"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 30 giugno 2016

Oltrelenews. 93 “Te la dono io la Brexit!”.



Da "Se la Gran Bretagna esce meglio evitare la vendetta e fare accordi di libero scambio" di Eugenio Occorsio, intervista  all’economista Joseph Stiglitz – premio Nobel nell’anno 2001 – sul quotidiano la Repubblica del 15 di giugno 2016: "Non userei la parola catastrofe, ma la Brexit sarebbe sicuramente un fattore di enorme incertezza sui mercati, che si aggiunge ai tanti già esistenti, da Trump ai tassi Usa. La responsabilità sta tutta nell'Europa: se non vuole che questa incertezza sfoci in catastrofe dovrà uscire dal suo letargo evitando di vendicarsi e negoziando una serie di accordi "intermedi" con Londra che non la isolino ulteriormente". (…).
Quante chance dà al "leave"? "Io so solo che il danno già è stato fatto. E l'Europa ne porta la responsabilità. Non è riuscita a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, a ridurre le disuguaglianze. Ha lasciato che al suo interno prendessero corpo forze anti-establishment sempre più violente. L'euro poi è quello sì un disastro, mal congegnato, portatore di altre diseguaglianze stavolta fra Paesi, il tutto aggravato dalla folle politica di austerity che ha acuito le tensioni e prolungato la crisi. Come possiamo stupirci che la Gran Bretagna pensi di chiamarsi fuori?".
A questo punto, se Brexit sarà, quale dovrebbe essere la risposta? "Dicevo: evitare la vendetta. Ci sarà rancore verso gli inglesi per lo sconquasso che avranno provocato se vincono i "leave", perché avranno distrutto un sogno europeista di sessant'anni. Ma bisogna essere realisti. Le banche americane usano il Regno Unito come porta dell'Ue. I "passport rights" consentono di collocare i servizi finanziari nell'intera unione dalla base di Londra. Con la Brexit questo "link" sarebbe perduto, e le finanziarie dovrebbero creare un nuovo quartier generale. Il 40% delle prime 250 multinazionali ha a Londra la sede europea, contro l'8% di Parigi. Il 30 per cento delle vendite americane nella Ue è diretto in Gran Bretagna. Tutto questo non può essere cancellato con un colpo di spugna: vanno negoziate condizioni speciali sul modello norvegese o svizzero mantenendo l'area di "free trade". Intanto va riavviata l'integrazione europea, completata l'unione bancaria, data più dignità a un bilancio comunitario che è pari all'1 per cento del Pil del quale il 40 per cento va ai sussidi agricoli".
Evitare le vendette significa non sottrarre a Londra il ruolo di capitale finanziaria? "Uscendo dalla tutela Bce, della quale il Regno Unito fa parte pur fuori dall'euro, sarebbe automatica l'uscita dal sistema di pagamenti Target 2: le banche inglesi avrebbero difficoltà a finanziarsi e i tassi salirebbero a danno dell'economia. La sterlina sarebbe svalutata rischiando lo status di valuta di riserva che condivide con euro, dollaro e yen. Tutto questo va evitato per non trovarci in condizioni disperate nella seconda parte dell'anno quando altre sfide ci attendono".
Si riferisce alle elezioni americane? "A proposito di forze anti-sistema, Trump sarebbe l'uomo del caos globale. E' anti-tutto: trattati commerciali, immigrazione, politica del lavoro, senza nessuna alternativa. Ma alla fine sento che per Hillary sarà un trionfo".
Lei della Clinton è consigliere economico: qual è la prima cosa da fare? "Uscire dalla visione "corta" che condiziona le imprese impedendo di investire a lungo termine, formare le persone, sviluppare l'innovazione. Finora non si è fatto e perciò la ripresa Usa è così debole che la Fed non riesce ad alzare i tassi".

martedì 28 giugno 2016

Paginatre. 42 “Fenomenologia di Mike Bongiorno”.



Da “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (1961) di Umberto Eco, tratto da “Diario minimo”, prima edizione Oscar narrativa Mondadori (ottobre 1988), pagg. 30-35: L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze. Tuttavia, poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l'evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno. La situazione nuova in cui si pone al riguardo la TV è questa: la TV non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l'everyman. La TV presenta come ideale l'uomo assolutamente medio. A teatro Juliette Greco appare sul palcoscenico e subito crea un mito e fonda unculto; Josephine Baker scatena rituali idolatrici e dà il nome a un'epoca. In TV appare a più riprese il volto magico di Juliette Greco, ma il mito non nasce neppure; l'idolo non è costei, ma l'annunciatrice, e tra le annunciatrici la più amata e famosa sarà proprio quella che rappresenta meglio i caratteri medi: bellezza modesta, sex-appeal limitato, gusto discutibile, una certa casalinga inespressività.Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rappresenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo. Se, secondo la nota boutade, la statistica è quella scienza per cui se giornalmente un uomo mangia due polli e un altro nessuno, quei due uomini hanno mangiato un pollo ciascuno — per l'uomo che non ha mangiato, la meta di un pollo al giorno è qualcosa di positivo cui aspirare. Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio, si trova immediatamente a un livello minimale di evoluzione.

lunedì 27 giugno 2016

Scriptamanent. 20 “La democrazia del pubblico”.



