"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 4 ottobre 2016

Primapagina. 01 “Deutsche Bank, la caduta del gigante”.



Ora che, come suol dirsi, i “buoni sono scappati”, torna interessante ed istruttiva la ri-lettura di un dossier a firma di Tonia Mastrobuoni. Da “Deutsche Bank, la caduta del gigante”, pubblicato sul settimanale “Affari&Finanza” del 15 di febbraio 2016: (…). L'intreccio tra banche e Stato in Germania è da sempre fortissimo. Prima di imporre all'Europa il bail in, il principio per cui, per dirla con Schaeuble, non devono essere più i contribuenti a salvare le banche, Berlino ha riempito di soldi i suoi traballanti istituti di credito, che rischiavano di essere risucchiati dal gorgo della Grande crisi. Oltre 240 miliardi di euro sfilati dalle tasche dei contribuenti tedeschi che sono serviti a mettere a riparo non solo le medie e le piccole, le Landesbanken, le Sparkassen, la Ikb o la Hypo Real Estate, banche coi bilanci divorati dai derivati ormai senza prezzo per il crollo dei mutui spazzatura americani. Nel 2009 il governo Merkel fu costretto a tirare fuori più di 18 miliardi di euro per salvare la seconda maggiore banca del suo Paese, Commerzbank, dal fallimento. (…). …oggi è il caso di chiedersi dove sono finiti quei miliardi. Soprattutto: che fine avrebbe fatto la "tripla A" tedesca, se la prima e la seconda banca del Paese avessero accettato un salvataggio pubblico? Che la Germania abbia sempre preferito "spazzare davanti alla propria porta" - un'espressione rubata a Goethe con cui Merkel respinse nel 2008 la richiesta del presidente francese Sarkozy di trovare una soluzione comune per il terremoto bancario europeo - è noto. Persino quando l'Europa trovò miracolosamente la quadra per l'Unione bancaria, il 29 giugno del 2012, all'apice della crisi dell'euro, Schaeuble riuscì a tenere fuori dalla Vigilanza europea le banche tedesche più piccole, quei potentati locali, gelosamente controllati dalla politica, che sono le Landesbanken, ma anche le Sparkassen. Adesso che torna a vacillare Deutsche, è il caso di chiedersi se un gigante così grande potrà essere, nella peggiore delle ipotesi, fatto fallire come impongono le nuove regole europee. O se Merkel e Schaeuble, ancora una volta, interverranno, infischiandosene del corsetto che hanno fatto indossare a tutti gli altri. Per capire la potenza, la credibilità, anche l'arroganza dei suoi top manager, basti pensare che con una sola frase è stata in grado per decenni di affossare imperi.
Nel 2002 diede il colpo di grazia ad uno dei principali gruppi mediatici tedeschi, quello del magnate Leo Kirch, il Berlusconi tedesco. L'allora capo di Deutsche Bank, Rolf Breuer, espresse dubbi sul gruppo: in un'intervista televisiva sostenne che, a fronte della montagna di debiti che aveva, riteneva improbabile che qualcuno avrebbe concesso ancora del credito a Leo Kirch. Nel giro di pochi mesi, il magnate fallì. Dopo le parole di Breuer, nessuno gli volle più dare un centesimo. Lui trascinò la banca in tribunale e vinse. Deutsche fu costretta a pagare 925 milioni di euro agli eredi. Quello di Kirch è uno degli innumerevoli scandali che gravano sul nome di un istituto che vanta 146 anni di storia e che l'ultimo amministratore delegato, John Cryan, sta tentando disperatamente di riportare a galla dopo un ventennio di hybris. Dopo che l'obiettivo dichiarato - e fallimentare - formulato a partire dagli anni Novanta era stato quello di trasformare Deutsche Bank da nano a gigante globale, di ingrandirla a dismisura rincorrendo i colossi americani. Naturalmente, l'Eldorado erano allora i derivati e la banca francofortese ci si buttò a capofitto. Un piccolo gioiello cinematografico, tratto da un magnifico libro di Michael Lewis, che cattura benissimo quel momento è "The Big Short", diretto da Adam McKay: Ryan Gosling interpreta l'unico trader di