"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 28 settembre 2016

Scriptamanent. 45 "Sono stato comunista, marxista, operaista".



Da "Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del '900", intervista di Antonio Gnoli al filosofo Mario Tronti pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 28 di settembre dell’anno 2014: (…). Si aspettava che la storia  -  la sua intendo  -  sarebbe finita così? "Ci si aspetta sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza l'airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo politico: non si può prescindere dai fatti".
E i fatti parlano oggi di una grande crisi. "Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po' tutti. Dura da almeno sette anni e non c'è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo un tempo senza epoca".
Cosa vuol dire? "C'è il nostro tempo, manca però l'epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, le banalità".
L'epoca è il tempo accelerato con il pensiero. "Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali".
(…). È un addio all'idea di progresso? "Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l'idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c'era prima".
Fu una delle fedi incrollabili del marxismo. "Fu la falsa sicurezza di pensare che la sconfitta fosse solo un episodio. Perché intanto, si pensava, la storia è dalla nostra parte".
E invece? "Si è visto come è andata, no?".
Si sente sconfitto o fallito? "Sono uno sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del '900".
E chi ha prevalso? "Il capitalismo. Ma senza più lotta di classe, senza avversario, ha smarrito la vitalità. È diventato qualcosa di mostruoso".
(…). Quando ha scoperto la sua parte? "Ero giovanissimo. Alcuni l'attribuiscono al mio operaismo degli anni Sessanta. Vedo in giro anche degli studi che descrivono il mio percorso".
In un libro di Franco Milanesi su di lei  -  non a caso intitolato Nel Novecento ( ed. Mimesis)  -  si descrive il suo pensiero. Quando nasce? "Ancor prima dell'operaismo sono stato comunista. Un padre stalinista, una famiglia allargata, il mondo della buona periferia urbana. Sono le mie radici".
In quale quartiere di Roma è nato? "Ostiense che era un po' Testaccio. Ricordo i mercati generali. I cassisti che vi lavoravano. Non era classe operaia, ma popolo. Sono dentro quella storia lì. Poi è arrivata la riflessione intellettuale".
(…). Dove ha fallito il '68? "C'è stata una doppia strada, entrambe sbagliate. Da un lato si è radicalizzato in modo inutile e perdente giungendo al terrorismo. Per me che sono appassionato del tragico nella storia lì ho visto l'inutilità e l'insensatezza della tragedia".
E dall'altro? "Alla fine il '68 fu il grande ricambio della classe dirigente. La corsa a imbucarsi nell'establishment".
Niente male come ironia della storia. "Sono i suoi paradossi e le sue imprevedibilità".
E il mito della classe operaia? La "rude razza pagana" come disse e scrisse. "Non era certo quella che noi pensavamo. Gli operai volevano l'aumento salariale, mica la rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del realismo politico".
Fu un addio alle illusioni? "Vedevamo rosso. Ma non era il rosso dell'alba, bensì quello del tramonto".

domenica 25 settembre 2016

Oltrelenews. 100 “Quel debito egoista che fa fare meno figli”.



