"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 giugno 2016

Dell’essere. 12 “Della disperante solitudine dell’educare”.



Ha scritto Massimo Recalcati in “Un maestro sa insegnare solo se parla ai muri”, testo pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di giugno dell’anno 2014: L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Di quella “solitudine” mi veniva di scrivere alla pagina 115, capitolo XXV, del volume “I professori” – AndreaOppureEditore, (2006) - : (…). È che nella quotidiana “vita scolastica” non sembra poter esistere una linea netta di demarcazione tra l’insegnante esperto e tecnico delle discipline e l’insegnante-uomo- maestro, che si faccia carico dei problemi propri del navigare tormentoso delle giovani generazioni. E l’aspirazione e l’impegno ad essere “insegnante-uomo-maestro" predomina, per fortuna, nella  maggioranza dei docenti della scuola pubblica italiana, poiché oggi la scuola si trova a dover affrontare crisi generazionali delle più complesse, nel quadro di una società in rapida trasformazione sotto tutti gli aspetti, da quelli economici ai rapporti parentali, dell’organizzazione del lavoro a quelli della vita associativa e di relazione, che si riflettono poi inevitabilmente sulla vita stessa delle famiglie e dei giovani con l’insorgere spesso di gravissime crisi motivazionali ed identitarie. Una solitudine che accompagna l’educatore/insegnante che, nella faticosa prassi educativa, cerchi di trovare la via giusta per divenire quel maestro che “è qualcuno che insegna ciò che non si trova nei libri. Il maestro è l’uomo il cui insegnamento mi libera e mi permette di essere me stesso. Un maestro è colui che insegna la sua specialità e qualche altra cosa  che è la sicurezza dei gesti e del pensiero, l’onestà, il gusto, il desiderio di sapere, il coraggio di riflettere, l’attitudine a giudicare, l’orgoglio di essere un po’ più adulto e la gioia di disporre di se stesso. Il vero maestro è l’uomo che educa insegnando”,  così come ne ha scritto Raniero Regni su “School in Europe” nel saggio “Essere insegnanti, divenire maestri”. Massimo Recalcati, che è psicoterapeuta di scuola lacaniana, aggiunge:
(…). Ogni insegnante, a suo modo, ne ha fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri. (…). Parlare ai muri è la condizione strutturale di ogni insegnamento perché in ogni insegnamento è in gioco un’impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza resti, trasparente del sapere. La solitudine del maestro non è allora solo una figura retorica, ma dice qualcosa della postura essenziale di ogni insegnamento. Se “insegnare” significa letteralmente lasciare una impronta, una traccia, un segno nell’allievo, è perché esso esclude che la trasmissione possa ridursi a una clonazione, ovvero alla riproduzione passiva e conformista della parola del maestro. Al contrario un buon effetto di insegnamento consiste nel produrre una soggettivazione del sapere a partire dall’impronta che esso lascia nell’allievo. Questa impronta non è e non deve essere un calco, sebbene ogni insegnamento porti con sé questo rischio. Per questo i maestri trovano insopportabili gli allievi che fanno il loro verso. (…). Qualcosa sfugge sempre, qualcosa non può essere preso nella parola. Non è questa la scommessa di ogni insegnamento degno di questo nome? I muri, afferma Lacan, «sono fatti per circondare un vuoto». Insegnare non è provare a circoscrivere questo vuoto, a dire l’ineffabile, a tradurre in matemi trasmissibili universalmente il patema singolare della nostra vita? Con la consapevolezza però che non si può mai dire tutto. Se il sapere umano è attraversato da una faglia non è perché è impossibile acquisire tutto il sapere, ma perché un limite lo attraversa strutturalmente: il sapere non può mai venire a capo del senso della vita, il sapere non può sapere tutto. L’eccedenza della vita lo esorbita scavando al