"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 6 aprile 2016

Oltrelenews. 83 “Chiamate la neuro!”.



Da “Psycho Matteo che nega se stesso” di Antonello Caporale, su “il Fatto Quotidiano” del 17 di dicembre dell’anno 2015: Matteo Renzi sta conoscendo il momento più duro della sua pur spavalda conduzione degli italiani verso il sorriso. Per affrontare questa imprevista stagnazione della felicità, il premier sferra una controffensiva mediatica sdoppiandosi. Diviene l’uno e il suo opposto, trasformandosi così da premier in psycho-premier. Sono le meraviglie cavernose della psiche, l’attitudine alla rimozione come difesa ultima dell’identità ad essere utilizzate nella battaglia finale contro i gufi. Alla Leopolda, per esempio, elimina ogni traccia di Pd, consentendosi di non esserne segretario per tre giorni. Si autosospende, anzi si autorimuove, e chiama a raccolta la propria corrente annunciando: “Chi parla di correnti resti a casa”. Lo psycho-premier trasforma tutti i renziani in altrettanti psycho-renziani che lavorano sui due campi della mente: l’esserci e il non esserci. Erano alla Leopolda, che è una corrente, ma contro la Leopolda, essendo contro le correnti. Erano del Pd, tutti tutti del Pd, ma anche un po’ contro il Pd. Cosicché quando Renzi estende alla Boschi l’ombrello interdittivo alla rivalsa gufesca, annulla d’imperio il contestato potenziale conflitto di interessi della ministra attraverso un processo di sostituzione figurativa. Tutti avevamo in mente il volto del papà di Maria Elena come causa dello scandalo. Lui, cioè Matteo, per spiazzarci, parla invece del proprio papà: “Lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco”. Con la sostituzione dei papà avviene anche una sostituzione del conflitto di interessi – qui è il papà di Renzi non della Boschi a fomentare il contrattacco e dunque a far confliggere il figliolo con i propri doveri – ed è un modo per far sbandare l’opposizione e obbligarla al dubbio: chi sfiduciamo? Lei o lui? Lo psycho-premier avanza nella sua performance: “Il consiglio di amministrazione di cui fa parte il padre della Boschi è stato destituito dal nostro governo”, dice. Quindi il governo è stato severo contro gli autori delle malefatte bancarie. Ma la Boschi, questa volta confliggendo direttamente col premier, aveva appena assicurato: “Mio padre è una persona perbene”. E la domanda dunque è: il suo papà è sempre perbene o dopo le parole del premier è un tantino degradato verso il male? Formidabile però la risposta che il premier prepara per rintuzzare i veleni di Enrico Letta che paventa due pesi e due misure di Renzi. Quand’era all’opposizione chiedeva le dimissioni di un ministro ogni battibaleno. Adesso che guida il governo si rammarica se l’opposizione fa altrettanto. “Ci sono partiti che si sono fatti le banche”, esplode Matteo. A chi si riferisce? Tolto di mezzo Berlusconi, che aveva una banca (socio di Mediolanum) prima di fare il premier e prima di fondare Forza Italia, rimangono la Lega nord e i Ds, cioè i soci di maggioranza del Pd. Proprio il suo partito! Diavolo di un Renzi, anche questa volta ha rimosso il segretario che è in lui e così Piero Fassino, che da ultimo segretario Ds disse “Abbiamo una banca!” e oggi è il sindaco di Torino, si è trasformato da renziano in psycho-renziano. È suo amico ma anche suo nemico. È con lui ma anche contro di lui. Si conoscono e non si conoscono. E Renzi, capolavoro!, è riuscito a perforare anche la memoria del ministro Giuliano Poletti, quello del Jobs Act, che viene dalle Coop, mondo nel quale Unipol, la protagonista di passate ma infruttuose acquisizioni bancarie, gravita stabilmente. Poletti? Poletti chi?

