"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 21 novembre 2016

Capitalismoedemocrazia. 57 “Il capitalismo secondo Donald”.



Quale aria buona e fresca e chiara si respira nel leggere gli scritti e le riflessioni di Mariana Mazzucato  - “Il capitalismo secondo Donald” – pubblicate sul quotidiano la Repubblica del 20 di novembre. Un’aria buona e fresca e chiara che rafforza pensieri posseduti e timidamente espressi, che non consente di abiurare ideologie ed idee ritenute oggigiorno morte solo per lo schiribizzo di seguire un gregge in transumanza. Per dove? È quello schiribizzo che ha portato a morte quella che un tempo veniva definita la “sinistra” della politica. Poiché, come sempre accade quando ci si accinge a scrivere dinnanzi ad uno schermo luminoso che sembra non concederti il tempo necessario a tenere assieme pensieri che sfuggono e parole che li materializzino, avevo provato a scrivere ed ho scritto – tra mille titubanze - nel post “Trump, noi tutti ed il ritorno al ‘900” del 2 di novembre, che era appena passata “‘a nuttata” elettorale: Ma Trump, da quale parte è stato allorquando le aziende di quel paese de-localizzavano per migliorare profitti e rapine negli angoli più diversi del pianeta Terra? La “pancia” di quell’elettorato non si è posta la domanda se Trump, che sul piano sociale è stato e lo è ancora dalla parte di chi ha selvaggiamente de-localizzato, ed impoverito milioni di americani del ceto medio, riuscirà ad imporre a quella sua stessa parte sociale scelte diverse  (di rientro) che immancabilmente dovranno essere “compensate” con un ulteriore restringimento dei diritti e delle retribuzioni dei lavoratori americani? Questa è stata la mia reazione alla notizia di quella elezione. Non di sorpresa per il risultato in sé, quanto per la “dabbenaggine” – che scrivo tra le famosissime virgolette per farmi perdonare -, innocente quanto si voglia, di quell’elettorato che pur arrabbiato oltre misura non si è posto quella semplicissima domanda e non abbia fatto a tempo ad addivenire alle conclusioni che magistralmente Mariana Mazzucato ci propone nel Suo pezzo. Poiché scrive che: La verità va cercata molto più vicino a casa: sono le azioni delle aziende americane, come la sua, la ragione di fondo dell’incapacità dell’economia di garantire un tenore di vita crescente agli americani comuni. Hanno fatto soldi estraendo valore, non creandolo. E dopo la crisi del 2008 il problema non ha fatto che aggravarsi. La rivoluzione del valore per l’azionista negli anni Ottanta ha prodotto un modello di governo di impresa che dà la priorità agli utili trimestrali rispetto agli investimenti in capacità produttiva. Le aziende spendono sempre più spesso i loro profitti, attualmente a livelli record, per il riacquisto di azioni proprie, per spingere in alto la quotazione del titolo azionario, le stock options e le retribuzioni dei manager. Tutto questo ha portato a un’economia finanziarizzata, che molte delle politiche di Trump, come l’abbassamento dell’aliquota sui redditi societari, non faranno che aggravare. Fino agli anni Ottanta i salari tenevano il passo della produttività, ma dopo non più, e i sindacati si sono indeboliti. Quando i salari non sono più riusciti a tenere il passo del costo della vita, per coprire l’ammanco è cresciuto l’indebitamento personale. Questo aumento dell’indebitamento personale ha dato vita a nuove tipologie di strumenti finanziari che succhiano via dal sistema la linfa vitale, portando a un’economia sempre più finanziarizzata. La crescita dell’intermediazione finanziaria in percentuale del Pil sopravanza la crescita del resto dell’economia. La globalizzazione del capitale (in contrasto con quella del lavoro) implica che quando la crescita stenta il capitale può andarsene altrove. Il comportamento di Trump — creare imprese, lasciarle fallire, evitare di pagare i fornitori, usare la normativa sui fallimenti per eludere le tasse per decenni e poi creare un’altra impresa da qualche altra parte — è il simbolo perfetto di questa forma di capitalismo improntata alla spoliazione delle attività. Al cuore del problema c’è la violazione del contratto non scritto tra capitale e lavoro (il senso di una condivisione degli obiettivi e dei benefici tra i lavoratori americani e i loro datori di lavoro) e l’incapacità, a essa collegata, di aiutare i lavoratori americani ad adattarsi ai cambiamenti strutturali e tecnologici. Non sono i robot il nemico. Il ragionamento che doveva essere fatto nel 2008 non è mai arrivato. Non si è fatto abbastanza per riformare il modello di capitalismo che è all’origine, di per sé, dell’ascesa di Trump.
