatto carico in prima persona, a costo di mettere il naso dove forse non doveva, convocando a Palazzo Chigi gli uomini di Jp Morgan, disponendo rimozioni e nomine ai vertici di Mps, annunciando e promettendo. Insomma, personalizzando. Del resto le vicende Banca Etruria e Mps lo hanno segnato, coincidendo perfino con un punto di svolta nella sua immagine di rottamatore e nei suoi rapporti con l’opinione pubblica. Insomma, anche il “piano banche” lo vive in qualche modo come un referendum: non c’entra la Costituzione, ma la fiducia nel sistema del credito e in chi lo governa, sì.

Da “Banche, la tempesta perfetta” di Massimo Giannini, sul quotidiano la Repubblica dell’11 di dicembre 2016:
(…). "Risolveremo la questione bancaria dopo il referendum, l'Italia è un Paese solido", aveva promesso Renzi dieci giorni fa, nell'ultimo videoforum a Repubblica Tv. Il 3 settembre, a Cernobbio, ai grandi del pianeta aveva garantito il contrario: "Risolveremo tutto prima del 4 dicembre ". Ora, a "risolvere tutto" sul serio, ci ha pensato la Bce. Non si conoscono le ragioni che hanno spinto l'Eurotower a negare la proroga chiesta dal Montepaschi per completare la ricapitalizzazione di 5 miliardi. Né quelle che hanno indotto la Vigilanza guidata dalla francese Nouy a tacere, dando inopinatamente in pasto ai mercati una semplice indiscrezione della Reuter. Ma si conoscono gli effetti di questo diniego. Il salvataggio della banca più antica del mondo ora tocca allo Stato italiano, che a Siena interviene per la terza volta in sei anni (dopo i Tremonti Bond del 2010 e i Monti Bond del 2012). Il decreto salva-Mps sarà dunque il primo atto del governo entrante. A dispetto delle malriposte speranze del vertice di Rocca Salimbeni su una "soluzione privata", senza denaro pubblico la banca fallisce, portandosi dietro un'altra decina di istituti e trascinando nel baratro l'intero Paese. Almeno, nelle due precedenti occasioni, Montepaschi ha restituito all'Erario i circa 8 miliardi avuto "in prestito". Stavolta, vista la gravità della situazione, le prospettive sono più incerte. Ma che questa fosse la fine della storia non era prevedibile: era scontato. Forse solo l'ex premier, stupito dal "plebiscito al contrario" di domenica scorsa, immaginava un esito diverso. È stato il suo errore più grave: scommettere su un salvataggio "di mercato" che fin dall'inizio appariva azzardato. E soprattutto giocarsi quella scommessa al tavolo della partita referendaria. Possiamo cercare capri espiatori in giro per il mondo. Possiamo prendercela con i perfidi diktat di Francoforte e con le regole capestro di Bruxelles. Abbiamo qualche buona ragione per farlo. Ma resta un fatto, incontrovertibile, che riguarda noi e nessun altro. L'intera politica creditizia del governo è stata deludente. La gestione della direttiva europea sul "bail in", con il costo dei salvataggi bancari scaricato sugli azionisti e gli obbligazionisti subordinati, è avvenuta senza alcuna discussione pubblica, che avrebbe aiutato a capire meglio la portata dei cambiamenti in arrivo. Il decreto che ne ha recepito i principi nel novembre 2015, calandoli come una mannaia sulla carne viva degli ignari clienti di Banca Etruria-Marche-Cariferrara- Carichieti, è stato uno shock per il mondo del risparmio. Costato inchieste, proteste e persino un suicidio (colpevolmente ignorato dal potere). Oggi i rimborsi "automatici" liquidati sono solo 20 (su 130 mila risparmiatori), mentre di quelli arbitrali non ne è stato definito neanche uno. E se nella Toscana del Giglio Magico, che ha votato compatta per il Sì al referendum, uno dei pochi comuni dove ha vinto il No è stato proprio Laterina, dove risiede Maria Elena Boschi e il suo papà Pierluigi, indagato per il dissesto di Etruria, qualche spiegazione deve pur esserci. La gestione del dossier Mps è stata ancora più avventurosa. Il 22 gennaio, a "Porta a porta", Renzi annunciava: "Mps è risanato, investire è un affare ": da allora i titoli hanno perso il 70%. Il 6 luglio, a Palazzo Chigi, il premier riceveva il "ceo" di Jp Morgan, Jamie Dimon e gli affidava chiavi in mano l'aumento di capitale da 5 miliardi, in cambio di una maxi-commissione da 450 milioni. Il 7 settembre, da via XX Settembre, il ministro Padoan ordinava al cda, in nome del presidente del Consiglio, di cacciare l'amministratore delegato Viola e di sostituirlo con Marco Morelli. Il piano Jp Morgan non è mai decollato (gli emiri del Qatar e i fondi di Soros sono rimasti in finestra). Ed è stato costellato da operazioni malfatte e omissioni sospette. Al primo tipo appartiene la conversione dei bond in azioni, spacciata per "volontaria" ma imposta agli investitori istituzionali, pena "l'applicazione immediata del bail in" o la sicura cessazione della "continuità aziendale". Al secondo tipo appartiene il decreto sul salvataggio pubblico, che secondo la puntuale ricostruzione di Andrea Greco (non smentita) "era pronto da sei mesi, ma Renzi e la Boschi lo bloccavano". Così come da giugno avevano bloccato il piano di "ricapitalizzazione precauzionale" messa a punto da Viola, coerente con la normativa Ue che consente l'intervento pubblico "temporaneo" in caso di "rischio sistemico". Fermare la mano pubblica, anche in presenza di un compromesso che allora la Commissione europea avrebbe accettato, si è rivelato uno sbaglio fatale. Renzi non ha voluto azionare le leve del Tesoro per due motivi. Il primo: evitare l'accusa, già bruciante su Etruria, di salvare le banche e non i clienti. Il secondo: lasciare che sul mercato finanziario, e su quello elettorale, la paura crescente di un default a catena delle banche, come effetto di una vittoria del No al referendum, facesse da spinta propulsiva per il Sì (vedi il "fumogeno" lanciato dal " Financial Times", a una settimana dal 4 dicembre). Alla fine, anche questo è stato un azzardo. L'incubo default non è bastato a far passare la riforma costituzionale. E Mps andrà salvata comunque con i soldi dei contribuenti (mettendo rigorosamente al riparo i circa 40 mila piccoli obbligazionisti). Ma tutto questo avverrà in assoluta emergenza, dunque nelle condizioni peggiori. E con il rischio che adesso, visto che in Italia finisce sempre per pagare Pantalone, si fatichi ancora di più a trovare chi investe capitali non tanto su Unicredit (che resta comunque una grande banca internazionale) quanto sulle due venete Popolare di Vicenza e Veneto Banca (che il fondo Atlante 2, con le sue sole risorse, non può certo sostenere). La crisi politica e la crisi bancaria hanno finito per sovrapporsi. La tempesta perfetta, che si doveva e si poteva evitare.

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