Da “Quel debito egoista che fa fare meno figli” di Alessandro Rosina – professore ordinario di demografia e statistica sociale nella Università Cattolica di Milano -, pubblicato sul settimanale A&F del 19 di settembre 2016: Un paese in cui si fanno sempre meno figli e li si grava di crescenti costi, a quale futuro va incontro? Purtroppo l'Italia è una delle economie avanzate più vicine a questa situazione. Una rappresentazione chiara di come non riusciamo a trovare, oramai da troppi decenni, la strada di uno sviluppo virtuoso può essere fornita dall'andamento straordinariamente speculare di due indicatori apparentemente molto diversi: il debito pubblico e la fecondità. Ancora a metà degli anni Settanta il numero medio di figli per donna si trovava attorno all'equilibrio generazionale, ovvero pari a due, e il debito pubblico sotto il 60% del Pil, livello considerato generalmente accettabile per un'economia sana e un corretto rapporto tra generazioni di oggi e di domani. Alla fine degli anni Ottanta eravamo già diventati uno dei paesi al mondo con peggior combinazione di invecchiamento e indebitamento. Il punto più problematico viene toccato nella prima metà degli anni Novanta, quando il debito supera nettamente il livello del prodotto interno lordo e le nascite italiane scendono su un livello praticamente dimezzato rispetto ai livelli del baby boom. La fase successiva mostra come riforme e interventi non siano pienamente riusciti nell'obiettivo di invertire la rotta. La fecondità a stento si riavvicina a un figlio e mezzo e il debito alla soglia psicologica del 100% del Pil. Questa parentesi debole e incerta di risanamento e sviluppo viene però, di fatto, annullata dalla crisi. Ci troviamo ora in una condizione di problematicità analoga a quella di metà anni Novanta. L'evoluzione così straordinariamente speculare di questi due indicatori non è, verosimilmente, né causale né casuale. Sulle dinamiche osservate pesano i fattori che hanno compresso le nostre possibilità di crescita e allargato il gap, sia in ambito produttivo che riproduttivo, tra obiettivi desiderati e realizzazione effettiva. Durante i "Trenta gloriosi" - il periodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni Settanta - l'Italia si era rivelata capace, anche meglio di molti altri paesi, di mettere in mutua relazione positiva crescita economica, welfare e demografia. Alla fine di tale periodo non è stata però in grado di rimettersi in discussione, in un mondo che cambiava, ripensando il proprio modello economico e sociale. Questo ha frenato il potenziale contributo alla crescita delle due componenti più investite dai cambiamenti degli anni Settanta e successivi, ovvero i giovani e le donne.

sabato 24 settembre 2016

Sfogliature. 69 “Dell’avaro e dell’incurioso”.



La “sfogliatura” di oggi risale al 14 di settembre dell’anno 2011, di un mercoledì. Lo dichiaro subito: sono “preso” assai da Barbara Spinelli. Non mi si fraintenda: nel senso letterario, emotivo, culturalmente parlando. Poiché Barbara Spinelli è una straordinaria creatrice di prosa. Dopo averla ascoltata in occasioni diverse, leggere la Sua prosa poi è come riascoltare la Sua voce; nel Suo scrivere, c’è tutta la “prosodia” necessaria affinché la lettura, al pari dell’ascolto nelle affabulazioni, crei quei rapimenti dell’animo e della mente ad un tempo che solo la grande, grandissima prosa riesce a fare. La leggo sempre con un trasporto che ha dell’inusuale; aspetto i Suoi “pezzi” affinché, tramite essi, si possa passare per altri orizzonti, liberandoci delle inutilità di una realtà miserrima. La Sua prosa scava e scandaglia all’interno dell’anima; a tratti affabula pure, ma non concede evasione alcuna dalla sostanza delle cose e dai fatti che tramite essa, la Sua superba e sublime scrittura, vuole affrontare, sezionare per meglio osservare, nella viva carne delle cose vissute. Ed il Suo scrivere è magia di orizzonti nuovi, mai visti e neppure intuiti; è un inabissarsi verso quelle profondità del pensiero che solo ai Maestri riesce facile fare. Leggerla è come farsi rapire dalla Sua scrittura dotta ma al contempo di una leggerezza che ha del miracolo; il miracolo di una grande mente. Si è di recente superata Barbara Spinelli in quel Suo straordinario “pezzo” che ha per titolo “Le nostre metamorfosi” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”. Di seguito lo trascrivo in parte. È come se Barbara Spinelli avesse voluto attirarci  in un gioco letterario di alta qualità per poi condurci per mano alla discoverta del mondo nostro al tempo del signore di Arcore. Parte il moderno “aedo” conducendoci per mano alla lettura dell’ultima fatica di Eugenio Scalfari “Scuote l’anima mia Eros” – Einaudi (2011) -; a lettura ultimata, si scopre d’aver navigato nell’infido pelago nel quale sembra essersi inabissato quel che un tempo era nomato essere il “bel paese”. Inabissato con tutto ciò che su di esso ha trovato posto nel tempo trascorso; esseri umani e cose, dignità e legalità, solidarietà ed accoglienza. Tutto in un pauroso gorgo, sommerso dall’”avarizia” che nulla vede se non il proprio miserevole tornaconto.  Scrive la grande ad un certo punto: “Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti". Chi siamo divenuti al tempo dell’egoarca di Arcore? Sosteneva Giovanni Sartori in una intervista rilasciata al quotidiano “la Repubblica” il 21 di febbraio dell’anno 2004:

martedì 20 settembre 2016

Oltrelenews. 99 “Il populismo senza storia e senza cultura”.



