"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 5 aprile 2016

Storiedallitalia. 72 “Della cinica solidarietà”.



Il 4 di giugno dell’anno 2008 quello che è stato il glorioso quotidiano fondato da Antonio Gramsci pubblicava in testata la consueta, sua giornaliera “striscia rossa” riportando, di Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, una dichiarazione rilasciata al quotidiano «La Stampa» del 3 di giugno: «Il nostro futuro è una società sempre più pluralista perché gli immigrati sono tra noi e la strada dell’integrazione è faticosa ma è l’unica pienamente umana. La legalità è sacrosanta ma i diritti vanno rispettati: dobbiamo avere la capacità di vedere negli altri non degli avversari ma delle persone uguali a noi, con gli stessi diritti». Sempre quel benemerito quotidiano – benemerito che è stato in verità - pubblicava anche un pezzo a firma di Maria Novella Oppo - “Italiani a intermittenza” - nella allora esistente rubrica “Fronte del video”: Per un giorno le tv si sono occupate di fame nel mondo. Cioè di morte, malattie, disastri ambientali e petrolio. Insomma, tutto quello che causa stragi e immigrazione, clandestina o regolare è la stessa cosa. Ma da noi c’è gente che non ne vuole sentir parlare e preferirebbe che i poveri avessero il buon gusto di morire di fame a casa loro, senza neanche farsi notare. Ma siccome i poveri si sono messi in testa di avere il diritto di vivere, ecco che leghisti e razzisti di tutti i generi si inalberano. Tanto che, nella stessa giornata della Fao, c’è chi ha protestato contro il Comune di Venezia e contro la costruzione di residenze stabili per i Sinti. Il sindaco Cacciari ha spiegato che si tratta di cittadini italiani a tutti gli effetti, ma ai leghisti questo non interessa affatto. Del resto, loro sono italiani a intermittenza: quando c’è da prendere cadreghini ministeriali e prebende, sono italiani; ma quando c’è da pagare le tasse, diventano improvvisamente padani, cioè cittadini di un paese inesistente che pretende di dettare legge all’Italia.
Si era nel mese di giugno dell’anno 2008. Giorni addietro, in un momento di grande convivialità, raccontavo agli amici di una interessante corrispondenza letta su di un quotidiano – o su di un settimanale, ora mi sfugge – di un inviato d’oltralpe nel bel paese. Non ho saputo riferire dell’inviato e delle sue generalità. Ma penso che la cosa sia irrilevante a fronte delle cose scritte. Scriveva per l’appunto quell’inviato, a proposito degli “italiani a intermittenza”, della grandissima sua “meraviglia” per alcune forme di solidarietà espresse dal popolo italiano. Ed a fronte di tale Sua affermazione, resa per gli attenti lettori del Suo paese, scriveva come per le strade del bel paese sia diffusa, tra gli automobilisti, una straordinaria forma di solidarietà: il lampeggiamento prolungato dei fari delle automobili. A scanso di ogni equivoco sull’inconsueta abitudine, l’inviato non tardava a darne una straordinaria e puntuale spiegazione: il lampeggiamento dei fari delle auto circolanti per le sconnesse strade del bel paese obbediva ad un istinto primordiale di salvezza, ovvero di una forma di “cinica” solidarietà, ovvero ancora della necessità di sfuggire ai rigori della legge appena infranta. Infatti il nostro spiegava, con abbondanza di fatti e circostanze, come il comune cittadino del bel paese, di qualsivoglia estrazione sociale e di qualsivoglia ispirazione politico o ideale, si profonda ed esterni con quel suo lampeggiamento il suo spirito di solidarietà nei confronti dei suoi “simili” in automobile alla vista di una qualsivoglia pattuglia delle forze dell’ordine preposta, sulla strada, al controllo della circolazione automobilistica ed alla repressione delle infrazioni riscontrate. Un fatto questo, del lampeggiamento dei fari, ampiamente diffuso e vissuto peraltro da chiunque percorra qualsiasi strada del bel paese. Non certo una calunnia venuta d’oltralpe, quindi. Ma nello stesso “pezzo” dell’inviato si stigmatizzava anche un diverso comportamento “solidaristico” del popolo del bel paese. L’attento inviato riprendeva un triste fatto di cronaca di un morto abbandonato su di un marciapiedi sul quale i cittadini studiavano di scansarne l’ingombro fisico con un lieve saltello. Proprio così: scavalcando l’incauto, venuto a crepare su di un marciapiedi di una città del bel paese. Un fatto di cronaca dei tempi oscuri. Avranno di certo potuto dedurne, i lettori d’oltralpe,  come nel cattolicissimo bel paese la solidarietà scatti repentina e ad “intermittenza” nel fare quadrato soprattutto contro la legge e l’autorità costituita. Nessuna o pochissima, compassionevole e fuggevole solidarietà, al contrario, per un morto venuto ad “occupare” incautamente un marciapiedi o, peggio ancora,  una spiaggia balneare, soprattutto se il morto abbia raggiunto la spiaggia balneare da paesi lontani, da mondi estranei. È la Storia che non fa che ripetersi inutilmente e stancamente. Passato inascoltato ed inosservato quell’insegnamento di Tettamanzi passerà pur anche inascoltato ed inosservato l’insegnamento di Francesco vescovo di Roma. E perché? Poiché un “perché” dovrà pur esserci. Ne ha scritto Massimo Recalcati in “Lo straniero interiore che preme alle frontiere”, “pezzo” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 23 di giugno dell’anno 2015: La difesa del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini. (…). È il delirio di tutti i grandi dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale — naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità. Nei momenti di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. (…). Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. (…). E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. (…). La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permeabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. (…). Avevano ragione Deleuze e Guattari ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.

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