Da “La democrazia del pubblico e le insidie per il leader” di Marc Lazar, sul quotidiano la Repubblica del 27 di giugno dell’anno 2015: Matteo Renzi e il Partito Democratico stanno attraversando una fase di grande turbolenza: lo attestano i loro insuccessi alle elezioni regionali e amministrative, ma anche la grave crisi del partito a Roma, i cedimenti dell’organizzazione sul territorio, il calo della popolarità del presidente del Consiglio e delle intenzioni di voto per il Pd, le rinnovate tensioni interne e le difficoltà incontrate dal governo per il varo delle sue riforme. Matteo Renzi, che al suo esordio, più di un anno fa, era apparso come una novità, se non addirittura come un modello da seguire per una sinistra europea in crisi, si ritrova dunque a sua volta in difficoltà. Ma vediamo di analizzare la situazione italiana in una prospettiva più ampia, in particolare con riferimento a due principali temi di riflessione. Il primo riguarda la figura del leader. Se Matteo Renzi ha suscitato un così vivo interesse - ma anche forti opposizioni all’interno del suo stesso partito - è perché ha saputo adattarsi pienamente, al pari di altri responsabili della sinistra europea e forse meglio di loro, grazie al suo temperamento, a quella che Bernard Manin ha definito la «democrazia del pubblico ». La quale, a differenza della democrazia del parlamento nel XIX secolo e di quella dei partiti nel XX, è caratterizzata da una minore influenza delle grandi culture politiche, dal declino dei partiti tradizionali, dalla volatilità elettorale, dal peso crescente dell’opinione pubblica nelle diverse forme in cui si esprime (sondaggi, associazionismo, reti sociali ecc.).

domenica 26 giugno 2016

Scriptamanent. 19 “Il giudizio universale di JPMorgan e le contro-Costituzioni".



Considerati i tempi straordinari che siamo chiamati a vivere un doppio “scriptamanent” del 26 di giugno. Il primo risale al 26 di giugno dell’anno 2013 a firma di Barbara Spinelli pubblicato sul quotidiano la Repubblica con il titolo “Il giudizio universale di JPMorgan”: (…). La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: «Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali» e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste. Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti. Le patologie europee sono così elencate: «Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». (…). Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. (…). Si capisce (…) la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia. (…).

sabato 25 giugno 2016

Scriptamanent. 18 “La nostra vita da immigrati digitali”.



“Scriptamanent” del 25 di giugno dell’anno 2014, tratto da “La nostra vita da immigrati digitali” di Zygmunt Bauman, pubblicato sul quotidiano la Repubblica: (…). …ci sono perdite che affliggono le nostre facoltà mentali; prima di tutto le qualità/ capacità ritenute indispensabili per trovare uno spazio fondamentale per la ragione e la razionalità, per dispiegarvisi e realizzarsi appieno: attenzione, concentrazione, pazienza e la possibilità di durare nel tempo. Quando per connettersi a Internet è necessario un minuto, molti di noi si irritano per la lentezza del proprio computer. Ci stiamo abituando ad aspettarci sempre risultati immediati. Desideriamo un mondo sempre più simile al caffè istantaneo. Stiamo perdendo la pazienza, eppure i grandi risultati necessitano di grande pazienza. Il periodo di tempo in cui si è in grado di tenere desta la soglia di attenzione, l’abilità a restare concentrati per un tempo prolungato – in definitiva, quindi, la perseveranza, la resistenza e la forza morale, caratteri distintivi della pazienza – sono in calo, e rapidamente. Tra i danni meglio analizzati e al contempo teoricamente più nocivi provocati dal calo e dalla dispersione dell’attenzione ci sono il peggioramento e la graduale decrepitezza della disponibilità ad ascoltare e delle facoltà di comprendere, come pure della determinazione ad “andare al cuore della faccenda” (nel mondo online ci si aspetta di “navigare” tra le informazioni convogliate visivamente o acusticamente) – che a loro volta portano a un continuo declino delle capacità di dialogare, una forma di comunicazione di vitale importanza nel mondo offline. Strettamente connesso ai trend descritti è il danno inferto alla memoria, oggi sempre più spesso trasferita e affidata ai server, invece che immagazzinata nel cervello. L’altra cosa di cui tenere conto è il verosimile impatto di tutto ciò sulla natura stessa dei rapporti umani. Allacciare e spezzare legami online è più comodo e meno imprudente che farlo offline. Non comporta obblighi a lungo termine, e tanto meno promesse del tipo “finché morte non ci separi, nella buona e nella cattiva sorte”; non esige un obbligo così prolungato e coscienzioso come esigono i legami offline. Non stupisce quindi che, avendo collaudato e confrontato le due tipologie, molti internauti, forse la crescente maggioranza, preferiscano la varietà online.

venerdì 24 giugno 2016

Sfogliature. 62 “La neolingua del potere”.


"Doveravatetutti”, lo si è già detto, è luogo “virtuale” di memoria. Di una memoria che non è lunga, ché di poco essa sembra sfuggire, o venir fuori, dalla categoria della cronaca. Ma è pur sempre memoria, per quanto breve, che non ha l’aura di ciò che potranno essere, un giorno più lontano, le “ricordanze” di un tempo oramai passato. “Doveravatetutti” è un tentativo di ri-percorrere assieme, come pazienti viandanti su per gli antichi asperrimi percorsi della fede, un cammino recente di cosa sia stato, di come sia stato possibile, del “perché” di cose che sono state reali sorprendendo tutti per la loro verosimiglianza ad un copione da “feuilleton” scritto magistralmente da un moderno, spregiudicato guitto d’avanspettacolo. Poiché “(…). In Italia, dopo quasi vent'anni di reciproche incazzature televisive a somma zero, l'opinione pubblica si è convertita in emozione pubblica. Abbiamo perso tutti qualcosa. Perché è tramontata l'idea che, attraverso il confronto, gli uomini possano arrivare a una posizione quanto più condivisa possibile, cioè che l'opinione sia un'approssimazione del vero perché una verità esiste comunque. Invece, nell'informazione per come è consumata e messa in scena oggi, la verità esce dal quadro, non è più neppure un obbiettivo ideale. L'importante è suscitare emozioni. E che qualcuno si indigni. Come scrisse nel 1926 Gafyn Llawgoch, anarchico gallese: - Il capitalismo è così diabolico che ti consegna a casa pure la tua passione civile -. Alzo gli occhi. (…). Forse la parata di iene e sciacalletti urlanti che hanno occupato la tv non basta più a illuderci di partecipare, indignandoci in casa, alla vita democratica del paese. (…). Chissà perché non si dice mai che uscire di casa è il modo migliore per abitare in una democrazia”. Lo ha scritto un indignato di sempre, indignato prima ancora del “doveravatetutti” che potrebbe tornare di moda, come sempre, quando un “sistema”, un “regime” collassa. Lo ha scritto Giacomo Papi, nella Sua rubrica sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” col titolo “Quelli come Lavitola”. Poiché in quell’affermare Suo che “la verità esce dal quadro” si coglie in pieno l’opera nefasta compiuta da un quindicennio abbondante a questa parte, ove puranco la “lingua”, nel senso di idioma, ha subito un imbarbarimento ed uno straniamento tanto che il suo utilizzo non compie più il “miracolo” di rendere riconoscibile a tutti l’appartenenza ad un popolo, ad una terra che sia. Tanto ne è stato lo stravolgimento, lo snaturamento, nelle trame sue, della lingua intendo dire, più complesse del suo costrutto, ché han perso di significato tantissime delle sue parole che sono state come private di un senso ben definito, compiuto e reale. Ritrovo tra i miei ritagli un foglio de “il Fatto Quotidiano” che contiene un’intervista concessa alla giornalista-scrittrice Silva Truzzi dal professor Gustavo Zagrebelsky che ha per titolo “La neolingua del potere: terribilmente povera”. La trascrivo, di  seguito, in parte. (…).