Da “Il fantasma tedesco che bussa a casa nostra” di Ezio Mauro, sul quotidiano la Repubblica del 6 di settembre 2016: (…). Guerre, fame, carestie e povertà mettono in marcia e per mare milioni di persone che cercano una sponda di libertà dove appoggiare il futuro dei loro figli. L'Europa è la terra promessa naturale, geograficamente ma anche politicamente perché è un insieme di Paesi cristiani (la fraternità) che credono nella democrazia dei diritti (l'uguaglianza) e nella democrazia delle istituzioni (la libertà). Investita da quest'onda migratoria l'Europa non riesce a conciliare i suoi doveri morali di accoglienza con i suoi doveri politici, la sicurezza da garantire ai cittadini. Se aggiungiamo la sfida di morte che il terrorismo islamista ha dichiarato alla democrazia europea, con omicidi rituali nel cuore delle nostre città, comprendiamo facilmente che il riflesso d'insicurezza è ai livelli di guardia. Se pensiamo che la più lunga crisi economica del secolo si sta trasformando in una crisi permanente del lavoro, concludiamo che la misura è colma. Sia l'elemento simbolico - fortissimo - sia l'elemento reale, concreto, di queste tre crisi congiunte si scaricano soprattutto sulla fascia più debole della nostra popolazione. Gli anziani, le persone sole che vivono nei piccoli centri e con l'immigrazione si trovano sotto casa un mondo rovesciato che non avevano mai avuto modo di conoscere, e temono di perdere il filo identitario di esperienze condivise, smarrendosi in un'incertezza di comunità che li rende egoisti di futuro, esclusivi nel lavoro, gelosi del welfare, nato come strumento di solidarietà e oggi rovesciato nel suo contrario. Questi soggetti infragiliti dalle tre crisi tornano come all'inizio dello Stato moderno a chiedere protezione al potere pubblico, pronti a barattare quote di libertà (i muri che escludono, ma ci rinchiudono) in cambio di quote di sicurezza. Il problema è che la loro libertà in vendita non vale nulla al fixing degli spazi sovranazionali dove corrono i flussi delle informazioni e della finanza, e dove il potere non è un'entità afferrabile, riconoscibile e riconosciuta con cui negoziare. E il buon vecchio Stato nazionale, se anche fosse interessato allo scambio, non potrebbe garantire la sicurezza che gli viene richiesta, perché le tre crisi superano le sue dimensioni e la sua potestà di governance. La domanda - politica - di tutela e rassicurazione rimane dunque senza risposta. Ed ecco nello spazio vuoto il sentimento generale che oggi unifica l'Europa: la sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni siano più forti di chi li dovrebbe governare, ormai autonomi, che la politica e le istituzioni siano fuori gioco.

lunedì 19 settembre 2016

Scriptamanent. 44 “Saranno i migranti a salvare l’Europa”.



Da “Saranno i migranti a salvare l’Europa” di Thomas Piketty, sul quotidiano la Repubblica del 19 di settembre dell’anno 2015: (…). Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura. Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato. Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno. L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare?

domenica 18 settembre 2016

Scriptamanent. 43 “La democrazia dell’indifferenza”.



