"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 2 aprile 2016

Paginatre. 29 “Negarsi alla vita”.



Da “Noi e loro così vicini” di Adriano Sofri, sul quotidiano la Repubblica del 13 di febbraio dell’anno 2011: (…). Abbiamo assistito, in un rapido volgere di anni, dapprima increduli e sbigottiti, poi rassegnati e assuefatti, a una mutazione umana orrenda come quella degli assassini-suicidi che chiamiamo kamikaze. Uomini (e donne) che sacrificano con entusiasmo vite altrui, di innocenti tramutati in nemici o in ostaggi, per guadagnare il premio del paradiso: altra storia da quella antica degli umani disposti a sacrificare la propria vita per una causa sentita superiore. Contro umani votati alla morte può poco la premessa di ogni educazione e prevenzione e repressione, che è l´amore e comunque l´attaccamento alla vita. Il suicidio di Mohamed B. e dei suoi emuli, come già quelli di Jan Palach o dei bonzi di Saigon, è spoglio di compiacimenti estatici, e rifiuta di fare della propria morte un´arma estrema per colpire fisicamente un nemico, come quel personaggio di Dostoevskij che presta con disprezzo il proprio suicidio solitario ai militanti del terrore, per i quali è una moneta da spendere. (…). Amaro e insopportabile com´è, il suicidio inerme è una protesta di dignità e contraddice la vita spregiata dai "kamikaze". Che attraversi oggi in particolare il mediterraneo islamico e vi si mostri imprevedibilmente efficace fa pensare, ma è un fenomeno più vasto. Ha riguardato, nei nostri anni, a migliaia, i contadini indiani indebitati. Ha scosso l´anno scorso il cuore della produzione cinese, nella più colossale e avanzata linea di montaggio del mondo, dove 13 suicidi ravvicinati di operai hanno costretto a concedere aumenti fino al raddoppio dei salari (derisori) e a escogitare misure grottesche, come l´impegno a non suicidarsi sottoscritto per contratto!
(…). Nell´agosto 2010, il tredicesimo suicida della Foxconn, un diplomato diciannovenne, assunto da 42 giorni, lasciò una lettera in cui descriveva l´abisso fra le aspettative di chi comincia un´attività di lavoro e la realtà. In gennaio, il primo, un altro diciannovenne, Ma Xiangqian, si era buttato giù dal tetto del dormitorio: lavorava sette notti a settimana, undici ore filate, a montare componenti elettronici, prima di essere spostato a pulire i cessi. Nemmeno in Europa i lavoratori che si suicidano sono una notizia rara, purtroppo. In Francia hanno fatto scalpore i suicidi di dipendenti, in gran parte manager, della Telecom: 24 in 19 mesi. In Italia, dove non è raro che le cronache registrino (o ignorino) il suicidio di lavoratori disperati che hanno perduto il posto di lavoro, si è fatta allarmante la sequela di suicidi di piccoli imprenditori messi nell´impossibilità di tirare avanti, con le proprie aziende, le famiglie proprie e dei propri stretti collaboratori. Il suicidio non può essere ritenuto una risorsa della non violenza –caso mai una conseguenza non cercata. Ma sta di fatto che sulla sponda sud del Mediterraneo, luogo proverbiale di violenza o di apatia, sono avvenute due, finora, rivoluzioni popolari e non violente. (Lo fu anche quella iraniana, ma niente è detto una volta per tutte). Quelli sono paesi di giovani e non per giovani. Il nostro non è per giovani né di giovani, benché rinsanguato dai nuovi arrivi. (...).

Da “I kamikaze e il senso della (loro) morte” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 31 di marzo 2016: (…). Io credo che soprattutto nei foreign fighters più che una voglia di uccidere, ci sia una voglia di morire. Perché è “un morire per qualcosa”. Per un’idea, per un ideale, per sbagliati che siano, piuttosto che vivere nel nulla e per il nulla. Ha spiegato molto bene questo concetto in un articolo su Settedell’11 marzo Lorenzo Cremonesi, forse il migliore inviato che abbiamo oggi sul campo: “Il carisma dei jihadisti sta anche nella loro morte. Un elemento che affascina anche i volontari che arrivano dalle città occidentali. I loro principi sono nichilisti e folli, eppure vanno capiti, non per giustificarli, ma per comprendere il tipo di pericolo che ci minaccia. Legittimare la morte, glorificarla, darle un senso ultimo inserendola in un’ideologia, aiuta ad affrontare la vita ”. Cremonesi dice, sia pur con un po’ più di circospezione, ciò che ho detto io (…). Come ho affermato in altre occasioni, e in modi diversi, la forza d e l l’Isis non sta tanto nell’indubbio coraggio dei suoi guerriglieri che soprattutto in Medio Oriente si battono con grande valenti a contro la superiorità tecnologica delle due grandi super potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, dell’Inghilterra, della Francia e della quarantina di altri Stati che fan parte della coalizione anti Daesh (e quando sono tutti contro uno io comincio ad avere il sospetto che non sia solo quest’uno il reprobo), ma sta nel vuoto di valori dell’Occidente. Noi non abbiamo più valori, né collettivi (per esempio la Patria, la religione) né individuali (dignità, coraggio, onore) che ci consentano di affrontare la morte. Abbiamo delegittimato la morte, non solo quella eccezionale, in guerra, ma anche quella normale, biologica e quindi inevitabile. L’abbiamo scomunicata, interdetta, proibita, dichiarata pornografica, oscena. La morte è il Grande Vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”, altro che la pederastia di vittoriana memoria. Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: “La scomparsa”, “la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”,“ci ha lasciato ”, “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è tornato alla pace del Signore”, “è terminata la giornata terrena”, la parola morte a indicare ciò che realmente è successo, non c’è mai. La morte non sta nella società del Benessere. E quindi è ancora più difficile inserirla in un altro fenomeno che abbiamo da tempo scomunicato: la guerra. Da qui le ipocrisie degli ‘interventi di peacekeeping’, ‘missioni di pace’, ‘operazioni di polizia internazionale’. La morte che accettiamo è solo quella degli altri, non la nostra. Nel 2009 Barack Obama, da poco eletto presidente, dichiarò a proposito dell’Afghanistan: “Sogno una guerra combattuta solo con i robot, per risparmiare la vita dei nostri soldati”. Adesso, con i droni, ci siamo arrivati. Ma il combattente che non combatte perde ogni legittimità. Perché la particolare legittimità di uccidere, assolutamente esclusa in tempo di pace, in guerra è resa possibile dall’altrettale possibilità di essere uccisi. Se uno solo può colpire e l’altro solo subire usciamo dai confini della guerra per entrare nel territorio dell’assassinio (ecco perché il kamikaze che uccide immolandosi “ha una sua nobiltà”, mentre il pilota che stando al sicuro, a diecimila chilometri di distanza, sgancia i suoi missili mortali, la perde). È quanto abbiamo fatto per una quindicina d’anni, dall’Afghanistan in poi. Poiché la guerra non ci toccava, e continuavamo a vivere tranquillamente nelle nostre città, la guerra non esisteva. E così adesso, che è entrata anche nei nostri territori, non siamo più pronti ad affrontarla.

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