mercoledì 22 giugno 2016

Sfogliature. 61 “È in gioco l'Italia”.



Correva l’anno 2006, l’anno del referendum costituzionale preparato per ed in conto dell’uomo venuto da Arcore. Lavorarono a quella “riforma” i “quattro saggi” – innominabili - calati su Lorenzago del Cadore in perfetta tenuta da montagna. E quella montagna di masse cerebrali partorì l’orribile riforma che il “popolo sovrano” si peritò di cancellare nelle giornate del 25 e 26 di giugno di quell’anno. La “sfogliatura” è di mercoledì 21 di giugno dell’anno 2006. Protagonisti politici di quel tempo andato l’uomo di Arcore e l’uomo dal rutto facile e dal dito medio innalzato come segno distintivo di una visione politica nuova che sintetizzava nel celeberrimo suo pensiero «se gli italiani votano no, noi useremo altri mezzi, fuori dalla democrazia». Oggi come allora, chi non sta con noi male gli colga! Scriveva allora Furio Colombo sul quotidiano l’Unità del 18 di giungo di quell’anno “horribilis” - “È in gioco l'Italia” -: (…). Ora che stiamo per votare al Referendum sugli oltre cinquanta articoli di devastazione e offesa alla Costituzione che ha funzionato mirabilmente per sessant´anni (un anniversario che tanti italiani celebreranno votando NO) ricordiamoci dello scambio di favori avvenuto fra Bossi e Berlusconi. Bossi ha ottenuto via libera per una disastrosa serie di articoli che spaccano, dividono e rendono inagibile il Paese. Era la sua alternativa alla secessione violenta. Devastare da fuori o devastare da dentro. Berlusconi ha scelto di dargli mano libera, per devastare da dentro, con un disegno di «riforma federale» che nessun costituzionalista accetta o approva, tanto è disastrosamente pericoloso. Come controprova di tale pericolo Bossi, il 15 giugno, ha detto: «se gli italiani votano no, noi useremo altri mezzi, fuori dalla democrazia». Ricordiamolo, al momento del voto.

venerdì 17 giugno 2016

Paginatre. 41 “Matteo il distruttore”.



Da “Matteo è il distruttore. Corre senza fiato, lascerà solo macerie” tratto dal volume “Dentro e contro” di Marco Revelli – Feltrinelli Editore (2015), pagg. 144, € 14 –, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di ottobre dell’anno 2015: Dal 25 febbraio 2014 l’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. È l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi nella giornata del compimento della sua resistibile ascesa. Di Eugenio Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del Messaggero e del Sole 24 Ore. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. La costante accelerazione, dalle primarie di dicembre in poi, l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il parlamento, si commissaria il paese, si accelera la dissoluzione sociale. Motivo per cui, appunto, soprattutto per chi sta nell’establishment o nei suoi dintorni, non resta che sperare. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che avrebbe dovuto dire che uno così non può farcela. Perché – la cosa si poteva vedere a occhio nudo fin d’allora – il personaggio non ha né le competenze. Né l’autorevolezza. Né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare un miracolo del genere, sollevare tutto insieme – partito, istituzioni, paese – come fossero un unico fardello. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale Socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione quantomeno opaca) assicuravano.

giovedì 16 giugno 2016

Quellichelasinistra. 9 “La ricchezza giusta per la sinistra”.




