"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 9 dicembre 2016

Cronachebarbare. 41 “Referendum, Mezzogiorno e povertà”.



È interessante osservare e ricordare alcuni dati scaturiti all’indomani del referendum del 4 di dicembre, dati che la dicono lunga su quali motivazioni i 19milioni e passa di italiani hanno buttato a mare la “riforma” boschian-verdinian-renziana. Ne viene fuori una geografia del Paese che avrebbe dovuto attrarre l’attenzione massima dell’uomo solo al governo e dei corpi legislativi nel loro insieme. Ed invece, il nulla. La mappa disegna confini certi di arretratezza sempre più marcata tra le diverse parti del Paese e di una povertà in rimonta che penalizza soprattutto quella parte del Paese che, chiamata alle urne per ben altri motivi, ha scaricato tensioni e delusioni con un voto inequivocabile. Abruzzo: 64,4% di NO; Lazio: 63,3% di NO; Molise: 60,8% di No; Campania: 68,5% di No; Puglia: 67,1% di NO; Sardegna: 72,2% di NO; Basilicata: 65,90% di NO; Calabria: 67% di NO; Sicilia: 71,6% di NO. Cifre percentuali che evidenziano quel cordone di sofferenze e povertà che l’uomo al governo ha voluto ignorare per coltivare il suo hobby preferito dello “storytelling”, ovvero dell’affabulazione falsa ed insensata. Mal gliene incolse. Poiché anche quell’Eugenio nazionale – al secolo Eugenio Scalfari – ebbe ad affermare che “Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo invece non c'è”, pubblicando sul quotidiano la Repubblica del 27 di dicembre dell’anno 2015 uno dei suoi soliti pistolotti che avrebbero dovuto mettere in allarme chi della responsabilità di governo si era impadronito con “manu militari”. Ma gli interessi erano altrove, allora come oggi, imperscrutabili ma non tanto, ma sempre interessi che non avevano nulla da condividere con il disagio dichiarato e venuto forte dalle elezioni referendarie. È da leggere oggi – alla luce proprio di quei risultati - quel testo dell’Eugenio, dimenticando se possibile le sue successive piroette e quell’aiutino che di certo non illustrerà la sua pur generosa carriera giornalistica. Non tanto per il suo annunciato SI, legittimo se consequenziale alle cose pensate e dette insistentemente prima, quanto per gli inutili arzigogolii con i quali ha cercato di dare, a quella sua inattesa resipiscenza, l’autorevolezza e la credibilità che non possedeva. Scriveva allora, con un interessante percorso storico-politico, che
(…). Gaetano Salvemini, anni dopo quando la guerra vera e propria era terminata ma gli eminenti locali e le organizzazioni mafiose erano in pieno rigoglio, li chiamò "ascari di Giolitti" che era allora il capo della politica italiana. In parte sbagliò ed in parte aveva ragione, Salvemini. Erano più di ascari, in gran parte delle campagne erano i capi delle clientele pronti a votare per il leader nazionale. Purché gli avesse lasciato campo libero per il loro potere locale. Questo ricatto ebbe luogo fino al 1910 quando questi capi appoggiarono le pretese dell'Italia verso la sua prima colonia mediterranea in Libia. Poi il ricatto diminuì o addirittura scomparve perché Giolitti aveva trovato l'appoggio dei cattolici di Gentiloni e la simpatia dei socialisti riformisti di Turati, di Anna Kulišëva, di Treves e di Bissolati. Ma il dibattito sulla questione meridionale continuò, anzi prese un tono molto più ampio di studi, di cultura, di misure economiche e sociali portate avanti da Giustino Fortunato, Sacchetti, Spaventa, Croce e molti altri a cominciare da Giovanni Amendola, Matilde Serao, Adolfo Omodeo, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Di Vittorio, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna e Danilo Dolci. Ma negli ultimi trent'anni - con rare eccezioni - è calato il silenzio. Al suo posto è nata la questione settentrionale la quale al suo primo sorgere fu giudicata dal ceto colto italiano come un'uscita politica demagogica, priva di qualunque significato. Invece non era così, anche se fu presto determinata dall'uso politico che ne fu fatto dalla Lega di Bossi ma divenne anche uno strumento nelle mani di Berlusconi che era nato alla politica con idee molto prossime a quelle leghiste. La questione settentrionale, quella seria, ha colto la povertà strutturale di alcune regioni padane tra le quali predominava allora il Veneto. Ma colse anche quel fenomeno - molto positivo da un lato e molto negativo dall'altro - che fu la piccola e piccolissima industria che ebbe grande espansione dagli anni Settanta e si impiantò in un gruppo di regioni estremamente importanti nella geopolitica italiana (il Veneto, la Lombardia centrosettentrionale fino alla foce del Po) e compose quella specie di triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara sconfinando poi con Ancona e Pescara. (…). Le due questioni contrapposte denunciano l'esistenza da secoli di un Paese duale. Duale in tutto, nella sua storia, la sua economia, la sua cultura, la sua politica e perfino la sua etnia. Non è il solo in Europa e nel mondo, ma è stato quello che più ne ha risentito. Ho letto sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso un articolo di Ernesto Galli della Loggia intitolato "Il Mezzogiorno datato". Cito una frase di quell'articolo che traccia un crudele ma importante racconto: "Mi chiedo se al nostro presidente del Consiglio (oggi ex presidente del consiglio n.d.r.) è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell'Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se ha mai visto il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo, se ha mai dato un'occhiata all'ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L'addio al Mezzogiorno, prima che culturale è stato ideologico e politico". La citazione è lunga ma assai pertinente. (…). …nel 1963 l'Espresso effettuò un'inchiesta in varie puntate, affidata ai nostri più egregi redattori e collaboratori, con un titolo portante che diceva: "L'Africa in casa". Fu molto seguita a quell'epoca (oltre mezzo secolo fa). Descriveva la miseria del cibo, la presenza in tutte le case di topi, pidocchi e scarafaggi, le morti molto numerose di neonati e di bambini e infine la fame, diffusa fino agli ultimi giorni dell'esistenza. Fece molto chiasso quell'inchiesta e determinò anche qualche svolta politica, i cui prodotti furono non a caso chiamate cattedrali nel deserto e recarono semmai qualche beneficio all'economia del Nord: profitti alle banche e alle imprese, depositi bancari che affluivano agli istituti settentrionali, anche se il benessere del Sud non si spostò e le sue classi non si integrarono. Le cattedrali le costruiva lo Stato e quindi i fedeli (lavoratori) non avevano alcun dono ma i benefici del buon Dio andavano semmai riservati al Nord e/o alle già robuste organizzazioni mafiose. Se paragoniamo il reddito del Sud di oggi a quello di allora esso è certamente molto aumentato; ma se lo confrontiamo con quello del Nord il dislivello è enormemente aumentato. La questione meridionale non ha dunque fatto un solo passo avanti in tema di dualismo, cioè di diseguaglianza non solo tra i ceti ma tra le regioni. Gli ascari e gli emiri ci sono sempre, anzi sono cresciuti di numero; le organizzazioni mafiose hanno ancora al Sud il comando strategico, ma il grosso degli affiliati e dei loro comandanti in loco ormai si sono spostati a Torino, a Milano, in Emilia, in Veneto, ad Amburgo e a Marsiglia, e nel frattempo hanno intrecciato contatti di solidarietà con le mafie della Bolivia, degli Usa, del Kosovo, del Montenegro e infine della Turchia, della Russia e del Giappone. Questa esportazione è dunque ormai mondiale, il Mezzogiorno italiano ne è una delle centrali principali. L'Italia in cento anni ha guadagnato in termini di profitto e di benessere ma il Mezzogiorno ha perduto in denaro e in prestigio. È una terra nella quale vegetano milioni di persone perbene ma sono come anime morte: il potere ce l'hanno i truffatori e i capi delle clientele. (…). Per il Mezzogiorno qualcosa sarà fatto, ma il renzismo governa da tre anni e finora non si era neppure accorto di quell'Italia che comincia a Frosinone e continua a Pescara, a Taranto, a Cassino, a Gaeta, a Lampedusa, ad Agrigento, a Trapani, a Reggio Calabria, a Cagliari, a Sassari, all'Asinara e a Porto Empedocle. Adesso finalmente hanno capito che c'è, anzi finora l'Italia è stata soltanto quella che precede Bologna. Governeranno fino al 2028 (sic!, auspicio o iattura dell’Eugenio? n.d.r.), dunque un piano lo faranno e gli daranno anche inizio. Direi quindi che gli anni disponibili alla realizzazione degli obiettivi saranno quindici. Di solito però i loro annunci tardano tre anni prima di attuarsi, anche perché adesso sono in tutt'altre faccende affaccendati. È lecito dunque aspettarsi che l'annuncio inizierà la sua esecuzione nell'anno 2017. Undici anni per attuarlo, sperando che non sia ripetuto quanto avvenne tra Salerno e Reggio Calabria, progettata trent'anni fa e ancora in corso d'esser completata. Per risolvere la questione meridionale non ce la fece la destra di Ricasoli né la sinistra di Depretis, né Giolitti, né Mussolini, né Craxi. Di Berlusconi non ne parliamo. Ce la faranno Covello e Delrio? Speriamo. (…). Lo storytelling dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno si è fortunatamente interrotto il 4 di dicembre. Ora piomberanno, soprattutto sui più deboli, i reali, incancreniti problemi del Paese. Si pone in pari tempo un dilemma epocale – tanto per abusare di un’aggettivazione senza significato -: ma quei 19milioni e passa di italiani devono proprio amare tanto la loro Carta? Ché se fosse così si spiegherebbe con grandissima soddisfazione il fenomeno di rigetto che a dieci anni di distanza ha visto la cancellazione della “riforma” boschian-verdinian-renziana come allora (2006) venne bocciata la riforma dei quattro saggi di Lorenzago del Cadore. Ma è proprio così? O molto più semplicemente quei 19milioni e passa non ne potevano più di un istrione solo al comando come non ne poterono più di quell’altro istrione i milioni di italiani che bocciarono la riforma nel 2006. In quali termini sta il dilemma? L’amore per la Carta o lo schifo provato? #statesempresereni. Amen.

Nessun commento:

Posta un commento