"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 14 giugno 2016

Doveravatetutti. 15 «Renzi è un figlio padrone».



“Doveravatetutti”. È d’obbligo, per un ritorno, considerati i tempi referendari che siamo chiamati a vivere, con l’assonanza perfetta che gli stessi hanno con i decenni politici trascorsi. È che, quando il giovane Paolo Di Paolo (Roma, 1983) diede alle stampe il Suo pregevole “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore (2011), pagg. 219, € 15 –, aveva ben altri riferimenti pubblici e politici ai quali attingere per il Suo lavoro editoriale. Scrive infatti il Suo recensore editoriale alla terza di copertina: “Dove eravate tutti. Dov’erano i padri, soprattutto. Dentro il declino civile di un paese, così risuona l’essere giovani contro l’età adulta, contro l’assenza, contro il silenzio. Italo Tramontana (il protagonista del romanzo n.d.r.) archivia la memoria degli ultimi vent’anni, quelli familiari e quelli pubblici, come se la sequenza delle prime pagine dei giornali dispiegasse l’evidenza della sua storia, con la caduta di Bettino Craxi, l’interminabile seconda repubblica, l’attentato alle Torri Gemelle e l’elezione di Barack Obama. (…)”. Ha scritto Paolo Di Paolo del “declino civile di un paese”, dell’“assenza”, del “silenzio”, assenza” e “silenzio” che caratterizzarono quel tempo e che caratterizzano tutt’oggi la nostra vita politica e sociale. Si era a quel tempo sotto l’imperio dell’uomo venuto da Arcore, oggigiorno, con fatale continuità, si è sotto l’imperio dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. L’“assenza” ed il “silenzio” di allora assordano la vita presente. Fu allora che Paolo Di Paolo volle affidare alla “memoria scritta” il Suo vissuto al tempo dell’uomo venuto da Arcore. I riferimenti politici e sociali odierni, per un altro cronista del tempo che sarà che ne volesse cantare la sostanza, sono in una straordinaria continuità con quelli che hanno ispirato quel pregevole lavoro editoriale. Oggigiorno manca un qualsivoglia riferimento verso il quale indirizzare speranze ed illusioni per una fuoruscita da quel pozzo profondo che sembra abbia inghiottito le nostre vite. Ma c’è stato un tempo in cui altri hanno tentato, invano, di allertare le coscienze ammorbate dai decenni trascorsi. Poiché c’è pur stato chi quell’allarme ha sentito di suonare, nella generale indifferenza, stanti l’“assenza” ed il “silenzio” che ininterrottamente assordano la nostra vita pubblica e sociale. Lo faceva, come oggi che è il 14 di giugno ma dell’anno 2014 – al sabato di allora-, il professor Salvatore Settis in un’intervista rilasciata ad Antonello Caporale su “il Fatto Quotidiano” - “La svolta decisionista. «Renzi è un figlio padrone»”. Un’intervista che con l’allarme suonato metteva in “guardia” le coscienze che avessero avuto la determinazione e voluto di non essere assenti e colpevolmente silenziose:
- Matteo Renzi appartiene alla schiera dei “figli-padroni”. Un figlio-padrone fa più simpatia di un padre-padrone, non è mica Andreotti? È giovane, teorico di quella che si chiama la grande sveltezza. È infatti sveglio e svelto, ma resta che simpaticamente comanda come un padrone -.
Un renziano le risponderebbe così: Salvatore Settis è pura archeologia, è il simbolo della sinistra chic, elitaria e perdente. - Ho dispiacere di non apprezzare la speranza che cova in così tanti animi. Purtroppo quando guardo alla sostanza delle cose mi convinco che la mia diffidenza affonda in un terreno fertile. Iniziamo allora a dire che il continuo, insopportabile richiamo alla volontà popolare è il frutto di una possente alterazione della realtà. Ha lo stesso stampo del trucco berlusconiano sul mandato del popolo. Ho fatto due conti: il 40,8 per cento degli italiani ha votato Pd. E pure ammesso che siano tutti voti per Renzi, dal primo all’ultimo, verifico che il primo partito è di chi si è rifiutato di votare: ha il 41,32 per cento. Se aggiungo astenuti e nulle, assisto al miracolo rovesciato. Renzi ha ottenuto il 40,8 per cento del 50 per cento che ha votato. Dunque possiede tra le sue mani il favore del 20,62 per cento degli italiani. È questo venti per cento una maggioranza strabiliante? Una moltitudine senza pari? A me appare molto più drammatico per la democrazia che la maggioranza degli italiani si sia rifiutata di consegnarsi a questa politica -.
Nonostante i suoi calcoli siano corretti le si potrebbe opporre che la cifra assoluta è comunque elevatissima, mai toccata finora. - Resta che in termini reali non raggiunge il 21 per cento. E resta che questa concezione dell’investitura come di un mandato a fare quel che si vuole è la limpida proiezione dell’idea berlusconiana del comando -.