A lato: Renato Guttuso "I funerali di Togliatti".
“Quellichelasinistra” d’oggi. Ha scritto Mariana Mazzuccato in “La ricchezza giusta per la sinistra” – sul quotidiano la Repubblica del 16 di giugno dell’anno 2015 -: (…). …il capitalismo produttivo è un capitalismo in cui le imprese, lo Stato e i lavoratori operano insieme per creare ricchezza. Sono cioè tutti potenziali creatori di ricchezza. Gli emblemi di ricchezza nella moderna economia della conoscenza, dall’iPhone alla Tesla S, hanno tutti fatto leva su un settore pubblico strategico, disposto a farsi carico dei rischi e delle incertezze maggiori lavorando fianco a fianco con un settore privato disposto a reinvestire i suoi profitti nelle aree «a valle», come ricerca e sviluppo o la formazione del capitale umano. Oggi sono a rischio entrambi. Da una parte un settore pubblico timoroso, che cede agli appelli a introdurre ancora più austerity, che discute delle dimensioni del disavanzo invece che della composizione del disavanzo, che parla solo di limiti allo spending e non di investimento strategico. E dall’altra un settore privato ultra-finanziarizzato, che spende più per riacquistare le proprie azioni che in ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano. I lavoratori, naturalmente, sono anche loro creatori di ricchezza, non solo per il contributo che offrono, con il loro capitale umano, alla produzione di nuovi prodotti e servizi, ma anche perché, nel capitalismo moderno, si assumono a loro volta dei rischi, avendo scarse garanzie di un lavoro permanente e potendo trovarsi a fare molti sacrifici. La ricchezza è insomma frutto di un lavoro collettivo, decentralizzato, con diversi attori pubblici, privati, individui e organizzazioni. È l’assenza di questo punto di vista ad aver creato una relazione disfunzionale tra imprese e Stato. Le imprese, presentandosi come le (sole) creatrici di ricchezza, hanno convinto sia i tories che i laburisti a introdurre misure come la patent box (le agevolazioni fiscali sui guadagni legati ai brevetti, che si stanno diffondendo in quasi tutti i Paesi europei incluso l’Italia) che non accrescono in alcun modo l’innovazione (i brevetti sono già un monopolio garantito per 20 anni) ma servono solo a far diminuire il tax revenue pubblico ed aumentare la disuguaglianza. (…). Simili politiche disfunzionali sono spesso state motivate dal desiderio di rendere l’economia più innovativa e competitiva. Ma in pratica sia il Labour che i Tories si sono limitati ai soliti discorsi sul dare più risorse alle piccole imprese cosa che ha poco senso quando la maggior parte delle piccole imprese sono poco innovative, poco produttive e creano anche poco lavoro. Le poche piccole imprese di valore hanno bisogno di un enorme appoggio pubblico, come quello che ricevono negli Usa, ed anche di una relazione più simbiotica con le grandi imprese. La cosa migliore che qualsiasi governo potrebbe fare per le piccole imprese è insistere perché le grandi imprese comincino a investire di più, rendendo maggiormente dinamico e mutualistico il rapporto con le imprese più piccole loro fornitrici. Ma questo vuole dire appunto mettere pressione sane sulle imprese: non essere solo timidamente friendly. (…). …questa visione più coraggiosa — della ricchezza di una nazione creata da tutti, e non solo dalle imprese — può servire anche a costruire fondamenta più solide per lo Stato sociale (che storicamente ha aumentato le opportunità per tutti), finanziato non più solo dal contribuente volenteroso, ma anche attraverso i profitti condivisi delle fatiche di tutti i creatori di ricchezza.

mercoledì 15 giugno 2016

Scriptamanent. 17 “Referendum e popolo sovrano”.



Un po’ di memoria. Correva l’anno 2011. A quel tempo, ordinato secondo i voleri del signore venuto da Arcore, la chiamata ai “comizi elettorali referendari” era stata fissata per i giorni 12 di giugno e 13 di giugno. Il referendum “abrogativo” riguardava ben quattro aspetti del vivere associato. Quesito primo: “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rinomanza economica”. Quesito secondo: “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato”. Quesito terzo. “Abrogazione delle norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare”. Quesito quarto. “Abrogazione di norme in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio e dei Ministri a comparire in udienza penale”. Il referendum ebbe il “quorum” richiesto. Il “popolo sovrano” abrogò. Mercoledì 15 di giugno di quell’anno (2011), Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica scriveva “L’irruzione del futuro”: (…). Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del leader. (…). Nel popolo azzurro la libertà è regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un contropotere. Di volta in volta sono “antropologicamente diversi” i magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era un Golem, il popolo – idolo d’argilla che il demiurgo esibiva come proprio manufatto – e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col nulla.(…). Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell’amore, perché nella crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede miraggi ottimisti ma verità. Accampa diritti, ma non si limita a questo. Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. (…). Per questo si sfalda il dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è distruttiva per l’insieme della comunità.

martedì 14 giugno 2016

Doveravatetutti. 15 «Renzi è un figlio padrone».



“Doveravatetutti”. È d’obbligo, per un ritorno, considerati i tempi referendari che siamo chiamati a vivere, con l’assonanza perfetta che gli stessi hanno con i decenni politici trascorsi. È che, quando il giovane Paolo Di Paolo (Roma, 1983) diede alle stampe il Suo pregevole “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore (2011), pagg. 219, € 15 –, aveva ben altri riferimenti pubblici e politici ai quali attingere per il Suo lavoro editoriale. Scrive infatti il Suo recensore editoriale alla terza di copertina: “Dove eravate tutti. Dov’erano i padri, soprattutto. Dentro il declino civile di un paese, così risuona l’essere giovani contro l’età adulta, contro l’assenza, contro il silenzio. Italo Tramontana (il protagonista del romanzo n.d.r.) archivia la memoria degli ultimi vent’anni, quelli familiari e quelli pubblici, come se la sequenza delle prime pagine dei giornali dispiegasse l’evidenza della sua storia, con la caduta di Bettino Craxi, l’interminabile seconda repubblica, l’attentato alle Torri Gemelle e l’elezione di Barack Obama. (…)”. Ha scritto Paolo Di Paolo del “declino civile di un paese”, dell’“assenza”, del “silenzio”, assenza” e “silenzio” che caratterizzarono quel tempo e che caratterizzano tutt’oggi la nostra vita politica e sociale. Si era a quel tempo sotto l’imperio dell’uomo venuto da Arcore, oggigiorno, con fatale continuità, si è sotto l’imperio dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. L’“assenza” ed il “silenzio” di allora assordano la vita presente. Fu allora che Paolo Di Paolo volle affidare alla “memoria scritta” il Suo vissuto al tempo dell’uomo venuto da Arcore. I riferimenti politici e sociali odierni, per un altro cronista del tempo che sarà che ne volesse cantare la sostanza, sono in una straordinaria continuità con quelli che hanno ispirato quel pregevole lavoro editoriale. Oggigiorno manca un qualsivoglia riferimento verso il quale indirizzare speranze ed illusioni per una fuoruscita da quel pozzo profondo che sembra abbia inghiottito le nostre vite. Ma c’è stato un tempo in cui altri hanno tentato, invano, di allertare le coscienze ammorbate dai decenni trascorsi. Poiché c’è pur stato chi quell’allarme ha sentito di suonare, nella generale indifferenza, stanti l’“assenza” ed il “silenzio” che ininterrottamente assordano la nostra vita pubblica e sociale. Lo faceva, come oggi che è il 14 di giugno ma dell’anno 2014 – al sabato di allora-, il professor Salvatore Settis in un’intervista rilasciata ad Antonello Caporale su “il Fatto Quotidiano” - “La svolta decisionista. «Renzi è un figlio padrone»”. Un’intervista che con l’allarme suonato metteva in “guardia” le coscienze che avessero avuto la determinazione e voluto di non essere assenti e colpevolmente silenziose:

lunedì 13 giugno 2016

Paginatre. 40 “Pensione crudele”.