Possiamo soltanto sperare che questa elezione finalmente apra gli occhi ai suoi avversari, facendo capire perché c’è bisogno di idee nuove. Perché non è questa l’unica strada. Per Trump il ruolo dello Stato si limita al protezionismo e al finanziamento di cose fondamentali come le infrastrutture, ma quello di cui c’è bisogno è uno Stato molto più attivo, in grado di affrontare i problemi della società attraverso investimenti in innovazione, per stimolare gli investimenti privati e dare una direzione alla crescita. Abbiamo bisogno di un deciso cambio di rotta in favore di una crescita trainata dagli investimenti, che sostituisca l’attuale modello trainato dai consumi e alimentato dal credito, che mette ancora più pressione sui più deboli. Combattere la disuguaglianza dovrebbe essere un obiettivo centrale della politica economica, per ragioni economiche che sono rilevanti quanto le ragioni sociali. Le aziende devono tornare a essere in sintonia con la società, dobbiamo instillare in loro un senso del dovere più ampio, che ricompensi la creazione di valore più che l’estrazione di valore. In altri Paesi, come la Germania e i Paesi scandinavi, esiste una forma più partecipativa di stakeholder capitalism, che prevede un ruolo per i lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese. Il trumpismo probabilmente è un’espressione politica esclusivamente americana, ma le disfunzioni del capitalismo che hanno favorito la sua emersione non sono una prerogativa degli Stati Uniti. Le soluzioni specifiche possono differire, ma le crepe dei modelli di capitalismo europei sono in buona parte le stesse. Ora più che mai l’Europa deve trovare il suo linguaggio e le sue politiche, se vogliamo risolvere la crisi politica, sociale ed economica su questa sponda dell’Atlantico. È così che Donald ha potuto vincere. Poiché, sparita dall’orizzonte politico quella che è stata la sinistra “pedagogica”, la sinistra di “contrasto”, la sinistra della “dialettica”, la sinistra delle “analisi” socio-politiche tutto è divenuto una maleodorante poltiglia all’interno della quale è facile fare lievitare e fermentare gli “spiriti” peggiori che assillano quel “legno storto” che è l’essere umano. Scrivevo ancora nel post del 9 di novembre: È certo che tempi perigliosi assai si annunciano. Occorrerebbe allora che si costruissero intese ed alleanze capaci di contrapporsi all’incombente pericolo. Intese ed alleanze tra chi? Nell’Europa che, in forma confusa vede ciascuno battere vie autonome e senza sbocchi precisi, sarebbe auspicabile che quelle forze di ispirazione e prassi politica che hanno realizzato la ricostruzione post-bellica e creato gli stati sociali che rimangono tuttora insuperati, riprendano dialogo e programmi comuni senza dei quali il ciclone Trump investirà ferocemente le nostre vite. Come sia possibile infatti credere – ma quella pancia d’America vi ha creduto - che il Trump d’America al pari di tutti gli “squinzi” d’Italia e d’Europa possano e vogliano invertire una direzione che essi stessi hanno creato con le bolle speculativo-finanziarie che, a datare dai tempi della famigerata Lehman Brothers Holdings Inc. (2008), attanaglia e stritola le nostre vite e le speranze di milioni di giovani occidentali? In questa ore il problema sul quale porre l’attenzione e le speranze è unicamente questo: quale baluardo sarà e dovrà essere costruito per fronteggiare il pericolo Trump? Con quali forze? Con quali idee ed ideali? Tanto, o quasi tutto, dipenderà da noi tutti. Questo sentivo di scrivere all’alba dopo “’a nuttata” americana. Ha scritto ancora Mariana Mazzucato: Trump ha vinto perché si è presentato, senza alcuna vergogna, come il paladino dei diseredati. (…). Ha incanalato e attizzato la rabbia incipiente, ha infiammato le divisioni razziali e sfruttato una percezione di bruciante ingiustizia verso un sistema “truccato” a sfavore della gente comune. È stato il sedicente vincitore che sa come si gestisce il sistema, l’uomo forte che solo può riuscire a rimetterlo in carreggiata. Per Trump, come per i fautori della Brexit, il nemico era l’esterno. I messicani, i cinesi (il più grande “furto” nella storia umana), i musulmani, perfino gli alleati della Nato. I temi economici e la sicurezza si mescolavano fra loro: è tempo di mettere i vagoni in cerchio, l’America e gli americani vengono per primi. Trump ha vinto perché ha offerto una narrazione plausibile, alle orecchie di molti, dei fallimenti della politica economica americana che ha lasciato indietro così tante persone, fallimenti che risalgono a trent’anni prima del tracollo economico del 2008. (…).

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