Da “La democrazia dell’indifferenza” di Nadia Urbinati, sul quotidiano la Repubblica del 18 di settembre dell’anno 2015: Oscar Wilde diceva che «il problema del socialismo è che impegna troppe serate ». L’accusa di far perdere tempo ai cittadini occupandoli di politica troppi giorni all’anno era ancora più calzante per la democrazia, anche per questo tradizionalmente poco apprezzata. A giudicare da quel che registriamo nelle nostre società, il problema della panpolitica sembra definitivamente risolto. La situazione è anzi rovesciata: la democrazia non interessa più così intensamente, e la politica occupa pochissimo del tempo dei cittadini, lasciandoli anzi progressivamente più indifferenti. La fine della democrazia dei partiti ha completato il ciclo dell’interesse per la politica e sancito l’età del disimpegno. L’indifferenza verso la politica è oggi l’emozione più popolarmente estesa, (…). La democrazia dei partiti è passata. I partiti persistono, benché siano sconnessi dalla società larga, protagonisti di battaglie che sempre più spesso mirano a rafforzare il loro potere istituzionale. (…). L’indifferenza è la cifra della democrazia odierna. Impoverita di partecipazione, depotenziata di efficacia a causa della fine della democrazia dei partiti, la cittadinanza è resa ad arte luogo di emotività a sostegno o come contorno di leader, svuotata di effettivo interesse perché depauperata del potere di influenza. I “partiti cartello” svolgono essenzialmente solo la funzione di cooptazione del personale politico da portare nelle istituzioni, che cercando di adattare più che possono a questa nuova loro identità, sancendo nelle norme la diminuita rilevanza del cittadino come agente di sovranità. A questa riconfigurazione del partito tutta interna alle istituzioni corrisponde una caduta di interesse dei cittadini per la politica, in larghe fasce di popolazione una vera e propria indifferenza verso la democrazia e le sue regole. Un termine, questo di “indifferenza”, che non denota necessariamente reazione contro la politica, uno stato emotivo che è tutto sommato espressione di una qualche pulsione mobilitante. Del resto, gli avvenimenti politici appaiono impermeabili all’influenza dei cittadini e lo stesso voto sembra poco incisivo e di fatto non identificato con la più importante espressione di sovranità. Fareed Zakaria ha addirittura scritto che il modello occidentale di democrazia potrebbe a questo punto fare a meno anche degli elettori, poiché il suo centro sono gli istituti di controllo più che gli organi elettivi. Alcuni studiosi parlano infine di una trasformazione della rappresentanza, sempre meno associata alla formazione delle assemblee legislative e al voto e sempre più intesa come rappresentazione simbolica di questioni o rivendicazioni ( claim representation ), mezzo per sollevare problemi più che per convogliarli verso la decisione. La politica si spezza in due: quella che determina le decisioni che è sempre più un affare dei pochi che i partiti-cartello captano e cooptano; quella che giudica e commenta da fuori con scarsa o alcuna influenza e che è esercitata dai cittadini nei luoghi di opinione non direttamente politici, come le associazioni, i blog o i social network. Con l’esito che chi decide non ascolta e chi da fuori osserva e giudica non è ascoltato.

martedì 13 settembre 2016

Sfogliature. 68 "Il vuoto di un ventennio”.



La “sfogliatura” di oggi risale al mercoledì 28 di settembre 2011. Scrivevo a quel tempo: Sapete di già che l’intestazione di questa sezione del blog (“doveravatetutti” intestazione ripresa per questo blog approdato successivamente alla data del 28 di settembre 2011 su di un’altra piattaforma n.d.r.) è presa di peso dal volume che ha per titolo “Dove eravate tutti” di Paolo Di Paolo di recente pubblicazione presso Feltrinelli (2011) – pagg. 224 € 15,00 -. Ho avuto modo di leggere sul quotidiano “la Repubblica” una intervista dell’Autore rilasciata ad Antonio Tabucchi, quello di “Sostiene Pereira” e tanto altro ancora. Titolo dell’intervista, che di seguito trascrivo in parte:”Quel che resta del Paese di colpo grosso". Paolo Di Paolo è uno scrittore giovanissimo essendo nato nell’anno 1983. Al tempo della “discesa in campo” dell’unto Paolo Di Paolo è grosso modo un ragazzetto che ha avuto però tutto il tempo per assorbire, subendolo, il “potere” instaurato nel bel paese. Dove eravate tutti? L’interrogativo manca nel bel libro di Paolo Di Paolo. È mio. Ed è la domanda che dovremmo cominciare a porci ed a porre ora che l’avventura dell’unto sembra volgere al termine. Oggigiorno è tutto un innalzare al cielo altissimi lai e reprimende severe. Da parte di chi? Da parte di tutti quelli dai quali sarebbe interessante sapere “dove eravate” negli anni del tempo dell’unto? Che è ancora il tempo dell’unto. È ancora lì a dimenarsi come un mostro in agonia. E così quelli della Confindustria; e così quelli della chiesa di Roma. È tutto un susseguirsi di sdegnate prese di posizione contro quel mondo senza onore e carità creato nel bel paese da tristi personaggi simili in tutto a quei personaggi della celluloide che il grande regista russo Aleksandr Nikolayevič Sokurov – “Leone d’oro” a Venezia 2011 con il Film “Faust” – rappresenta magistralmente nella Sua memorabile opera “Moloch”. Il “moloch” de’ noantri. Afferma Paolo Di Paolo:

domenica 11 settembre 2016

Paginatre. 49 “Bikini&burkini”.