Da “Pensione crudele” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 10 di giugno dell’anno 2010: (…). Nel Medioevo e nel Rinascimento europei la stragrande maggioranza della popolazione, il 90%, era formata da contadini e artigiani (il restante 10% erano nobili, feneant a vario titolo come i preti, un ridotto manipolo di mercanti che rischiavano in proprio e un 1% di mendichi, ma era mendico solo chi voleva esserlo, un po' come i clochard per scelta dei nostri giorni). Contadino o artigiano che fosse l'uomo preindustriale viveva del suo e sul suo. Il contadino quando dipendeva formalmente dal feudatario, non era cioè proprietario della terra ma la deteneva in un possesso secolare, pagava a costui una rendita ridicola come ammette anche Adam Smith che nota: “Coloro che coltivavano la terra...pagavano una rendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che la terra forniva loro. Una corona, una mezza corona, una pecora, un agnello erano, pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre che mantenevano una famiglia” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, III, IV). C'erano poi le corvées che a noi moderni abituati, almeno concettualmente, alle libertà individuali, fanno molta impressione perché consistevano in servigi personali che i contadini, un paio di giorni al mese, a rotazione, dovevano rendere al feudatario (aggiungersi ai domestici se dava una festa, dava una mano per qualche altra incombenza, e cose simili). Pagato questo scotto molto relativo (soprattutto se paragonato alle tasse che noi oggi versiamo allo Stato: fra rendita del feudatario, imposte reali, decima ecclesiastica, il prelievo non superò mai il 4-5%) la sussistenza del contadino dipendeva da lui e solo da lui e dalla sua famiglia. Ma, a parte la fatica (“la terra è bassa” dicono i contadini), da questo punto di vista non aveva problemi perché, come scrive lo storico Giuseppe Felloni in Profilo di storia economica dell'Europa dal Medioevo all'età contemporanea (Giappichelli, p. 107): “Le terre sono distribuite con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadatte alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti ben precisi...le terre...per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico e via dicendo, che gravano sulla proprietà e sul possesso privati senza peraltro metterli in discussione – era un regime "comunitario" non "comunista" della terra, ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”. La concezione di fondo era che ad ogni nucleo familiare doveva essere garantito il suo "spazio vitale". Che valeva anche per il mondo artigiano.

domenica 12 giugno 2016

Sfogliature. 60 “Costituzione e popolo”.



Correva l’anno… Correva l’anno 2006, giusto un decennio addietro. Ed in quell’anno lì, nel mese di giugno proprio, si teneva un referendum nei giorni all’uopo destinati del 25 e del 26 sulla grande riforma costituzionale inventata dai “quattro saggi” in quel di Lorenzago del Cadore. I quattro saggi “costituzionalisti”, ovvero i molto onorevoli Andrea Pastore (Fi), Francesco D'Onofrio (Udc), Roberto Calderoli (Lega), Domenico Nania (An). Sotto l’illuminata regia del signore venuto da Arcore, mentore del signore venuto da Rignano sull’Arno un decennio dopo. Ripassatevi bene le generalità dei “quattro saggi”: riconoscete in essi illustri studiosi costituzionalisti? Di certo tornerà alla memoria vostra solamente quel Giulio Tremonti, inventore della “finanza creativa”, che sovrintendeva all’allegra brigata di buontemponi come padrone di casa ed organizzatore con il beneplacito del’uomo venuto da Arcore. Vi sembrerà impossibile che una riforma costituzionale fosse elaborata esclusivamente con l’apporto di quei quattro bontemponi? Allora il gergo corrente della politica non utilizzava termini quali “rottamazione”, “gufi”, “rosiconi”, “professoroni” etc. etc. Erano certamente altri tempi, ma l’insegnamento ed il lascito di quei tempi sono stati ripresi diligentemente allorquando l’Europa provvide a sbaraccare quella masnada al governo. Avevate di già rimosso quegli avvenimenti? 10 anni sono troppi da tenere alla memoria? Rinvenite tra quei “quattro saggi” di Lorenzago del Cadore un qualcuno che all’epoca appartenesse alla opposizione? Eppure si riformava la “Carta”, ovvero quelle regole che avrebbero dovuto dare la dritta per la legislazione nel bel paese indipendentemente dalle maggioranze politiche del momento. Avveniva invece tutto nel silenzio odoroso – forse – ed ombroso di una discreta baita di montagna. Lavorarono così bene quei “quattro saggi” – si fa per dire - di Lorenzago del Cadore che al referendum del 25 e del 26 di giugno di quell’anno il “popolo sovrano” – con inattesa resipiscenza - spazzò via quella riforma costituzionale che sapeva di grappa, lardo e polenta e di niente altro. Ed il 24 di giugno di quell’anno che è stato santo davvero, al sabato precedente il referendum e prima ancora che “spirasse” questo blog nelle oscurità infinite della rete, postavo un “Appello per il referendum del 25 e 26 di giugno” che portava per titolo “Che popolo immagina la Costituzione della destra” a firma di Gustavo Zagrebelsky, scritto che era stato pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” giusto il  23 di giugno e che ora ripropongo in questa “sfogliatura” referendaria. Ravvisate analogie con quanto sta accadendo ai nostri giorni? Scriveva allora il professor Zagrebelsky:

sabato 11 giugno 2016

Scriptamanent. 16 “Se la norma infrange il diritto”.



