"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 10 settembre 2016

Scriptamanent. 42 “Orfani di leadership”.



Interessante questo numero di “scriptamanent”, un numero di “storia politica” passata o, molto più modestamente, di “cronaca politica”, un numero che propone uno scritto che risale all’era giurassica della politica, al 10 di settembre dell’anno 2010 – “Orfani di leadership”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” – a firma di Paolo Flores d’Arcais. Imperante l’uomo venuto da Arcore non esisteva segno del nuovo (sic!) emergente. Ma già allora esisteva quella propensione, dei cosiddetti democratici, all’inciucio politico, inciucio magistralmente realizzato dopo l’avvento dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. Un “pezzo” che è cronaca divenuta storia, da recuperare alla memoria giusto per non smarrire la dritta via. Da gustare. Scriveva Paolo Flores d’Arcais: L’offerta politica d’opposizione non è mai stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni, Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso, postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso. Oggi di opposizioni a Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. L’opposizione oggi più rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee (un fatto, ma falso). E tuttavia non sono pochi gli elettori tradizionalmente di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista. Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle nessuno.
Il Pd, dunque, ovvero il maggior partito della (non) opposizione. Il suo vizio di fondo è tutto qui. Eppure continua a raccogliere un quarto abbondante dei consensi di quanti dichiarano che parteciperanno al voto. E che tuttavia non perdono occasione per far capire ai dirigenti del partito che vorrebbero una politica ben diversa, definitivamente scevra da inciuci. E si ritrovano invece a dover ingoiare, nella “loro” festa, la presenza degli Schifani, come fossero degli statisti. Ma sui vizi ormai strutturali del ceto politico del Pd, comprese le new entries che spesso fanno rimpiangere i bolsi burocrati delle generazioni che li precede (sembra impossibile, ma è così) è inutile dilungarsi. (…). Resta la divaricazione – crescente – tra dirigenti (nazionali, regionali, provinciali, di quartiere, fatte salve le eccezioni canoniche e sempre più da lanternino) e militanti, tra dirigenti e potenziali elettori. Che restano un patrimonio insostituibile per l’opposizione, anche se oggi è un patrimonio congelato o sperperato, grazie a quei dirigenti che non riescono a rovesciare e che non si decidono ad abbandonare. La riprova di questo scarto è la travolgente simpatia che accoglie e circonda Nichi Vendola nelle feste dell’Unità e in ogni occasione a forte presenza di base Pd. Simpatia meritata e significativa. Meritata, perché Vendola incarna un riformismo che rifiuta l’inciucio, e può esibire un buongoverno regionale introvabile nel sud e sempre più raro anche altrove (probabilmente la Toscana e l’Emilia, e poco più). Significativa, perché Vendola ha vinto le primarie contro il Pd, e anzi direttamente contro D’Alema, ma con i voti di gran parte del “popolo Pd”. È convinto di poter ripetere il risultato della Puglia a livello nazionale. Ma qui viene fuori la debolezza della sua “narrazione”, difficilmente in grado di riunificare tutti i motivi di opposizione positiva a Berlusconi. Non per troppa radicalità, sia chiaro, ma per troppa vaghezza, di programmi e di staff. In concorrenza con Vendola c’è inoltre Di Pietro. La sua opposizione è l’unica che in Parlamento abbia coerenza, e a questo si deve perciò il raddoppio (e oltre) di voti alle elezioni europee, ma tale coerenza viene poi contraddetta con le scelte in fatto di dirigenti locali, in genere primatisti della transumanza da un partito all’altro, veri e propri fari di opportunismo e di imenoplastica politica. Di recente, dopo l’ennesimo scandalo che ha portato all’abbandono da parte di un parlamentare per diatribe interne Di Pietro, immaginando di formulare una domanda retorica, ha esclamato: dovrei cacciarli tutti? E invece la risposta è “sì”, un rotondo SÌ, perché solo liberandosi della gran parte dei dirigenti locali entrerebbero finalmente nell’Idv le energie dei nuovi elettori, nate nei movimenti di impegno civile, che lo schifo per i cacicchi locali tiene lontane dalla “militanza” nell’Idv. Resta l'opposizione di Grillo. Che però rifiuta programmaticamente alleanze possibili con chicchessia, nella convinzione che l’autoreferenzialità sarà il veicolo di un consenso al suo “movimento cinque stelle” tale da travolgere non solo Berlusconi ma ogni berlusconismo anche senza il ducetto di Arcore. Temo si tratti di un wishful thinking. Della sesta “opposizione”, quella “centrista”, quella di Cuffaro-Casini e di Rutelli-Montezemolo non vale davvero la pena parlare. Solo la stupidità ormai ciclopica dei dirigenti Pd può dare a tali figure un credito qualsivoglia. Dunque, sovrabbondanza di opposizioni, ma in realtà indigenza a tutt’oggi assoluta per la prospettiva di un’opposizione vincente. (…). Nessuno di quei sei leader può essere il leader che unifichi e porti alla vittoria una maggioranza “per la Costituzione”, i suoi valori e la sua realizzazione, che nel paese credo sia invece schiacciante. Come trovarlo, quel leader? Innanzitutto bisogna aver chiaro che non potrà nascere da alchimie partitocratiche. Troppo spesso si ragiona – con perfetta mancanza di realismo – come se i partiti fossero proprietari dei rispettivi pacchetti di voti. E dunque, il Pd più l’Udc fa... Invece i partiti prendono quei voti, ma da elettori totalmente disaffezionati (tranne ristrettissime clientele), elettori che non intendono affatto ubbidire alle manovre e agli accordi tra le varie oligarchie e nomenklature della casta. Elettori che il leader capace di sconfiggere se lo vogliono scegliere. Altrimenti molti di loro alle urne neppure ci andranno (il Pd in un pugno di anni ha perso qualcosa come cinque milioni di voti!). Ma questa non-rappresentatività dei partiti ha il suo lato positivo. Infatti ci sono incompatibilità fra gruppi dirigenti che non hanno un corrispettivo di incompatibilità tra gli elettori. Insomma, Bersani non riuscirà mai ad allearsi contemporaneamente con Di Pietro e con Casini, ma molti elettori di questi tre partiti non avranno alcuna difficoltà a unirsi sotto una leadership credibile per la realizzazione di un programma di “giustizia e libertà”. Perché quegli elettori, nella maggioranza dei casi, sono cittadini “senza collare”, senza fedeltà di appartenenze. La più estrema mobilità elettorale è oggi la costante. Le masse operaie di Sesto San Giovanni (la “Stalingrado d’Italia”!) sono passate a Forza Italia, alla Lega, poi di nuovo al centrosinistra, e magari schifate ora resteranno a casa. E la stessa cosa vale ormai ovunque nel Paese. Perciò il leader capace di unificare la voglia crescente e smisurata di archiviare per sempre il regime delle cricche e delle menzogne, non potrà che essere individuato fuori degli apparati, non potrà che venire dalla società civile, da un grande movimento e sommovimento di opinione pubblica. E infine, attraverso primarie vere.

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