"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 20 febbraio 2016

Lalinguabatte. 11 “Che ci faccio in cattedra?”.



Divago sul sentiero prima battuto e poi precipitosamente abbandonato. Di quando nella scuola spendevo doviziosamente il mio tempo. Avendo a conforto per il mio “sentire” “maestri” grandi ai quali attingere per trovare slancio e forza. Mentre vado vergando queste poche, inutili righe apprendo della dipartita di un “maestro” che nel tempo ha illuminato le nostre vie, le nostre vite: Umberto Eco. Un altro vuoto, impossibile da colmare. Il titolo di oggi è stato preso a prestito da una corrispondenza del professor Umberto Galimberti  pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” di tanti anni addietro. Pone domande inquietanti, in un paese nel quale il problema della scuola si è ben ridotto alle solite, inutili comparsate dei soliti, inutili, improvvisati ministri, in arte ministri del cosiddetto MIUR, un acronimo da brividi. Il problema della scuola non interessa agli abitatori del bel paese, tanto da delegarne completamente le problematiche ai soli addetti ai lavori, considerati, anche se non pubblicamente dichiarati al pari dei giudici, “stralunati” esseri, nullafacenti o quasi, gloriosamente dediti, e senza tanti riconoscimenti e ricompense, a qualcosa per la quale la sedicente società civile ha ben poco da dedicare o da spendere. In tale contesto la scuola è divenuta purtroppo rifugio o approdo dei tanti che in verità avrebbero meglio potuto impiegare il loro tempo in altre faccende o mansioni socialmente più utili. Ne ho fatta esperienza personale in quanto genitore, per via naturale, ed in quanto insegnante, per scelta inizialmente molto convinta e motivante, e con il senno del poi del tutto sconclusionata. Nel trascorrere dei lustri l’asfissiante gabbia entro cui l’istituzione imprigiona gli anni migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide, inospitali aule, il meglio della propria vita, ovvero dall’entrarne come alunni all’uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto quella consapevolezza alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e da toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e, la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale, innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. E questo senso di smarrimento lo ritrovo nella vasta letteratura che vado scoprendo di tutti quei colleghi che hanno pur essi effettuato quella fuga precipitosa verso quella salvezza dalla “pubblica calamità” che è divenuta la scuola del bel paese; è sempre stato e lo è divenuto oramai la scuola un problema di “salute pubblica” oltre che di “salute personale“, ché come tale non interessa a nessuno, se non ai diretti interessati che sopravvivono nella speranza di una sempre più vicina “uscita di sicurezza”. E prima della dotta prosa di Umberto Galimberti provo ad offrire un assaggio di quanto ha scritto Paola Mastrocola nel suo lavoro “La scuola raccontata al mio cane”. Sì, proprio al suo cane, infinitamente più sensibile a tali problematiche che non i sordi abitatori del bel paese. È una piena crisi di identità personale e collettiva:
(…). C’è un enorme valore del silenzio dentro il verbo insegnare. Io insegno e non dico qual è il mio fine né qual è il mio metodo. Insegno e basta. Così come dipingo e basta, suono e basta, ti amo e basta. Tacere è bello. Tacere era bello. Ora non più. Secondo l’attuale nostra scuola, quel maestro giapponese (il protagonista del film Karate Kid n.d.r.) dovrebbe scrivere nel Pof  (altro acronimo da sballo ovvero Piano dell’offerta formativa n.d.r.) che intende usare come metodo quello di far dipingere palizzate per ottenere come obiettivo di insegnare karate al ragazzo. L’attuale nostra scuola non sembra avere alcuna idea di che cosa sia un maestro. O meglio, non sembra volere affatto dei maestri. L’idea stessa di maestro le è estranea, direi un po’ antipatica. L’attuale scuola odia i “maestri”. Li trova snob e anche antiquati. Poco tecnici, poco flessibili. Dotti e spocchiosi. Oggettivamente non valutabili. E silenziosi, troppo silenziosi. (…). Per il nostro nuovo mestiere, erano stati coniati nuovi verbi e nuovi complementi oggetto. Insegnare e far lezione erano parole vecchie. Oggi l’insegnate deve fare ben altro. Recupera. Colma. Accoglie. Progetta. Esplicita. Pianifica l’offerta, cura l’utenza, individua i percorsi, stabilisce gli obiettivi, disegna la mappa, costruisce la griglia, indica i saperi, fornisce un metodo, studia le strategie, usa gli strumenti, stabilisce i criteri, valuta oggettivamente, si autovaluta, si monitorizza, certifica le competenze, somministra i test, verifica in itinere, rispetta gli obiettivi, organizza i moduli, percorre i percorsi, si aggiorna nei contenuti e nei metodi, mette in atto il processo educativo, esplicita le competenze, concretizza le conoscenze, verifica l’apprendimento, si relaziona agli altri enti – (…) – governa i conflitti, lavora sul territorio, innalza il tasso, il successo scolastico… ma soprattutto è flessibile, flessibile e disponibile, disponibile al cambiamento… Un mare (…). E più se ne ha, più se ne metta. Ma alla fin fine, l’uomo dov’è? E l’alunno cosa ne diviene? Leggiamo, anzi rileggiamo il professor Galimberti per trovarne traccia: (…). … non c'è riforma della scuola che possa cambiare davvero qualcosa se i professori non si lasciano sedurre, corrompere e commuovere da quei ragazzi, più o meno dissestati, che incontrano ogni mattina quando entrano in classe. I professori sono soliti interrogare gli studenti per verificare la loro preparazione, ma già una grande rivoluzione sarebbe se, segretamente, i professori si facessero interrogare dagli studenti, a partire da quella semplice domanda che Bruce Chatwin ogni tanto si faceva nel suo peregrinare: "Che ci faccio io qui?". Una domanda inquietante che interroga la propria idoneità a occupare la cattedra, la propria disponibilità a prendersi cura degli altri, la propria capacità a seguire, oltre ai percorsi intellettuali dei propri studenti, anche quelli più tortuosi e nascosti delle loro emozioni, fino a toccare la loro passione, primo motore dell'interesse e della voglia di vivere e crescere. Conosco l'obiezione dei professori: "Non siamo psicologi, e per quello che ci pagano non possiamo farci carico di trenta o sessanta biografie". Rispondo che non si chiede questo. Si chiede solo di offrire agli studenti un esempio di personalità matura che possa fare da modello orientativo per come si diventa adulti. Se non riconosciamo in noi questo tipo di personalità, se la stanchezza, la delusione, la demotivazione, oppure il nervosismo, la reattività e l'irritabilità sono i tratti che ci connotano quando entriamo in classe, dobbiamo chiudere subito la porta alle nostre spalle e non tornarci più, perché non possiamo consegnare all'inedia o alla depressione quella stagione così esuberante e inquieta della vita che si chiama adolescenza, dove si definiscono una volta per sempre i lineamenti della futura personalità. La responsabilità di un insegnante è enorme e il basso profilo non mette al riparo dal fallimento, che non riguarda solo il processo educativo, ma per intero la personalità dell'insegnante, il quale ai propri occhi non può nascondere quella disistima di sé che consegue all'aver intrapreso una professione per la quale non si avevano i minimi requisiti di idoneità.  Finché la nostra scuola si esonera dal valutare questi requisiti, per quante riforme si facciano non si sarà inciso minimamente in quei processi di crescita che sono il vero scopo per cui la scuola esiste e trova la sua giustificazione. Tutto il resto viene dopo, ma molto dopo.   

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