Da “Non siamo come gli altri: se lo ripeti, forse qualche dubbio ce l’hai pure tu” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 6 di aprile 2016: C’è un passaggio, nel discorso di Matteo Renzi alla direzione del Pd, che illumina tutto come un faro sulla costa, come un flash sparato nel buio. E’ quando dice: “Noi non siamo come gli altri”, una frase che – quando senti l’impellente bisogno di dirla – ti rende esattamente come gli altri. Certo si conoscono le basilari motivazioni psicologiche: se continui a dire come in un mantra “Noi siamo di sinistra”, ripetendolo in ogni istante anche senza assumere la posizione del loto, vuol dire che qualche dubbio ce l’hai. Dunque: “Noi non siamo come gli altri”, non confondeteci, noi siamo quelli bravi, carini, che quando li beccano si dimettono (oddio, non tutti), che fanno le riforme, che sbloccano le opere, eccetera eccetera. Tutte interessantissime faccende contingenti, mentre in quella frasetta c’è una piccola giravolta della storia, perché questo andirivieni ideologico tra l’essere uguali e diversi è un divertente tormentone della sinistra italiana. Il Pci, vecchia gloria del pugilato politico europeo, costruì la sua granitica credibilità sull’essere diverso dagli altri. Non solo quando quella diversità ti portava in galera, in via Tasso o alla fucilazione, ma anche dopo, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, “in seno al popolo”, come dicevano, e oggi sorridiamo. Poi ci fu un’altra fase, recente, di veloce de-ideologizzazione. La gestione del potere, l’avvicinamento a quelli che si chiamano “i poteri forti”, la vocazione maggioritaria che scivola nel partito della nazione, insomma, il partito recente. L’obiettivo, anche antropologico, era opposto: diventare come gli altri. Rassicurare che sì, si rimane di sinistra, alcuni addirittura di provenienza comunista (lo so, suona come un film di Buster Keaton, eppure…), ma non mangiamo i bambini, abbiamo la macchina, ci piace spassarcela e insomma, non abbiate paura di noi. Persone  perbene, che avevano letto dei libri, si adeguavano allegramente al gentismo degli “altri”, specie in materia culturale, pur di non sembrare diversi. Volevano, in quella fase che va più o meno da Occhetto a Veltroni, essere uguali agli altri, essere accettati, smussare gli angoli, sfumare le differenze. Salvo tornare diversi quando le cose si mettevano male, quando gli “altri” erano un po’ troppo impresentabili per essere imitati. Ma insomma, questo desiderio di essere come tutti, un vero manifesto ideologico, ha scavato e lavorato. Ora puoi dirti di sinistra ed esaltare Marchionne, o dire che sblocchi l’Italia perché agevoli i petrolieri. Missione compiuta: in meno di trent’anni, eccoli veramente diventati come gli altri. E ora questo accorato appello del segretario Renzi: “Noi non siamo come gli altri”. Questa volta la rivendicazione non è ideologica, ma smaccatamente commerciale, di comunicazione. Gli early user sono, nel gergo del marketing, quegli utenti più rapidi e attenti che hanno sempre per primi il nuovo prodotto, che lo fanno diventare trendy, che lo fanno desiderare a tutti gli altri. Il Pd renziano lo è stato per qualche tempo. Smart, camice bianche, panini di Eataly, gelati di Grom, chiamarsi per nome (Matteo, Maria Elena…) e tutto lo spettacolino che abbiamo visto. Ora quello spettacolino non basta più, è già vecchio. Il grido orgoglioso “Noi non siamo come gli altri” somiglia alla frustrazione del fighetto con il nuovissimo telefonino quando si accorge che quel modello che lo rendeva unico, fico, trend setter, e cool, ora ce l’hanno tutti e non fa più impressione a nessuno. Dannazione. La narrazione del renzismo, non avendo basi ideologiche, ma soltanto estetico-caratteriali, perde in fretta di intensità e freschezza. Se il fatto che sei diverso dagli altri devi dirlo e ripeterlo, vuol dire che non si vede al volo, un bel guaio, per i narratori.

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