"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 12 giugno 2016

Sfogliature. 60 “Costituzione e popolo”.



Correva l’anno… Correva l’anno 2006, giusto un decennio addietro. Ed in quell’anno lì, nel mese di giugno proprio, si teneva un referendum nei giorni all’uopo destinati del 25 e del 26 sulla grande riforma costituzionale inventata dai “quattro saggi” in quel di Lorenzago del Cadore. I quattro saggi “costituzionalisti”, ovvero i molto onorevoli Andrea Pastore (Fi), Francesco D'Onofrio (Udc), Roberto Calderoli (Lega), Domenico Nania (An). Sotto l’illuminata regia del signore venuto da Arcore, mentore del signore venuto da Rignano sull’Arno un decennio dopo. Ripassatevi bene le generalità dei “quattro saggi”: riconoscete in essi illustri studiosi costituzionalisti? Di certo tornerà alla memoria vostra solamente quel Giulio Tremonti, inventore della “finanza creativa”, che sovrintendeva all’allegra brigata di buontemponi come padrone di casa ed organizzatore con il beneplacito del’uomo venuto da Arcore. Vi sembrerà impossibile che una riforma costituzionale fosse elaborata esclusivamente con l’apporto di quei quattro bontemponi? Allora il gergo corrente della politica non utilizzava termini quali “rottamazione”, “gufi”, “rosiconi”, “professoroni” etc. etc. Erano certamente altri tempi, ma l’insegnamento ed il lascito di quei tempi sono stati ripresi diligentemente allorquando l’Europa provvide a sbaraccare quella masnada al governo. Avevate di già rimosso quegli avvenimenti? 10 anni sono troppi da tenere alla memoria? Rinvenite tra quei “quattro saggi” di Lorenzago del Cadore un qualcuno che all’epoca appartenesse alla opposizione? Eppure si riformava la “Carta”, ovvero quelle regole che avrebbero dovuto dare la dritta per la legislazione nel bel paese indipendentemente dalle maggioranze politiche del momento. Avveniva invece tutto nel silenzio odoroso – forse – ed ombroso di una discreta baita di montagna. Lavorarono così bene quei “quattro saggi” – si fa per dire - di Lorenzago del Cadore che al referendum del 25 e del 26 di giugno di quell’anno il “popolo sovrano” – con inattesa resipiscenza - spazzò via quella riforma costituzionale che sapeva di grappa, lardo e polenta e di niente altro. Ed il 24 di giugno di quell’anno che è stato santo davvero, al sabato precedente il referendum e prima ancora che “spirasse” questo blog nelle oscurità infinite della rete, postavo un “Appello per il referendum del 25 e 26 di giugno” che portava per titolo “Che popolo immagina la Costituzione della destra” a firma di Gustavo Zagrebelsky, scritto che era stato pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” giusto il  23 di giugno e che ora ripropongo in questa “sfogliatura” referendaria. Ravvisate analogie con quanto sta accadendo ai nostri giorni? Scriveva allora il professor Zagrebelsky:
(…). Quali sono dunque le pulsioni profonde che la riforma costituzionale viene a solleticare o lusingare? a) Innanzitutto la servilità. Un popolo è servile se si rallegra di poter scegliere, ogni cinque anni, un capo al quale conferire poteri illimitati. Non sembri una sintesi esagerata. Questo nuovo capo è denominato "primo ministro", ma il potere personale che questo nome innocente indica è tale da far paura. Egli dispone dei ministri a suo piacimento, nominandoli quando gli sono graditi e revocandoli quando gli diventano sgraditi. A suo piacimento dispone anche dei rappresentanti del popolo perché ogni dissenso nei suoi confronti si può concludere con il loro licenziamento, lo scioglimento della Camera e nuove elezioni: il diritto di critica è dunque ammesso, ma chi lo eserciterebbe, quando il prezzo è il suicidio? Non può invece accadere il contrario, cioè che siano i rappresentanti del popolo a licenziare il capo e a sostituirlo con un altro. Questa ipotesi è bensì prevista, ma come pura ipotesi di fantasia: occorrerebbe un voto a maggioranza assoluta dell´Assemblea, senza l´apporto dell´opposizione, cioè da parte della stessa compatta compagine che fino ad allora è stata al seguito del capo. Il che è quanto dire che non potrebbe realizzarsi mai. Si dirà: prima di parlare di regime autoritario, si noti almeno che questo capo è pur sempre scelto con un´elezione, ogni cinque anni. Ma ciò significa solo che quel popolo che se ne rallegrasse, lo farebbe perché trova gioia nel ripetersi, cioè nell´insistere nella sua servilità. Varrebbero le parole che Rousseau indirizzava al popolo inglese del suo tempo: «pensa di essere libero, ma si sbaglia di grosso. Non lo è che durante l´elezione dei membri dei Parlamento. Appena sono eletti, è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, per l´uso che ne fa merita di perderla» (Contratto sociale, libro III, c. XV). b) In secondo luogo, l´insicurezza e l´aggressività, degli uni verso gli altri. Ogni elezione di capo dai poteri illimitati tramite un´investitura popolare trasformerebbe l´elezione in conflitto in cui ciascuno avrebbe tutto da sperare ma anche tutto da temere, a seconda dell´esito. La propria sopravvivenza sarebbe legata alla soccombenza degli avversari e così l´insicurezza si esprimerebbe in aggressione. L´ultima tornata elettorale cui abbiamo assistito sgomenti già ci ammonisce come una sia pur