"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 7 maggio 2016

Cronachebarbare. 37 “Nel paese dei corrotti…”.



Ha lasciato amorevolmente scritto (*) per noi che siamo di fatto i Suoi posteri: C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema  politico non fosse basato su principi che tutti più  o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di  potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più  capaci di concepire la vita in altro modo) e questi  mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favor i illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio  di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui  ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità  sostanziale. Ohibò, chi avrà osato mai scrivere tali cose? E chi era costui che vergando amorevolmente questi Suoi pensieri, affinché i Suoi posteri non avessero a sprofondare nel baratro più profondo, aggiungeva: Vero è che in ogni transizione  illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. Ohibò, ohibò, chi è stato costui? Quale menagramo, quale inveterato gufo? O rosicone che dir si voglia? Quale mala pianta che sia attecchita nel giocondo e festevole paese? E del paese addirittura ha lasciato scritto che:
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.  In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. E già, “gli onesti” per l’appunto. Cosa farne? Cosa farne di quelli ossequiosi delle leggi, delle regole e dei regolamenti vari? Ché a quegli onesti, dinnanzi a quell’inverecondo scempio non veniva meno la voglia di rettitudine e di rispetto del pubblico e del sociale. Ma ohibò, in quel paese l’esempio calava dall’alto. Ohibò, e quale esempio! Ha scritto (**) un tale che: (…). Su un totale di 957 parlamentari la percentuale di delinquenza oggetto di indagini o accertata si aggira (…) tra il 9 e il 12%. Secondo l’Istat, nel 2014 le varie forze di polizia hanno denunciato 2.812.000 di reati. La popolazione adulta italiana (superiore ai 14 anni) si aggira intorno ai 50.000.000. Poiché è ovvio che una sola persona commette in genere più reati, la percentuale dei delinquenti si avvicina al 5%. Sicché la percentuale di delinquenza tra i parlamentari è più del doppio di quella tra i cittadini comuni. Se poi si dovesse calcolare lo sterminato numero di politici non parlamentari e tuttavia delinquenti, la categoria ne uscirebbe schiacciata. (…). È nella premessa che il 9/12% dei politici rubano. I loro colleghi che non rubano possono essere al corrente del misfatto oppure no. Nel primo caso – quando sanno che il collega ha effettivamente rubato – non denunciarlo costituisce un reato (art. 361 del codice penale, punito con la risibile pena di una multa tra i 30 e 516 euro; ma sempre reato è), se poi, chiamati a votare per consentire ai giudici l’utilizzabilità di intercettazioni telefoniche o autorizzare perquisizioni o arresti, negano l’una e l’altra, essendo consapevoli che il loro collega è un delinquente, commettono anche il reato di cui all’art. 378, favoreggiamento personale; che può essere aggravato se si tratta di reato di mafia. Non proprio “rubare”, come si vede; ma delinquere sì. (…). Tale era lo scempio agli occhi degli onesti. Che nondimeno, divenuti netta minoranza nel paese, diversamente acculturati sfuggendo alla malia del mostruoso schermo alla quale si prosternava la maggioranza del giocondo paese, continuavano stoicamente ad aver rispetto delle leggi, delle regole e dei regolamenti e ad accorrere coscienziosamente e puntualmente alle urne ogni qualvolta se ne approntavano nelle sedi convenute, fossero elezioni o qualsivoglia referendum. Sempre! Come ad ogni buon cittadino si prescrive. Ha lasciato scritto ancora per i Suoi posteri quel tale: Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.  Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

(*) “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di marzo dell’anno 1980, tratto da “Romanzi e racconti” – volume 3°, “Racconti e apologhi sparsi”, i Meridiani, Arnoldo  Mondadori editore.

(**) “La delinquenza in politica è un fatto, non un’opinione” di Bruno Tinti, su “il Fatto Quotidiano” del 28 di aprile 2016.

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