una grande banca - Deutsche, appunto - così spericolato da azzardare scommesse finanziarie su un mercato apparentemente granitico come quello degli immobili americani. E in un'inchiesta del Senato statunitense sulle cause della Grande crisi, si legge che due banche avevano giocato un "ruolo chiave" nella costruzione dei titoli tossici che fecero collassare nel 2008 il sistema finanziario globale: Goldman Sachs e Deutsche Bank. Per capire la sensazione di intoccabilità dei suoi manager, basti pensare che una delle più famose gaffe diventate ad oggi il simbolo dell'arroganza universale dei banchieri, è imputabile ad un ex capo del colosso di Francoforte. Nel 1994, commentando il fatto che il fallimento di un costruttore finanziato dalla banca francofortese aveva lasciato 50 milioni di marchi (circa 25 milioni di euro attuali) di fatture non pagate ai manovali, Hilmar Kopper commentò, in inglese, che si trattava di "peanuts", "noccioline". Negli anni, gli illeciti si sono moltiplicati. Oggi una delle incognite che gravano sul futuro di Deutsche Bank è simile a quella che pesa sul maggiore gruppo automobilistico tedesco, Volkswagen. Esattamente come il gigante di Wolfsburg, caduto nella corsa per accaparrarsi lo scettro del gruppo automobilistico più grande del mondo e finito anch'esso nella polvere per hybris, per aver voluto illudere tutti di poter unire le migliori prestazioni con le regole più severe, la prima banca tedesca si è infilata nell'olimpo delle banche d'affari americane con un eccesso di zelo speculativo tale che anche oggi un terzo del bilancio è aggravato da derivati e strumenti opachi. Altro motivo di diffidenza, per gli investitori che stanno scappando in massa dal titolo. Ma il dossier più impressionante, effettivamente, è quello degli scandali. È quello che offusca l'orizzonte della banca: il costo delle cause è miliardario da anni e continuerà ad esserlo per molto tempo (come per Volkswagen). Ma contrariamente a Vw, accusata solo di manipolazione delle emissioni di gas di scarico, negli ultimissimi anni Deutsche Bank è finita sotto la lente degli investitori praticamente in ogni angolo del mondo per truffe, scandali, operazioni illegali di ogni tipo. Una delle accuse più pesanti, che le è già costata multe per oltre 3,5 miliardi da parte della Commissione europea, delle autorità di vigilanza britanniche e americane, è quella di aver manipolato, insieme ad altri istituti di credito, i tassi che vengono presi a riferimento dai mercati per le maggiori operazioni, Libor ed Euribor. Alle multe pubbliche, si aggiungeranno negli anni i risarcimenti chiesti da aziende e privati. In Svizzera, le autorità sono invece alla ricerca di dettagli su una possibile manipolazione del mercato dell'oro e dell'argento, ad opera dei manager di Deutsche Bank. Un capitolo molto buio degli anni recenti sono le attività in Russia. L'istituto tedesco è accusato dagli inquirenti di riciclaggio e di aver aggirato le sanzioni. Ma i francofortesi attendono anche con ansia la multa che potrebbero esseri costretti a pagare per un altro embargo non rispettato: quello con l'Iran. Nel 2012, quando venti volanti della polizia inchiodarono con le sirene spiegate davanti alla sede francofortese di Deutsche e un elicottero si fermò a mezz'aria sul grattacielo, fu il segnale al mondo che stava cominciando una perquisizione che terminò con sequestro di materiali e numerosi arresti. L'accusa: evasione fiscale collegata ai diritti di emissione dei gas Co2. Tra gli indagati, anche Juergen Fitschen, uno dei due amministratori delegati. Il manager alzò il telefono e chiamò infuriato il primo ministro dell'Assia, Volker Bouffier per lamentarsi dell'operazione: "Può danneggiare la reputazione della banca" gli sibilò nell'orecchio. E non c'era un filo di ironia, in quelle parole.

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