parziale primizia. Gli strumenti dello scontro sarebbero i più rozzi, irrazionali e semplicistici: amore-odio, bene-male, amici-nemici. Ecrasez l´infame! potrebbe diventare la parola d´ordine dei due schieramenti che si demonizzano reciprocamente. Né potrebbe farsi troppo conto sulle istituzioni di controllo, per mitigare i poteri del vincitore e, con ciò stesso, l´asprezza del confronto. Questo accade in effetti in diversi regimi, dove pure i cittadini eleggono il capo del loro governo. Ma lì esistono pesi e contrappesi, tradizioni e cultura politica che ne bilanciano il potere. E da noi? Il Presidente della Repubblica è reso dalla riforma una figura marginale. La Corte costituzionale, con una modifica della sua composizione, viene allineata alla maggioranza politica. La magistratura, al di là delle riforme che la riguardano, sarebbe intimorita da una concentrazione di potere politico, collegata all´investitura popolare diretta, sconosciuta negli altri Paesi che si dicono democratici. L´uguaglianza di fronte alla legge, che già non è propriamente il punto di forza delle nostre istituzioni, si ridurrebbe a principio-beffa. Il Parlamento, infine, abbiamo già visto essere reso nullo nella sua funzione, che è sempre stata la sua essenziale, di garanzia contro gli abusi del governo. Quando gli assurdi rapporti tra Camera e Senato previsti dalla riforma glielo consentissero, legifererebbe, ma sempre e solo agli ordini del capo del governo. Ogni appuntamento elettorale, data l´enormità della posta in gioco, si risolverebbe in dramma o in tragedia. Più che la Gran Bretagna, la Francia o la Spagna, ci darebbero il benvenuto taluni Paesi del Sud America o dell´ex-blocco sovietico. c) Lo spirito cortigiano. La riforma promette un´alternanza tra lo scontro elettorale e il ruere in servitium, a cose fatte. Si potrà deplorare la disposizione a cambiare casacca a seconda del momento ma, d´altra parte, che cosa si può pretendere quando il vincitore può tutto, da lui dipendono la fortuna o la rovina della tua azienda, della tua banca, del tuo giornale, della tua casa editrice, della tua carriera? Se e fino a quando sei nelle sue mani, cercherai di ingraziartelo, almeno fino al momento in cui, pensando che stia per cadere in disgrazia, non hai più nulla da ottenere o da temere da lui. Quando nuovi capi sono all´orizzonte, i cortigiani che ti hanno adulato diventano serpenti velenosi. d) L´atteggiamento impolitico e qualunquista. Nessun Parlamento al mondo è tanto umiliato quanto quello che deriverebbe dalla riforma. Non controlla ma è controllato; se legifera, lo fa per conto altrui; se si permette di dissentire, è sciolto. Data la sua marginalità, potrebbe anche essere soppresso o sostituito da un´astratta attribuzione di millesimi, come nei condomini, a ciascuna delle parti in campo. Se non lo è, forse è perché esso rappresenta ancora un´immagine potente e carica di storia della libertà politica ed eliminarlo sarebbe stato un po´ troppo forte; o, forse, è anche perché, ridotto in questa umiliazione, simboleggia come un trofeo la vittoria delle forze e delle mentalità antiparlamentari: quella vittoria già iscritta nell´attuale, recente legge elettorale, che ha trasformato in molti casi i rappresentanti del popolo in ignote propaggini di dosaggi di potere, clientele e familismi di partito. Non sono pochi, del resto, coloro che intendono l´annunciata diminuzione del numero dei parlamentari, operativa – se mai lo sarà – solo tra molti anni, come un ammiccamento all´eterno qualunquismo latente nel nostro Paese. e) Il provincialismo pessimista e ripiegato su se stesso. "A casa mia": è il motto di chi crede a quella cosa che la riforma definisce federalismo (il federalismo è l´apertura della piccola patria a una patria più grande) ed è invece ripiegamento su se stessi, timore per l´ignoto, aggressività verso chi viene creduto diverso, comunitarismo organico: l´esatto contrario del federalismo. I giuristi hanno ripetutamente spiegato che nelle norme della cosiddetta devolution c´è molto più centralismo che non federalismo. Diverse competenze sono state ritrasferite al centro e il "federalismo fiscale" è reso una beffa dalla norma che vieta "in tutti i casi" all´autonomia impositiva delle Regioni (e degli enti locali) di determinare incrementi della pressione fiscale complessiva. Anche le competenze regionali "esclusive" - assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione e polizia amministrativa regionale e locale - devono pur sempre coesistere con le competenze statali, anch´esse "esclusive", circa i livelli essenziali delle prestazioni in campo sanitario, le norme generali sull´istruzione e la tutela della salute, nonché l´ordine pubblico e la sicurezza. Ma, evidentemente, quello che conta, in questo caso, non è la realtà giuridica ma è il messaggio "culturale" di chiusura e ostilità verso il diverso. Della nostra salute, della istruzione dei nostri figli, della nostra sicurezza ci occupiamo noi perché, per l´appunto sono cose di casa nostra. La violenza concreta di questo atteggiamento, tuttavia, non tarderebbe poi a farsi sentire, ben al di là di quel che le norme costituzionali (per ora) contengono. (…).

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