"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 30 aprile 2016

Paginatre. 33 “L’insostenibile irrilevanza del lavoro nel secolo XXI”.



Da “Ascesa e caduta, la parola lavoro non va più in paradiso” di Stefano Massini, dal volume “Lavoro” – Il Mulino editore, pagg. 131 € 12,00 – riportato sul quotidiano la Repubblica del 29 di aprile 2016: (…). Percepita come sinonimo ora di «sforzo inutile», ora di «ingiustizia sociale», ora di «mal digerita sottomissione», ora di «confronto impari con la tecnica», la parola «lavoro» porta su di sé tutti i graffi di un’epoca confusa. Idolatrato dai nostri nonni e castamente amato dai nostri padri, oggi il lavoro ha finito da tempo di essere un luogo di aspettative o di conferme, caricandosi di tutte le possibili inquietudini di una suprema incognita. Lontana anni luce l’oasi di un mestiere sicuro, e svanito l’approdo assolato del posto fisso, l’occupazione è diventata essa stessa un miraggio, indipendentemente dal suo essere organica a un progetto di vita. E se la percentuale di adolescenti che indicano un “mestiere dei sogni” va rapidamente crollando, ancora più illuminante è la quantità di loro che aspirano a carriere da calciatori o da veline, entrambi concepiti come emblema di arricchimento facile e di immediata riconoscibilità pubblica. E siamo giunti con questo al paradosso che in una Repubblica costituzionalmente «fondata sul lavoro », assistiamo a una contrapposizione fra il lavoro stesso e i diritti del lavoratore, in molti casi considerati ormai accessori: si preferisce semmai lavorare senza sicurezza e senza prevenzione pur di non restare a casa. La regressione civile che questo ingenera è quanto mai evidente, cosicché il lavoro non solo non redime più l’uomo, ma di fatto lo getta in una spietata plaza de toros, in cui si festeggia chi sopravvive. L’ultimo caso che io ricordi è quello di una cava vicino Palermo, dove un dipendente appena licenziato ha ucciso il proprietario e il capocantiere, spiegando il gesto con un laconico «Mi hanno tolto il lavoro», frase che suonerebbe paradossale se non ci chiedessimo subito «Quale lavoro gli hanno tolto?». E la risposta, evidentemente, è che non si tratta di difendere un lavoro, ma uno stipendio. La novità è che in tempi di crisi si è disposti a uccidere per non perderlo. Ecco allora che il risultato è clamoroso: il lavoro, pietra miliare di ogni società organizzata, diviene per noi il motore scatenante di una riemersa paura ancestrale, il terrore di essere sopraffatti dai nostri simili. Leggendo i media è infatti evidente come oggi il lavoro crei spesso divisioni frontali: giovani contro anziani, autoctoni contro immigrati, precari contro stabilizzati. La ricerca di un lavoro è divenuta competizione per la sopravvivenza, con le implicazioni drammatiche che ciò comporta. Ed è inquietante – ma paradigmatica – la situazione dell’Ilva di Taranto, difesa a oltranza da folle di lavoratori, all’insegna del motto «Uccide, certo, ma ci dà da vivere». Figlia di un momento storico rimasto senza bussola, la parola “lavoro” rimbalza sulle nostre bocche come farebbe lo sporadico frammento di un ricordo dentro una generale amnesia. Sentiamo che aveva un senso, che rappresentava molto di più di ciò che noi oggi le attribuiamo. Forse percepiamo perfino un vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo l’eco di un discorso andato. Forse un giorno, richiudendo l’ombrello dopo la lunga pioggia, ne riannoderemo fra le pozzanghere il senso.

Da “Continuano a chiamarla flessibilità” di Richard Sennett, sul quotidiano la Repubblica del 21 di aprile 2016: (…). I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità. Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego. Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione. Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo faber, l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima. Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull’assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini. La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”. La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro. (…). Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato. (…). È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l’idraulico, l’elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite. Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse. Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.

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