"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 2 marzo 2016

Lalinguabatte. 13 “La voce del padrone”.



Prendiamo le prime pagine – e solamente quelle per carità, quelle che strillano di più e fanno da megafono del potere - di uno dei due quotidiani che continuo a frequentare ancora. Perché ancora? Presto detto. Un tempo acquistavo ed ho acquistato sino all’ultima sua chiusura – a quando la prossima? – il quotidiano di quello che fu il “piccì”. Un legame di fedeltà che veniva da lontano e che ha segnato – quel legame intendo dire - la mia vita adolescenziale, la mia giovinezza, la cosiddetta maturità (ma quando un essere umano possa considerarsi maturo non oso stabilirlo. Propendo per un divenire dell’umano che non abbia traguardi o limiti), ma non ho potuto continuare in quel legame alla luce del nuovo assetto padronale ed editoriale di quello che fu il grande giornale fondato da Antonio Gramsci. Del quotidiano al quale ho all’inizio accennato cominciano ad annoiarmi ed impensierirmi gli editoriali, i ditirambi e quant’altro abbia a trasformare un giornale dalla sua naturale vocazione di controllore del potere in un cane fedele, in quella che definirei “la voce del padrone”, voce stonata e di nessuna credibilità. Compro quel quotidiano sin dalla sua comparsa nelle edicole – 1974 - ma il cambio di direzione mi pare essere stato anche un cambio di rotta editoriale, di vocazione e di pensiero. Prendiamo alcune delle sue prime pagine più recenti. 13 di febbraio ultimo scorso: “L’Italia frena il Pil del 2015 fermo allo 0,7”. Si dirà: embé? Sulla scorta di quello straordinario successo, però, i reggitori della cosa pubblica del bel paese hanno previsto nella cosiddetta “legge di stabilità” dell’impoverimento collettivo un +1,6 per l’anno in corso. Nel sottotitolo: “Il petrolio sale e rilancia le borse. Milano recupera il 4,7 per cento. Renzi: il Paese è ripartito”. Per dove? E tutto quest’ultimo entusiasmo del sottotitolo come si concilia con il titolo? Boh! 28 di febbraio ultimo scorso: “G20: sì alla crescita e il Tesoro studia il piano taglia-tasse”. “Il Tesoro studia”. Cosa? Boh! Ecco, basta proclamare “la crescita sia” e tutto si rimetterà al posto giusto? Megafoni e tromboni. Sottotitolo di quel giorno: “Padoan: se c’è spazio via a stimoli fiscali. La Germania frena la Bce. Cina sotto esame”. “Se c’è spazio”! Per chi? Pensate, lo dice Padoan! Quello che accusava i risparmiatori della Banca Etruria di ignoranza in materia economico-finanziaria; un obbligo essere tutti economisti ed analizzatori finanziari. Costoro studiano e ci governano. Oggi, 2 di marzo 2016, titolo di prima pagina che urla a squarciagola: “Torna la crescita. 70mila posti in più l’export spinge il Pil”. Tromboni e megafoni. Quanti giorni sono passati dai titoli del 13 di febbraio? È bastato dire “sì alla crescita”  il 28 di febbraio che il 2 di marzo “torna la crescita”. Tromboni e megafoni. Si spiega sotto il titolo: “Il Prodotto interno lordo sale dell’0,8 per cento nel 2015, certifica l’Istat”. Pensate un po’: lo 0,1 per cento in più rispetto al titolo del 13 di febbraio. Straordinario! Incredibile! Un miracolo quasi! Orbene, quello 0,1% in più quanto lavoro in più ha creato? Quanta ricchezza in più ha distribuito agli abitatori del bel paese? E perché allora Michele Serra, che è un notista affermatissimo di quel quotidiano, ha scritto nella Sua rubrica “L’amaca” del 25 di febbraio:
Dati diffusi (…) dicono che a fronte di un sensibile aumento del risparmio (4 per cento) i consumi degli italiani sono aumentati solo di pochi decimali. Se ne traggono desolate considerazioni sulla persistenza della crisi. Non essendo un economista, e dunque potendo parlare della questione con assoluta spensieratezza, avanzo l’ipotesi che NON ci sia più una relazione “meccanica” tra denaro disponibile e consumi. Una quota indefinibile di persone (probabilmente una minoranza: comunque molto consistente), avendo già raggiunto un decente livello di benessere, ha bisogno (o ha deciso) di comperare un po’ di meno rispetto a prima. Se ne discute da anni, ma il concetto di sazietà, a qualunque livello di soddisfazione dei bisogni lo si voglia collocare, non è contemplato da alcuna analisi economica o politica. Si dà per scontato che il desiderio di possedere cose sia in costante e perenne ascesa, una specie di vocazione naturale dell’essere umano, e al tempo stesso un implicito obbligo sociale. La politica