Da “L’Islam, il Cristianesimo e la polemica sul burkini” di Vito Mancuso, sul quotidiano la Repubblica del 26 di agosto 2016: (…). «Voglio (l’alata parola di San Paolo n.d.r.) che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei). Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta. L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime» (4,34). Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile.

sabato 10 settembre 2016

Scriptamanent. 42 “Orfani di leadership”.



Interessante questo numero di “scriptamanent”, un numero di “storia politica” passata o, molto più modestamente, di “cronaca politica”, un numero che propone uno scritto che risale all’era giurassica della politica, al 10 di settembre dell’anno 2010 – “Orfani di leadership”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” – a firma di Paolo Flores d’Arcais. Imperante l’uomo venuto da Arcore non esisteva segno del nuovo (sic!) emergente. Ma già allora esisteva quella propensione, dei cosiddetti democratici, all’inciucio politico, inciucio magistralmente realizzato dopo l’avvento dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. Un “pezzo” che è cronaca divenuta storia, da recuperare alla memoria giusto per non smarrire la dritta via. Da gustare. Scriveva Paolo Flores d’Arcais: L’offerta politica d’opposizione non è mai stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni, Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso, postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso. Oggi di opposizioni a Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. L’opposizione oggi più rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee (un fatto, ma falso). E tuttavia non sono pochi gli elettori tradizionalmente di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista. Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle nessuno.

venerdì 9 settembre 2016

Sfogliature. 67 “Esercizio di memoria”.



Questa “sfogliatura” risale al 13 di ottobre dell’anno 2011. Era di un giovedì. Aveva scritto in precedenza Stefano Rodotà sul quotidiano “la Repubblica” del 26 di luglio dell’anno 2010 un “pezzo” che portava per titolo “Quel bavaglio sul pensiero”: “(…). Oggi, (…), parlare di questione morale è descrizione inadeguata alla realtà che abbiamo di fronte. Nell'indifferenza pubblica, la questione morale è divenuta questione criminale nel senso tecnico dell'espressione. La via difficile della ricostruzione d'una moralità civile, di un'etica pubblica, passa dunque attraverso l'accertamento puntuale e rigoroso delle responsabilità da parte della magistratura. Giustizialismo? Nessuno vuol negare a indagati e imputati tutte le garanzie. Ma garanzia è cosa assai diversa da impunità assicurata attraverso la manipolazione delle norme. (…)”. Nella “sfogliatura” di seguito proposta scrivevo: “Doveravatetutti” è esercizio di memoria. Poiché cancellare o tacitare forzatamente la memoria è come perdere la bussola per il navigante. È un andare avanti senza una meta precisa, uno zig-zagare come l’uomo ebbro nel buio della notte. È pur vero che ostinatamente si è alzato il gomito collettivamente; una fetta enorme di popolo ebbro e senza una meta. È stato il desiderio frustrato di coltivare un impossibile sogno. Ora il sogno è finito. La realtà dura impone oggigiorno l’esercizio della memoria. Per interrogarci ed interrogare: “doveravatetutti”? Da il “Diario di un’americana a Roma (2001-2006)” – Edizioni l’Unità (2008) pagg. 320 € 7,50 - di Alice Oxam: “13 ottobre 2005 La legge truffa (la cosiddetta legge “porcata” n.d.r.) è stata approvata dalla Camera con i voti della maggioranza”. Oggi alla Camera è stato disertato, da parte di tutte le opposizioni, il discorso del signor B. che ha parlato solamente ai suoi, che lo hanno applaudito ben tredici volte nel corso del discorso di soli 18 minuti. Un applauso ogni minuto primo. La “maggioranza” c’è, a suo dire; è il bel paese che non c’è più. Non interessa. Esercizio della memoria. Scriveva il 2 di marzo dell’anno 2010 Francesco Merlo sul quotidiano “la Repubblica” un editoriale che ha per titolo “Il silenzio fazioso”. Si erano all’epoca approntate misure severe contro la libertà di stampa e di informazione in occasione di una tornata elettorale amministrativa:

mercoledì 7 settembre 2016

Lavitadeglialtri. 11“Il talento di Ahmed ed i tristi figuri a Ventotene”.