suo interno una mancanza. Ecco allora da dove sorge un vero insegnamento. Quando il maestro sa alludere, evocare, portare alla presenza continuamente questo limite - questa mancanza e questa eccedenza - senza mai pretendere di ridurlo a un oggetto che possiamo padroneggiare. Il muro che ci separa dalla verità, afferma Lacan, «è dappertutto», cioè concerne il linguaggio. Tra l’uomo e il mondo c’è sempre un muro così come tra un uomo e una donna e tra la verità (che sfugge sempre) e il sapere. Eppure questo muro - il muro del linguaggio - non è solo una barriera che separa, ma è anche il terreno da cui sorge il dono della parola che rende possibile la poesia e l’amore, l’umanizzazione della vita e l’incontro. Per questo, conclude Lacan, la parola «che si indirizza ai muri ha la proprietà di ripercuotersi». Più che sulla trasmissione efficace di informazioni (come crede l’odierna pedagogia delle competenze) un insegnamento dovrebbe preservare quello che non si può trasmettere. O, se si preferisce, può trasmettere un sapere vero proprio perché sa custodire l’impossibile da sapere. (…). In ogni maestro, sempre, qualcosa parla («ça parle»), qualcosa che trascende la parola viene alla parola. Per questo ci ricordiamo così bene le voci dei maestri che abbiamo avuto. Quella roca e calda, quella forte e metallica, quella lucida e chirurgica, quella appesa ad un filo. Perché nella voce appare l’eros, il corpo, la carne della parola. È la voce del maestro a rendere vivo il sapere, a rianimarlo permanentemente. (…). …l’effett dell’insegnamento consiste nel restituire vita a saperi che potevano sembrare morti mettendone in rilievo l’inesauribilità. In questa operazione la voce non è mai inessenziale, non è solo un ponte per la parola o per il pensiero già costituiti nella mente del maestro. La voce a volte anticipa la parola e il pensiero. Ogni insegnante sa che deve usare la sua voce per non fare addormentare i suoi uditori. È il punto minimo da cui scaturisce ogni insegnamento: tenere sveglio chi ascolta. Ha scritto Domenico Starnone, in “Solo se interrogato”, della Sua esperienza scolastica giovanile:  (…). A scuola ho imparato senza apprendere, anzi separando nettamente lo studiare dall’apprendere. Ho impiegato molto tempo per capire la diversità delle esperienze che mi pareva di poter significare attraverso i due verbi. Oggi me ne servo così: imparare era la conseguenza dello studio scolastico: serviva a procacciarsi le piccole abilità per dare esecuzione corretta a una serie di atti dovuti alla scuola, serviva a tenersi pronto, a non lasciarsi cogliere in fallo; apprendere era invece il montare del batticuore, l’accendersi del cervello, qualcosa come gettarsi per una china a rotta di collo frugando ora in questo cespuglio ora in quell’altro per non perdere la cosa che si stava inseguendo; e, subito dopo averla afferrata, ecco un bisogno di correre a dirlo, di renderla comune e raccontare come l’avevo fatta mia e ripensare al piacere che ne avevo ricavato. Apprendere era desiderio di felicità, bisogno di riceverne e di darne. Ma era possibile di rado, solo negli spazi sottratti alla pervasività della scuola, all’esecuzione puntigliosa dei compiti. Ho separato presto, per esempio, i libri dai libri di scuola. Dai primi apprendevo, voracemente. Dai secondi toglievo parole, sequenze verbali, le imparavo, le dimenticavo.  Imparare era il risultato opportunistico dell’obbligo di studiare. Apprendere era correre per righe e righe, girando le pagine con la testa in tumulto; era abbandonare un libro per procurarsene un altro subito; era smaniare; era acquisire risposte solo per porsi meglio le domande che ti stavano a cuore. (…). È nella e dalla “pervasività della scuola” che nasce e si rafforza quella che è la “disperante solitudine dell’educare”, ovvero l’immane “fatica” di divenire “Maestri”.

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