Da “Se la norma infrange il diritto” di Gustavo Zagrebelsky, sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di giugno dell’anno 2010: (…). In ogni regime libero, l'informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l'interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell'onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c'entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d'informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l'interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell'informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione. In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere  -  il potere dell'informazione  -  che ha la sua ragion d'essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un'anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un'anomalia non è, perché l'informazione appartiene a un'altra sfera e non può diventare un'appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri  (e l'informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione.

venerdì 10 giugno 2016

Storiedallitalia. 76 “La democrazia oltraggiata”.



Facciamo un gioco. Il gioco dell’”indovina chi è?”. Lo propongo avendo ritrovato nel mio archivio un piccolissimo ritaglio, ingiallito, di un quotidiano del quale mi premuro di non svelare l’identità. E non svelo neppure l’epoca del ritaglio stesso, che potrebbe essere dell’altro ieri come di un decennio addietro. Importante è che accettiate di giocare mettendo alla prova la vostra memoria e, forse, anche la vostra fantasia o la vostra immaginazione. Anticipato tutto ciò, altrimenti quale gioco dell’”indovina chi è?” sarebbe, leggete il ritaglio con una certa attenzione e fatevi trasportare anche da un pizzico delle vostre sensibilità civiche ed anche dai vostri personali orientamenti, che nel gioco assumono un rilievo non di secondo ordine. Il contenuto del ritaglio è stato espurgato convenientemente affinché non vi fosse fornito indizio alcuno circa l’identità del personaggio delineato nel ritaglio stesso. Sta a voi decidere, alla fine del gioco, di quale pubblico personaggio si tratti. Orbene, si giochi pure: Il presidente del Consiglio attacca nuovamente la Costituzione che, a suo dire, renderebbe il governare “un inferno”; una Costituzione che, come tutti i cittadini, ha l’obbligo di rispettare e osservare e assume un’intensità particolare, rafforzata dal giuramento, per chi ricopre pubbliche funzioni (art. 54). (…). Non è più tollerabile che chi è a capo del governo del Paese offenda continuamente la Carta in cui sono contenuti i principi e valori essenziali della democrazia costituzionale. (…). Il presidente del Consiglio prova un’insofferenza insopprimibile per la divisione dei poteri, principio cardine del costituzionalismo: vorrebbe essere lui, e lui solo, legislatore, governante e giudice insieme. La concentrazione dei poteri contro la quale si è mosso il pensiero liberale, vittoriosamente affermata nella Dichiarazione dei diritti della Francia rivoluzionaria fin dal 1789, è il suo vero desiderio, in parte realizzato (…). In tutti i modi egli cerca di ripristinarla lottando contro la storia. I progetti di riforma della sua parte politica ben lo dimostrano: (…). L’insofferenza (…) fino a poco tempo fa si manifestava essenzialmente nei confronti della giurisdizione; tutte le cosiddette riforme della giustizia non sono altro che tentativi di ridurre i giudici a funzionari subordinati, privati dell’autonomia e dell’indipendenza che la Costituzione assicura. Il fatto che ormai la sua ira, sempre più violenta, si rivolga anche al Parlamento se non fossimo in piena tragedia farebbe ridere considerando la situazione effettiva in cui si trova l’organo della rappresentanza. (…). …un “Parlamento di figuranti“ ha detto (…) rispondendo a domande (…), tutti ininfluenti dato il compito cui gli eletti erano chiamati, votare fedelmente secondo istruzioni. Una sciagurata legge elettorale non solo distorce la volontà degli elettori regalando al vincitore un grosso premio in seggi, ma, imponendo di votare liste già confezionate, priva il “popolo sovrano” di ogni libertà di scelta e ribalta il senso della responsabilità politica che addirittura cambia direzione. L’eletto non risponde più agli elettori, ma soltanto a chi lo ha messo in lista e dunque lo domina. Se non segue gli ordini impartiti sa cosa l’aspetta: non sarà più inserito nelle liste. Eppure al nostro presidente del Consiglio ancora non basta: vuole eliminare ogni forma di procedimento e decidere da solo, indisturbato, in uno dei suoi palazzi.

giovedì 9 giugno 2016

Scriptamanent. 15 “Voluntary disclosure. Ma cos’è?”.