Ha scritto Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di settembre ultimo nel “pezzo” che ha per titolo “Ma quelli del manifesto di Ventotene oggi sarebbero manganellati in piazza”: (…). L'Europa che si è formata o deformata in questi anni è la  negazione assoluta del progetto originario, federale e socialista.  È una non federazione pensata e realizzata  per rendere più ricche le nazioni dominanti, la Germania in testa, e più povere le già povere (Grecia e tutto il Sud), per aumentare l'ingiustizia sociale all'interno delle nazioni  e per smantellare, insieme al welfare, un secolo di conquiste sindacali, in nome di un sacro credo liberista. Non si tratta di opinioni, ma di cifre e statistiche facilmente consultabili nella biblioteca del parlamento europeo a Bruxelles. Che cosa c'entra tutto questo col manifesto di Ventotene? Nulla. Ed è il nulla infatti che i tre spinelliani immaginari (Angela Merkel, Francois Hollande e l’uomo venuto da Rignano sull’Arno n.d.r.) hanno celebrato davanti alle telecamere, mentre dietro Hollande e Renzi trattavano piccoli favori con la Merkel, in cambio di grandi, per non perdere le prossime elezioni. Che è un po' come negoziare un posto più vicino all'orchestra sul Titanic. L'immagine dello show è un'Europa vecchia, stanca e cinica che corre a imbellettarsi per rispondere allo schiaffo terribile della Brexit, senza riuscire per questo a sembrare né più giovane né più attraente, ma al contrario ancora più decrepita. Per quanto può durare senza cambiare davvero nulla? Nessuno può saperlo, ma forse neppure un'altra legislatura europea. È solamente patetica ed al contempo tragica la politica seguita e messa in atto da quei figuri sulla tolda di una nave da guerra. Quegli stolti hanno dimenticato la lezione della Storia, hanno dimenticato quanto dolore e morte l’ottusità di una certa politica – magistralmente denunciata da Curzio Maltese - hanno portato nella culla della civiltà, l’Europa. Hanno dimenticato gli stolti quanto quell’immenso Bertold Brecht ci ha lasciato quale perenne memoria: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare”.

martedì 6 settembre 2016

Scriptamanent. 41 “Giuda e l'autonomia della politica”.



Da “Giuda e l'autonomia della politica” di Eugenio Scalfari, sul quotidiano la Repubblica del 6 di settembre dell’anno 2012: (…). …due versi d'un sonetto di Gioacchino Belli, scritto a difesa degli ebrei accusati da secoli di deicidio: "Se Cristo era venuto pè morì / quarcheduno l'aveva da ammazzà". Se la nostra vita è dominata dal destino, cioè è già scritta, l'enigma rappresentato da Giuda è irrisolvibile. O meglio, sancisce la non punibilità e l'irrilevanza delle opere ai fini della salvezza nel regno dei cieli. Dio ha già deciso tutto prima ancora che il tutto avvenga; ha deciso anche come dispensare la grazia e sarà la grazia a consentire alle anime prescelte di bearsi nella luce del Signore. È vero che insieme alla grazia riservata ai prescelti il Dio cristiano ha dato a tutti la libertà di decidere i propri comportamenti. Dio, ovviamente, sa già quale sarà la decisione, ma consente che i figli di Adamo la prendano assumendone la responsabilità. Attenzione: non Adamo. Adamo aveva ricevuto l'ordine di non mangiare i frutti dell'albero. La libertà di scelta non l'aveva. Trasgredì cedendo alla tentazione di Eva e del serpente. Fu scacciato dagli angeli e balzò nella storia insieme alla sua compagna; da meraviglioso animale diventò persona dotata di pensiero con tutto che ne seguì a cominciare da Caino e Abele. (…). Allora: Adamo come Giuda, anzi Giuda come Adamo? Due prescelti a farsi strumento necessario del disegno divino? Chi mai può dire - tra quanti credono nel Dio cristiano - se quei prescelti sono stati puniti o accolti nella grazia del Dio misericordioso? Adamo sicuramente sì: il Figlio di Dio diventa figlio dell'uomo proprio per assumere su di sé il peccato commesso all'origine dei tempi e ripristinare l'alleanza di Dio con le sue creature. A condizione che cessino di peccare. In che modo possono adempiere a questa condizione? Lo dicono i Vangeli che raccontano il discorso della Montagna: scegliendo la "carità" come canone primario della nuova morale. La carità, cioè l'amore del prossimo, l'amore per gli altri è il solo modo d'amare il Dio cristiano infinitamente misericordioso. Ma Giuda non ha amore per gli altri. Giuda ha una visione "politica", appartiene ad una setta nazionalista, vuole cacciare i Romani, disprezza i membri del Sinedrio, spera che Gesù si metta alla testa di quel movimento. Quando vede che il presunto Messia persegue tutt'altra strada, allora lo tradisce. Non c'è carità nell'animo politico di Giuda. Quindi è punibile e forse punito. (…).

lunedì 5 settembre 2016

Scriptamanent. 40 “#ci dica, Renzi, ci dica”.



