"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 8 gennaio 2016

Sfogliature. 51 “C’era una volta…”.



Lunedì 20 di settembre dell’anno 2010 postavo “C’era una volta…”. Me lo ritrovo e lo ripropongo alla Vostra cortese attenzione. Scrivevo allora: Sarà capitato ai tanti di noi di dare inizio ad un racconto, ad una qualsivoglia storia, con quel celeberrimo “c’era una volta”. E se ad ascoltare saranno stati, indubbiamente come saranno stati, dei bambini, sarà stato facile cogliere il momento magico innescato nelle loro giovanissime e fertilissime menti. Sarà scattato in essi quel momento supremo nel quale sembra che tutto si sia fermato solo per ascoltare l’affabulatore di turno. E si sarà potuto cogliere il respiro dei piccoli quasi contenuto se non sospeso, i loro occhi assumere una espressione di improvviso straniamento dalla realtà circostante, mentre le loro giovani menti si saranno inoltrate in labirinti nuovi ed inesplorati dai quali tornare con sempre nuove consapevolezze. L’affabulazione. La vita nelle fiabe. Una storia antica, propria degli umani. Si è affabulato ovunque e sempre, per vincere paure o quant’altro la vita doviziosamente propina dalla sua capace cornucopia del dolore. Ma l’affabulazione rimane una magia ed un mistero al contempo. Conosco persone a me carissime che, sorprendendomi nell’affabulare con i loro innocenti pargoli, hanno dimostrato allarme per le fiabesche storie che non disdegnano anche la rappresentazione del male del vivere. Mi sono sentito in quegli istanti come un “violentatore” inopportuno di quelle giovani coscienze. Ma le fiabe hanno di straordinario la rappresentazione del male del vivere in un contesto che è pur sempre fantasioso e fantastico. Quale dovrebbe essere il limite proprio delle fiabe? Cosa andrebbe bandito in esse? Mi accorgo d’essermi inoltrato in un labirinto oscuro e pericoloso. Non ne ho la necessaria competenza. Mi manca, come suol dirsi, la dottrina. Me ne ritraggo prontamente citando il grande Bruno Bettelheim (nato a Vienna il 28 di agosto dell’anno 1903 e trapassato a Silver Spring, nello stato del Maryland, il 13 di marzo dell’anno 1990) che, per le sue origini ebraiche, fu costretto ad emigrare negli USA dove ottenne la cittadinanza ed ove esercitò la professione di psicologo dell'infanzia interessandosi in particolar modo dell'autismo. Secondo il grande studioso austriaco il messaggio che le fiabe inviano al bambino è questo: - una lotta (e la sua rappresentazione anche per il tramite delle fiabe, per l’appunto n.d.r.) contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell’esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità inaspettate e spesso immeritate può superare tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso – citazione tratta dall’opera di quel grande “Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe” – pag. 13 – pubblicata da Feltrinelli. Fortificati nell’infanzia e nel corso degli anni che pur son già tantissimi dagli insegnamenti di quel grande, ci siam fatti soggiogare dalla fiaba (in verità nera che più nera non si può) che Giacomo Papi ha scritto di recente per un supplemento al quotidiano “la Repubblica”. Titolo della fiaba “Questo re”. Una fiaba (nera), che ha inizio nel secolo ventesimo e che si trascina angosciosamente in questo tormentato secolo nuovo. Merita attentissima lettura. Chi è l’orco di turno? Allora…
C'era una volta un re che aveva capito che crescere è il contrario di morire. Perciò era diventato re. C'era riuscito sorridendo, vendendo, imbrogliando, convincendo, conquistando, donando, corrompendo e pagando, pagando tanto tutti al punto da non sapere più chi né quanti fossero. Poi, quando fu re, volle essere imperatore perché solo se ci si espande non si marcisce. Riuscì nell'impresa sorridendo, vendendo, imbrogliando, convincendo, conquistando, donando, corrompendo e pagando, pagando tanto tutti, al punto da non sapere più chi né quanti fossero. Al punto da pagare anche i nemici. I suoi possedimenti oltrepassavano l'orizzonte, incastrandosi e scontrandosi tra loro, e non bastavano le leggi che i suoi mille consiglieri inventavano di notte perché le sue attività si rafforzassero a vicenda invece di entrare in collisione, e si producesse armonia invece di conflitto. Ingrandendosi l'Impero, si allargava anche la folla di stipendiati, creditori, ricattatori. Ingrandendosi l'Impero, si moltiplicavano le falle da tappare, le liti da dirimere, le richieste da soddisfare. Ingrandendosi l'Impero, i suoi mille consiglieri furono obbligati a dedicarsi, invece che all'intero, a parziali e provvisori interventi di correzione e rinvio. Ingrandendosi l'Impero finì per sovrapporsi all'universo. I suoi alleati si ribellavano, pretendevano, minacciavano, le mogli chiedevano, i figli litigavano, i servi erano diventati vassalli, i vassalli erano diventati re e regnavano incontrastati sui regni che lui gli aveva ceduto. Tutti si pugnalavano nell'ombra, preparandosi alla sua fine, disgustati e divertiti dallo spettacolo del vecchio imperatore che continuava a dibattersi, ma rimaneva in vita soltanto perché la sua sopravvivenza garantiva ormai quella del mondo. Il popolo lo applaudiva, lo toccava e lo acclamava ancora perché sentiva che senza di lui sarebbero state travolte le sicurezze di ognuno. Era diventato il sole moribondo e anacronistico intorno a cui ruotava la realtà e andava in scena lo spettacolo. I suoi cento palazzi scricchiolavano a turno, ma molti non li aveva neppure visitati. Soltanto gli oppositori, ormai ridotti a pittoreschi orpelli nel paesaggio del suo immenso potere, lo rassicuravano, nel loro inutile abbaiare, sulla solidità della sua presa. Lo accusavano di farsi le leggi per sé, ed era vero, ma accadeva anche perché tutto era suo. Le emergenze erano ovunque, la marcescenza lo assediava, ma l'imperatore correva, anche se non sorrideva più, fedele all'intuizione che lo aveva reso ricco, re e imperatore. Ingrandirsi. Crescere. Espandersi. Se soltanto fosse riuscito a fermarsi a guardare l'Impero, si sarebbe domandato: - E allora? -. Se soltanto fosse riuscito a fermarsi, avrebbe capito che c'è un punto oltre il quale la vastità del possesso coincide con il nulla. Che c'è un punto oltre il quale gli imperi si sovrappongono al mondo e, quindi, ritornano al mondo, perché nessuno può più controllarli. Scrisse il pensatore anarchico Gafyn Llawgoch, osservando da Cardiff l'avanzata di Hitler in Europa: - Anche gli imperi sono schiavi dell'entropia. La sabbia dei deserti, le radici delle foreste, l'acqua degli oceani, presto sommergeranno tutto di nuovo. E allora si potrà ricominciare -. Se soltanto fosse riuscito a fermarsi, l'imperatore avrebbe visto il lento, paziente, meraviglioso spettacolo shakespeariano della decomposizione. E avrebbe compreso che lo sconfinato potere che aveva accumulato era solo l'organismo di un grande animale morente. E forse sarebbe tornato a sorridere. Avete per caso riconosciuto l’orco della fiaba?

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