è inchiodata a quel paradigma; non ne contempla altri, e per questo deperisce; (…). Ed è su quel “concetto di sazietà” che bisognerebbe posizionarsi per innumerevoli motivi. Primo tra i tanti, l’insorgente timida insofferenza – annotata dal valoroso notista - verso quell’abbuffata consumistica che ha trasformato il grosso del gregge umano in spericolati consumatori, consumatori immemori d’essere solamente gli utilizzatori di passaggio delle risorse e delle ricchezze del pianeta Terra, ché, in quanto utilizzatori provvisori e transitori, ben dovrebbero porsi il problema morale di ciò che sarà lasciato alle odierne generazioni giovani ed a quelle che ancora attendono di abitare Terra. Ancora il valoroso notista ha scritto nella Sua rubrichetta del 12 di febbraio 2016: Ma non si era detto, otto anni fa, (…), che la crisi era “di sistema”? Che il cedimento non era passeggero, ma strutturale? Che in troppi eravamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità? Che niente sarebbe stato più come prima? Sì, ce lo ricordiamo benissimo: si era detto proprio così. E allora perché la Borsa dovrebbe per forza tornare ai livelli degli anni d’oro, i debiti, anche i più incalliti, evaporare, il Pil lievitare, l’economia ripartire al galoppo, la crisi sparire? Perché questa rinnovata meraviglia su un tonfo che era stato valutato senza risalita? Ci dev’essere un “pensiero magico” che impedisce di prendere atto della paurosa fragilità di un sistema nel quale il lavoro non vale più una cicca, la produzione mondiale di beni ammonta a circa un settimo della ricchezza finanziaria, il risparmio è solo un gruzzolo virtuale in balia di videate ondeggianti che affastellano numerini (mica pane o coperte di lana: numerini). Gli economisti ne capiscono un sacco, ovviamente. Ma non sorprenderebbe scoprire che un economista, senza rendere pubblica la notizia, abbia messo patate in cantina, legna in legnaia, riso e farina in dispensa, e qualche banconota sotto il materasso. Scriveva Federico Rampini il 3 di settembre dell’anno 2011 – anno terzo dall’inizio della “crisi globale” - su il settimanale “D” di quel quotidiano, che è ancor oggi una delle “penne” più affermate e più lette, un “pezzo” che ha per titolo “Consumismo collaborativo”: (…). Swap, è baratto. Economico, appagante, comunitario. Quando non ho più bisogno di un oggetto, non è detto che l'unica destinazione sia la discarica. Qualcosa di profondo sta cambiando nei comportamenti economici. Se accade nella Mecca mondiale del materialismo consumista, l'America, ha la portata di una rivoluzione. Perché spendere e comprare, se invece posso "usare", prendere ciò che mi serve solo quando mi serve? Baratto, affitto, prestito, scambio, usufrutto collettivo, cooperazione: esplode in mille forme questa nuova economia. È l'ascesa del "consumismo collaborativo", (…) quel che è mio è tuo. (…). L'economia della condivisione dilaga tra i giovani perché è la soluzione efficiente, sostenibile, etica, ed è facilitata dall'uso sistematico dei siti sociali. Time ne fa "una delle dieci idee che cambieranno il mondo" e osserva che "un giorno la proprietà ci sembrerà anacronistica, guarderemo indietro al XX secolo e ci chiederemo perché avevamo bisogno di accumulare tutta quella roba". Non è obbligatorio avere vent'anni per capirlo. (…). Vuoi per ragioni di austerità, vuoi per la troppa opulenza degli anni passati che ha riempito le nostre case di oggetti inutili, scopriamo che il poter usare è molto più importante del possedere. Jeremy Rifkin aveva intuito qualcosa battezzando la nostra èra "l'età dell'accesso": nel mondo di Internet ciò che interessa è usufruire, non diventare proprietari. Lo scambio economico si arricchisce di una dimensione umana: si allacciano nuove amicizie con chi condivide l'esperienza del consumismo collaborativo. "Così il consumo diventa il tassello della costruzione di una comunità", sostiene Paul Zak che dirige l'istituto di studi in "neuro-economia" alla Claremont University in California. Rispetto al baratto primitivo, i siti sociali consentono di "abbassare la barriera della fiducia" anche verso gli sconosciuti o chi abita molto lontano da noi. (…). Mi sa tanto che da qui a poco smetterò di acquistare quel quotidiano. È troppo per me.

1 commento:

  1. Ciao, Aldo Ettore. Passano gli anni e ci ritroviamo sempre sulle stesse posizioni Un caro saluto Franca.

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