Salviamo qualcosa a questo Renzi. - Ottimo comunicatore, ha l’anagrafe davanti a sé. Ma con tutto il rispetto la giovane età non sembra coniugata a una competenza straordinaria. E da quel che vedo anche i suoi collaboratori, malgrado l’anagrafe, non paiono godere di conoscenze particolari, non mostrano attitudini portentose -.
E dove mette la speranza, il governo della speranza, la possibilità che questo giovane premier cambi l’Italia e lo faccia per il meglio? - Invidio chi ha speranza e chi la ripone in lui. Trovo che sia poco per costruire tutto questo palazzone di fiducia. Trovo che finora i fatti non esistano, ma solo slogan. Che i problemi più duri per l’Italia, la corruzione e l’evasione fiscale, siano lì nella loro dolorosa integrità. Penso che questo consenso trasversale non sia un esclusivo merito di Renzi quanto il frutto della nullità dei suoi antagonisti. Il premier è veloce e scattante. E qui mi fermo. Siamo alla teoria della grande sveltezza, dizione molto appropriata -.
Anche molto determinato il premier. Ha visto come ha fatto fuori i dissidenti del Senato? – (…). …di nuovo siamo al concetto berlusconiano dell’investitura popolare. Mi hanno votato e faccio come mi pare. Un falso doppio -.
Il Pd sembra vicino al suo premier. - Lei dice? A me pare di no. Magari lo teme. È un atteggiamento silente, non un sostegno convinto, né noto una condivisione della strategia. La sinistra dovrebbe fare quel che non ha mai fatto: autocritica vera e dura. Dalla caduta del muro di Berlino in poi ha sbagliato ogni previsione. Ed è stata dentro alla cultura del ventennio berlusconiano. Ricordiamoci gli otto inutili anni del governo di centrosinistra. Ha mai sentito un pensiero autocritico? Una riflessione su quel che è successo? Nulla -.
Adesso hanno vinto - Infatti dicono soltanto questo: ma Renzi ci fa vincere! E che te ne fai di una vittoria se non hai idee da promuovere, uno stile da affermare, una visione della vita da illustrare? -.
Dove eravate tutti? Cosa porterete un giorno a vostra discolpa? Figli o nipoti, un giorno, vi chiederanno allibiti: “dove eravate voi?”. Ma i conti cominciano a non tornare. Lo “zoccolo duro” che è stato, quello non ingannabile e non ricattabile, abbandona i mistificatori che sono all’opera. Ha scritto Marco Travaglio - “Brigate Parioli” – su “il Fatto Quotidiano” del 12 di giugno u.s.: (…). Torna in mente un leggendario titolo di Repubblica dopo il trionfo di Renzi alle Europee 2014: “Parioli, il quartiere più rosso”. Ma soprattutto le frustate di Leo Longanesi: “Le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono a tavola”. E di Ennio Flaiano: “Comunista io? Mi spiace, non me lo posso permettere. Per nulla allarmato dal tracollo suo e del suo partito (all’indomani delle recentissime elezioni amministrative del 5 di giugno n.d.r.) nelle zone più popolari (ma anche più popolose) della Capitale, Roberto Giachetti punta tutte le chance di rimonta sul terrore che dovrebbe attanagliare i cittadini romani all’idea che Virginia Raggi faccia perdere alla città la storica occasione delle Olimpiadi del 2024. Come se esistesse un solo romano sano di mente che, mentre fa lo slalom fra le buche e le montagne di rifiuti sparse per le strade, scansando le pantegane di dimensioni ormai giurassiche, sogna a occhi aperti i Giochi olimpici, con annesse colate di cemento e voragini di bilancio. Bobo Giachetti, anzi Giochetti, è impegnatissimo nella rincorsa dei voti “di sinistra”, dunque ha pensato bene di attirarli battendosi come un sol uomo con i compagni Luca di Montezemolo, Giovanni Malagò e Francesco Gaetano Caltagirone, notoriamente popolarissimi tra i disoccupati e i diseredati, tutti ansiosi di gareggiare in una nuova disciplina olimpica dopo il salto in alto, il salto in lungo e il salto con l’asta: il salto del pasto. L’altra scena madre della sinistra 2.0 è un passaggio del faccia a faccia su Sky tra Piero Fassino e Chiara Appendino. A un certo punto la Appendino, esponente di quell’orrendo movimento di destra che – a leggere i giornaloni – è ormai un tutt’uno con la Lega, pronuncia una parola brutta, diciamo pure una parolaccia, di quelle che non si dovrebbero mai usare tra galantuomini, a tradimento: “Povertà”. Già, nella Torino del miracolo olimpico del 2006, seconda città più indebitata d’Europa, ci sono molti poveri. Troppi. Incuranti delle cronache di regime che dipingono Torino come la capitale del buongoverno e del regno di Saturno grazie alla “sinistra” che la governa da 15 anni prima con Chiamparino (ora presidente della Regione e prima banchiere della Compagnia di San Paolo) e poi con Fassino, i quartieri popolari un tempo appannaggio della sinistra hanno premiato i 5Stelle, anziché il Pd. Che, negli anni, s’è trasformato non solo in un gigantesco comitato d’affari, appoggiato da Fiat, collegio costruttori, Banca e Compagnia di San Paolo, Compagnia delle Opere e ultimamente pure dall’ex governatore forzista Ghigo e dall’ex ministro berlusconiano Vietti, ma anche nel partito dei ricchi e delle grandi opere inutili (tipo Tav). L’altra sera, su Sky, la Appendino ha ricordato che finora il solo portavoce di Fassino è costato ai contribuenti un milione di euro. Poi ha citato un dato che in città tutti conoscono: la Caritas diocesana calcola che, su un’area metropolitana di 1,5 milioni di abitanti, 200 mila sono poveri e di questi 90 mila versano in condizioni “gravi”. Nel perimetro più ristretto del Comune, sono 100 mila i torinesi sotto la soglia di povertà. Apriti cielo. Manco la rivale avesse parlato di scie chimiche, Fassino ha perso le staffe (cosa che gli accade normalmente) e liquidato i dati Caritas come “errati”. Cioè: il candidato Pd, anche lui all’inseguimento dei voti di sinistra andati al primo turno un po’ all’ex sindacalista Airaudo un po’ direttamente ai 5Stelle, ha fatto quel che normalmente farebbe un candidato di destra: ha minimizzato la povertà. Un autogol plateale, che la sua avversaria ha incassato, finendo il confronto con un grado di affidabilità del 66% contro il 34 del sindaco uscente (secondo il voto dei telespettatori sul web). (…).

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