Ci risiamo. Cosa ci attenderà da questo momento in poi? Ballottaggi, referendum d’ottobre, tutti conditi con le bischerate di un funambolico signore di Rignano d’Arno. Che trova un valido sostegno nell’ineffabile, volpino – nel senso di furbo nonostante tutto - “capo” del Mef. Quel tale che si appresta a illusionismi d’ogni sorta, tessendo l’ordito e la trama della prossima “legge di stabilità”. Poiché viene di già ventilata, dalle austere stanze di quel Ministero, come di sicuro successo, per le esauste finanze pubbliche, la prossima operazione di “rientro” – volgarmente detta “voluntary disclosure” - dei capitali trafugati all’estero da “lor signori”. Ma cosa c’è di veramente “volontario”, in un paese talmente disastrato, se non la sicurezza di ricavarne il massimo del vantaggio da parte dei soliti ed ignoti “furbetti del quartierino”? Il 9 di giugno dell’anno 2014 Massimo Giannini, sul settimanale “A&F”, scriveva un pezzo - “Quello scudo stellare sui capitali rimpatriati” - che è tutto da rileggere oggi. “Scriptamanent”, per i corti di memoria, per l’appunto: Non c'è bisogno di essere iscritti al fantomatico 'partito delle manette', per esigere dal sedicente 'governo del cambiamento' di Renzi una svolta nella lotta alla corruzione. Da Milano a Venezia, il ceto politico e le mosche del capitale danno prova congiunta di bancarotta etica. Rubano tutti. Sindaci insospettabili e governatori impresentabili. Magistrati delle acque e generali delle Fiamme Gialle. Grandi aziende appaltatrici e rampanti finanzieri veneti (…). La verità, purtroppo assai amara, è che al peggio non c'è più fine. E la politica - invece di evocare inutilmente 'l'alto tradimento' dei mazzettari e di rinviare disinvoltamente le misure di contrasto - continua a blandire i mascalzoni. L'ultima conferma arriva dal nuovo testo del decreto legge sul rientro dei capitali all'estero, sul quale il Tesoro sta chiudendo in questi giorni. La nuova versione della cosiddetta 'voluntary disclosure' dovrebbe vedere la luce entro il 20 giugno (dell’anno 2014, s’intende n.d.r.). (…). Saranno esclusi dalla punibilità non solo le omissioni dichiarative, ma anche i reati di frode fiscale, oltre a tutti i reati di falso, dalla scrittura privata al falso pubblico, dalla distruzione di documenti al falso in bilancio. Bene, no? Che c'è di più sano, se non incentivare gli imprenditori a re-investire sulle propria aziende in tempi di carestia industriale e occupazionale? Che c'è di più sensato, se non riportare in Italia i troppi miliardi fuggiti oltre confine e imboscati nei paradisi offshore? Peccato che, ancora una volta, siamo alla logica dei condoni e dei colpi di spugna. Fessi tutti quelli che in questi anni duri hanno comunque cercato di rispettare la legge, e di fare fino in fondo il proprio dovere: chi ha esportato illegalmente capitali, nascondendoli al Fisco, ora li può riportare in chiaro, e non paga dazio a nessuno, né all'Amministrazione Finanziaria né all'autorità giudiziaria. E fessi anche noi, che abbiamo considerato uno scandalo lo Scudo fiscale di Tremonti. Non avevamo ancora visto lo Scudo stellare di Padoan.

mercoledì 8 giugno 2016

Oltrelenews. 92 “Una domanda a Renzi Matteo”.



Da “Una domanda a Renzi” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” dell’8 di giugno 2016: (…). Ora (…) c’è una questione (…) più seria che intendiamo sottoporgli (al Renzi Matteo di Rignano sull’Arno n.d.r.). Niente numeri: ci basta un Sì o un No (e non stiamo parlando del referendum costituzionale). Come forse Renzi avrà notato, il Fatto racconta da una settimana, in beata solitudine, lo scandalo del primo giudice costituzionale sotto inchiesta (e per corruzione) della storia repubblicana. E cioè del costituzionalista ed ex parlamentare del centrosinistra Augusto Barbera, eletto alla Consulta il 16 dicembre scorso in quota Pd dal Parlamento in seduta comune, dopo ben 32 fumate nere. Insieme a lui, a “pacchetto”, furono eletti anche Franco Modugno (proposto dai 5Stelle) e Giulio Prosperetti (da Ncd-Udc), tutti con i voti di Pd e M5S, più le solite frattaglie centriste. Il Fatto fece notare che la scelta di Barbera era inopportuna: non perché il prof mancasse dei requisiti scientifici per occupare quel posto; ma perché risultava denunciato dalla Guardia di Finanza alla Procura di Bari per il suo ruolo in una serie di concorsi universitari truccati o pilotati. Siccome le indagini prima o poi si concludono, la Corte costituzionale rischiava di ritrovarsi un giudice inquisito o addirittura imputato. Ma il Pd se ne infischiò e tirò diritto. Barbera aveva dato prova di assoluta fedeltà alle “riforme” renziane della legge elettorale (Italicum) e della Costituzione. La speranza del Pd e del governo era che, entrando alla Consulta, Barbera facesse asse con Giuliano Amato per ribaltare la maggioranza che nel 2014 aveva bocciato il Porcellum per gli stessi vizi di costituzionalità poi riprodotti dall’Italicum. Ora si scopre che un anno prima della sua elezione, il 18 dicembre 2014, Barbera si era presentato alla Procura di Bari per rendere spontanee dichiarazioni. E lì aveva appreso di essere indagato per corruzione, tant’è che i pm l’avevano invitato a eleggere domicilio e a nominarsi un difensore. Quindi, quando fu eletto, sapeva da 12 mesi di essere inquisito, e per un reato così grave. Nella stessa indagine era indagata anche la costituzionalista Silvia Niccolai, che i 5Stelle in un primo tempo intendevano indicare alla Consulta. L’interessata però scrisse loro una lettera per invitarli a cambiare candidato, proprio per la sua veste di inquisita.

domenica 5 giugno 2016

Paginatre. 39 “Eco e la recensione editoriale dell’Odissea”.



Da “Dolenti declinare (rapporti di lettura all’editore)” (1972) di Umberto Eco, tratto da “Diario minimo”, prima edizione Oscar narrativa Mondadori (ottobre 1988), pagg. 148-150:

Omero. Odissea

A me personalmente il libro piace. La storia è bella, appassionante, piena di avventure. C'è quel tanto di amore che basta, la fedeltà coniugale e le scappatelle adulterine (buona la figura di Calipso, una vera divoratrice d'uomini), c'è persino il momento "lolitistico" con la ragazzina Nausicaa, in cui l'autore dice e non dice, ma tutto sommato eccita. Ci sono colpi di scena, giganti monocoli, cannibali, e persino un po' di droga, abbastanza per non incorrere nei rigori della legge, perché a quanto ne so il loto non è proibito dal Narcotics Bureau. Le scene finali sono della migliore tradizione western, la scazzottatura è robusta, la scena dell'arco è tenuta da maestro sul filo della suspense. Che dire? si legge di un fiato meglio del primo libro dello stesso autore, troppo statico col suo insistere sull'unità di luogo, noioso per eccesso di avvenimenti – perché alla terza battaglia e al decimo duello il lettore ha già capito il meccanismo. E poi abbiamo visto che la storia di Achille e Patroclo, con quel filo di omosessualità nemmeno troppo latente, ci ha dato grane col pretore di Lodi. In questo secondo libro invece no, tutto marcia che è una meraviglia, persino il tono è più calmo, pensato se non pensoso. E poi il montaggio, il gioco dei flash back, le storie ad incastro... Insomma, alta scuola, questo Omero è veramente molto bravo. Troppo bravo direi... Mi chiedo se sia tutta farina del suo sacco. Certo, certo, scrivendo si migliora (e chissà che il terzo libro non sia addirittura una cannonata), ma quello che mi insospettisce – e in ogni caso mi induce a dare parere negativo – è il caos che ne conseguirà sul piano dei diritti. Ne ho parlato con Eric Linder e ho capito che non ne usciremo facilmente. Anzitutto, l'autore non si trova più. Chi lo aveva conosciuto dice che in ogni caso era una fatica discutere con lui sulle piccole modifiche da apportare al testo, perché è orbo come una talpa, non segue il manoscritto, e dava persino l'impressione di non conoscerlo bene. Citava a memoria, non era sicuro di avere scritto proprio così, dice che la copista aveva interpolato. Lo aveva scritto lui o era solo un prestanome? Sin qui niente di male, l'editing è diventato un'arte e molti libri confezionati direttamente in redazione o scritti a più mani (vedi Fruttero e Lucentini) diventano ottimi affari editoriali. Ma per questo secondo libro le ambiguità sono troppe. Linder dice che i diritti non sono di Omero perché bisogna sentire anche certi aedi eolici che avrebbero una percentuale su alcune parti. Secondo un agente letterario di Chio, i diritti andrebbero a dei rapsodi locali, che praticamente avrebbero fatto un lavoro da "negri", ma non si sa se abbiano registrato il loro lavoro presso la locale società autori.

sabato 4 giugno 2016

Scriptamanent. 14 «La lezione di Tocqueville».



Da «La lezione di Tocqueville» di Nadia Urbinati, sul quotidiano la Repubblica del 4 di giugno dell’anno 2010: (…). …Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell´opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l´intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l´assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo. L´impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull´opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all´opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire. È per questa ragione che l´azione (di un) premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l´impossibile: vivere di pubblico senza pubblico. Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l´opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma (un) premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l´ambizione assurda dell´assolutismo dispotico nell´era dei media. (…).

giovedì 2 giugno 2016

Dell’essere. 12 “Della disperante solitudine dell’educare”.



Ha scritto Massimo Recalcati in “Un maestro sa insegnare solo se parla ai muri”, testo pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di giugno dell’anno 2014: L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Di quella “solitudine” mi veniva di scrivere alla pagina 115, capitolo XXV, del volume “I professori” – AndreaOppureEditore, (2006) - : (…). È che nella quotidiana “vita scolastica” non sembra poter esistere una linea netta di demarcazione tra l’insegnante esperto e tecnico delle discipline e l’insegnante-uomo- maestro, che si faccia carico dei problemi propri del navigare tormentoso delle giovani generazioni. E l’aspirazione e l’impegno ad essere “insegnante-uomo-maestro" predomina, per fortuna, nella  maggioranza dei docenti della scuola pubblica italiana, poiché oggi la scuola si trova a dover affrontare crisi generazionali delle più complesse, nel quadro di una società in rapida trasformazione sotto tutti gli aspetti, da quelli economici ai rapporti parentali, dell’organizzazione del lavoro a quelli della vita associativa e di relazione, che si riflettono poi inevitabilmente sulla vita stessa delle famiglie e dei giovani con l’insorgere spesso di gravissime crisi motivazionali ed identitarie. Una solitudine che accompagna l’educatore/insegnante che, nella faticosa prassi educativa, cerchi di trovare la via giusta per divenire quel maestro che “è qualcuno che insegna ciò che non si trova nei libri. Il maestro è l’uomo il cui insegnamento mi libera e mi permette di essere me stesso. Un maestro è colui che insegna la sua specialità e qualche altra cosa  che è la sicurezza dei gesti e del pensiero, l’onestà, il gusto, il desiderio di sapere, il coraggio di riflettere, l’attitudine a giudicare, l’orgoglio di essere un po’ più adulto e la gioia di disporre di se stesso. Il vero maestro è l’uomo che educa insegnando”,  così come ne ha scritto Raniero Regni su “School in Europe” nel saggio “Essere insegnanti, divenire maestri”. Massimo Recalcati, che è psicoterapeuta di scuola lacaniana, aggiunge:

mercoledì 1 giugno 2016

Scriptamanent. 13 “Potere e denaro”.



Da “Perché ad alcuni potere e denaro non bastano mai?” di Umberto Galimberti, sul settimanale “D” del 1° di giugno dell’anno 2013: Che cosa spinge i politici, e non solo loro, a non separarsi mai dal potere? E che cosa porta i superricchi ad accumulare denaro senza limite, a volte a qualunque costo? Oltre alla dipendenza dall’alcool, dalle droghe, dal gioco, dal sesso, esiste anche una dipendenza dal potere e dal denaro. E come chi ha già bevuto abbastanza non si lascia convincere che forse e meglio che smetta, o chi ha già perso somme significative al tavolo da gioco non è in grado di interrompere le puntate, o chi dipende dal sesso non sa contenersi in alcuna circostanza che cerca o gli si offre, così chi è affetto da dipendenza dal potere o dal denaro è costretto ad accrescerlo o almeno a mantenerlo a tutti i costi, non perché il livello raggiunto non gli basta, ma perché se si arrestasse nella sua rincorsa al potere o al denaro ne andrebbe della sua identità. Più specificatamente, l’incapacità di abbandonare il potere sembra sia connessa a una carenza di identità dovuta a scarsi riconoscimenti nell’infanzia, accompagnati da soverchianti richieste genitoriali che generano un senso di inadeguatezza a cui i più si rassegnano, mentre gli uomini di potere non cessano di cercare nel riconoscimento esterno.