Da “Balle spaziali” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del 5 di settembre dell’anno 2015: Ormai vale tutto. Anche riabilitare, come fa il presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi,“il Berlusconi prima maniera” perché “parlava di cose che interessavano gli italiani”, mentre “ora non fa altro che parlare di Italicum”. Ora, a parte il fatto che non risultano dichiarazioni di B. sull’Italicum (ultimamente s’è occupato di Milan, e anche di Rai in tandem con Renzi), se B. ne parlasse sarebbe perché l’ha scritto metà lui tramite Verdini e metà Renzi tramite la Boschi. Ma soprattutto:quale sarebbe il B.“prima maniera” da rivalutare? Quello che parlava con Dell’Utri di stallieri,con Mangano di cavalli, con Previti di giudici e sentenze in saldo, con Gelli di grembiulini e compassi, con Craxi e Squillante di conti offshore comunicanti in Svizzera?O quello che nel gennaio’94, prima di scendere in campo, trasformò le sue tv e i suoi giornali in un gigantesco comitato elettorale e cacciò Montanelli dal Giornale perché non voleva trasformarlo in house organ di Forza Italia?O quello che,vinte le elezioni e salito al governo per la prima volta, tentò di nominare Previti ministro della Giustizia e si comprò la maggioranza al Senato (che non aveva) nominando ministro Tremonti e sottosegretario, eletti contro di lui nel Patto Segni e nel Ppi? E appena insediato a Palazzo Chigi occupò la Rai licenziando anzitempo il Cda dei Professori,poi impose il  decreto Biondi che vietava le manette ai tangentari per evitare l’arresto di suo fratello e dei suoi manager per le mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, poi varò il condono edilizio e quello fiscale, poi fu inquisito per le Fiamme Sporche e scatenò la guerra termonucleare contro il pool Mani Pulite e quella dei dossier contro Di Pietro?Quello che, rovesciato da Bossi, fece lapidare anche lui dalle sue tv e, dopo aver scelto come premier del nuovo governo tecnico il suo ex ministro Dini, gridò al “ribaltone” e diede del “golpista” al presidente Scalfaro? Ci dica, Renzi, ci dica. Ormai vale tutto. Anche proclamare, come fa il presunto ministro dell’Interno Angelino Alfano contro l’amnistia del Papa:“I detenuti devono scontare interamente la pena”. Sagge parole, se non venissero da chi nel 2006 votò insieme al centrosinistra (tranne Di Pietro e il P-cdi) il più ampio e indiscriminato indulto della storia della Repubblica,e poi tutti e quattro i decreti svuota carceri dell’ultimo quinquennio: grazie ai quali un condannato, per finire in galera, deve totalizzare una pena superiore a 5 anni, cioè deve scannare qualcuno. Se invece si limita a rubare, rapinare, spacciare, molestare o lucrare sui clandestini come scafista, non finisce dentro neppure se insiste.

sabato 3 settembre 2016

Scriptamanent. 39 “Lasciamo entrare i barbari alle porte”.



Da “Lasciamo entrare i barbari alle porte” di Philippe Legrain - economista e scrittore – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di settembre dell’anno 2015: “I barbari hanno aperto una breccia nel muro. L’Europa è invasa. Sono a rischio la nostra civiltà e la nostra prosperità. È questa l’essenza dell’ondata di panico morale scatenata dai richiedenti asilo indesiderati che questa estate hanno stretto in una morsa l’Europa. Ma invece di considerare questi coraggiosi e avventurosi nuovi arrivati come una minaccia, gli europei dovrebbero considerare con favore il contributo che potrebbero dare. Finora nel 2015 circa 340.000 persone hanno tentato di entrare senza permesso nell’Unione europea. In tutto il 2014 sono stati 280.000. L’Unione europea ha 28 Paesi con una popolazione di 508 milioni, gli immigrati indesiderati di quest’anno sono quindi pari allo 0,07% della popolazione. Statisticamente, in una folla di 1500 persone solo una sarebbe un immigrato clandestino. La maggior parte di coloro che cercano rifugio in Europa provengono dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Eritrea. I siriani fuggono da una sanguinosa guerra civile e dal barbaro eccidio a opera dei miliziani dello Stato Islamico. L’Afghanistan è sconvolto dalla violenza dei talebani con i loro alleati di al Qaeda e gli esponenti locali dell’Isis. L’Eritrea vive sotto una brutale dittatura. L’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, Unhcr, riconosce che è in corso la più grande crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale. Ma riguarda soprattutto Paesi al di fuori della prospera e sicura Europa. Sei rifugiati su sette approdano nei Paesi poveri. La Turchia ospita 1.600.000 rifugiati rispetto al milione e mezzo di tutta l’Europa. Il minuscolo Libano ha accolto 1.200.000 rifugiati, oltre un rifugiato ogni quattro abitanti. Nel frattempo la Gran Bretagna sembra percorsa da un attacco isterico per i 3.000 rifugiati accampati a Calais. Il numero di persone che cercano rifugio in Europa è modesto anche in rapporto ai molti milioni di europei sfollati e rifugiati all’estero dopo la seconda guerra mondiale e ai milioni costretti a lasciare la propria casa dopo il crollo del comunismo e le guerre nell’ex Jugoslavia negli anni 90. Come dimenticano in fretta gli europei!

venerdì 2 settembre 2016

Capitalismoedemocrazia. 56 “La sapete quella del lampione? Una barzelletta spiega la crisi”.



Scriveva Jean-Paul Fitoussi in “La sapete quella del lampione? Una barzelletta spiega la crisi”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di settembre dell’anno 2013: Viviamo in tempi irragionevoli, nei quali la più grande miseria vive accanto alla più grande ricchezza e ciascun Paese è un modello in scala del mondo, diviso in diversi livelli di povertà. Una parte della popolazione dei Paesi sviluppati, ancora piccola ma crescente, è in pericolo. Trova difficile accedere alla sanità e dipende dalla carità altrui per nutrirsi, vestirsi o dormire. Il numero di lavoratori poveri continua ad aumentare: vivono in auto, oppure occupano alloggi malsani. Significa che i nostri sistemi non sono più in grado di garantire la sopravvivenza di tutta la popolazione? (…). È dunque tutto irragionevole quel che accade al mondo oggi: il livello di disuguaglianza e quello di disoccupazione, la massa delle carriere interrotte, il numero incredibile di persone che non riescono nemmeno ad avviarne una o di quanti si arenano a qualche anno dalla pensione, l' enormità delle fortune accumulate, l'oscenità di alcune remunerazioni, l'insicurezza generalizzata che regna nei Paesi ricchi. Siamo diventati più egoisti, o ci siamo abituati a questa evoluzione del nostro ambiente avendo perso la speranza di poterlo cambiare? (…). Da tempo, seguendo il pensiero dominante,i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica - che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil - e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. Si sa quel che è accaduto. La stabilità dei prezzi si è rivelata compatibile con la massima instabilità economica e finanziaria. La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta. Non erano stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per le società. Come la luce delle stelle morte ci arriva ancora molto tempo dopo la loro fine, quella di teorie invalidate a più riprese dai fatti continua a espandersi. Una società composta di folli razionali sarebbe una società spietata, di diffidenza generalizzata e di continua paura. (…). È giunto il momento di valutare le conseguenze delle politiche che i nostri governi portano avanti riguardo a questi due obiettivi maggiori: il benessere e la sostenibilità. (…). Mi sembra che le politiche di austerità condotte attualmente in Europa influiscano negativamente sia sul benessere sia sulla sostenibilità. L' irragionevolezza e la cecità hanno progressivamente costruito il mondo poco ospitale nel quale viviamo oggi. Tranne qualche eccezione, continuiamo ciò nonostante ad agire come se ci trovassimo nel mondo di prima, come se le crisi che abbiamo attraversato una dopo l'altra non fossero che parentesi destinate a richiudersi al piú presto. Onestamente, possiamo ancora credere a questa chimera?