"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 21 gennaio 2016

Lalinguabatte. 8 “A scuola ho imparato la felicità”.

Non potevo andare oltre ed abbandonare al suo destino la stupenda pagina che Claudia De Lillo – in “arte” Elasti – ha scritto per il settimanale “D” del 16 di gennaio 2016, pagina che ha per titolo “A scuola ho imparato la felicità”. Un titolo che ha dell’incredibile in questo mondo che, per la ricerca della “felicità”, percorre sentieri spesso impervi e decisamente fuori rotta. Per Elasti fu semplice invece “innamorarsi” della Sua insegnante del quarto ginnasio con l’aiuto della quale…“scoprii che nel greco antico avrei trovato radici, spiegazioni e chiavi per capire me stessa”. Una ricerca della “felicità” impensabile oggigiorno, ricerca quella che sta oltre la materialità dilagante dell’oggi, dell’avere per essere e non già per scrutare ed esplorare orizzonti nuovi del conoscere e del sapere. Ed è leggendo la pagina di Elasti che mi è ritornata alla mente una mia lettura contenuta in quel meraviglioso libro di memorie che ha per titolo “Storia di una giovinezza” di Elias Canetti. È da quella lettura che vien fuori la poliedrica e misteriosa figura dell’insegnante, di tutti gli insegnanti, così come di sicuro essa è apparsa ed appare agli occhi incantati dei pre/adolescenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi. E chi non ha provato un incantamento anche breve al cospetto di un insegnante ilare e giocoso, o di un insegnante canuto ed austero, non avrà goduto di quel tempo “sospeso” che quasi per miracolo la scuola riesce a creare ed a dispensare sol che si sia disposti ad accoglierne i succosi frutti. Ed in un simile e magico incantamento la curiosità giovanile galoppa e si inerpica per quelle vie tortuose della immaginazione per cui, di quelle stupende persone che sono pur sempre gli insegnanti, ci si sforza di indovinarne la vita anche la più recondita, a costruirne attorno un alone a volte impenetrabile di pensieri e di ingenui ed indistruttibili convincimenti, ché solo il progredire degli anni dissiperà per restituire una immagine dell’insegnante più concreta e verosimilmente vicina alla sua umanità.
Ha scritto Elias Canetti che… “la diversità degli insegnanti (…) è la prima forma di  molteplicità di cui si prende coscienza nella vita. Il fatto che essi ci stiano davanti così a lungo, esposti in tutte le loro reazioni, osservati ininterrottamente per ore e ore, oggetto dell’unico vero interesse della classe, impossibilitati a muoversi e dunque presenti in essa sempre per lo stesso tempo, esattamente delimitato; la loro superiorità di cui non si vuole prendere atto una volta per tutte e che rende acuto, critico e maligno lo sguardo di chi li osserva; la necessità di accostarsi ad essi senza rendersi le cose troppo difficili, dato che non ci si è ancora votati al lavoro in maniera esclusiva; e poi il segreto in cui rimane avvolto il resto della loro vita, in tutto il tempo durante il quale non stanno recitando la loro parte davanti a noi; e ancora, il loro susseguirsi uno dopo l’altro, nello stesso luogo, nello stesso ruolo, con le stesse intenzioni, esposti con tanta evidenza al confronto – come tutto questo agisce e si manifesta, è un’altra specie di scuola, del tutto diversa da quella dell’apprendimento, una scuola che insegna la molteplicità della natura umana, e purché la si prenda sul serio anche solo in parte, è questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo”.E così Elasti, giovane donna del secolo ventunesimo, si avventura per le misteriose vie delle memorie scolastiche per trarne un alito nuovo e  diverso che sia consolatorio a fronte delle impellenze della quotidianità. Ed allora scrive che (…). …capitò una volta, ricordo, in seconda elementare. La maestra ci stava spiegando la tabellina del nove. «9, 18, 27, 36, 45… notate qualcosa? Già! Mentre le decine aumentano di uno ogni volta, le unità si riducono di uno… Bello, no?». Non era bello, pensai, nel furore esaltato dei miei sette anni. Era straordinario. Imparavo che i numeri possedevano una loro magica armonia. E se la possedevano i numeri, che in qualche modo governavano il mondo, dovevano per forza possederla anche le nostre vite. Fui grata alla signora Irene, la mia maestra, che, generosamente, aveva aperto per noi - o, nel mio egocentrismo bambino, solo per me - uno scrigno prezioso, colmo di informazioni segrete e fantastiche. Mi successe nuovamente al cospetto dello schema dei modi e dei tempi dei verbi italiani, anch'essi meravigliosamente ordinati e prevedibili, dietro una maschera di caos apparente. E poi, ancora, alle medie, quando un'illuminata docente di scienze ci raccontò, con gli occhi sgranati dal suo stesso stupore, come funzionavano gli atomi e le molecole. In quarta ginnasio ebbi un'insegnante durissima e straordinaria che restò solo un anno, ma distribuì perle inestimabili che, da qualche parte, conservo ancora. Me ne innamorai quando leggemmo insieme I cavalieri della Tavola Rotonda e quando, grazie a lei, scoprii che nel greco antico avrei trovato radici, spiegazioni e chiavi per capire me stessa. Il brivido tornò un paio di anni dopo, durante una lezione di filosofia sulle idee platoniche, concetto, ai miei occhi di allora, tanto discutibile quanto ipnotico. Si trattava di fugaci lampi, a rischiarare di rado un monotono grigiore, reso tale dal claustrofobico e ineluttabile senso di coercizione della scuola. La potenzialmente sublime pratica dell'istruzione era inquinata e compromessa dall'odioso aggettivo "obbligatoria". All'università, quando nulla era più obbligatorio, fui guidata dal criterio dell'utilità, più che del diletto o dell'interesse. Così studiai, controvoglia, materie che detestavo, perdendo un'immensa occasione di piacere, oltre che di crescita. La vita, subito dopo, mi travolse e, lungo la strada, persi memoria di quella sete e del piacere di soddisfarla. Ci sono tuttavia languori che non si placano mai del tutto e fuochi che continuano a bruciare, sotto le braci. Tre anni fa, nonostante il lavoro, i figli e parecchia fatica, quella sete si fece inquietudine che, a sua volta, si fece urgenza. Tornai a scuola. Tre ore, ogni giovedì. Scelsi un corso di scrittura creativa. E ritrovai immediatamente la stessa fascinazione irresistibile che un tempo mi regalò l'armonia della tabellina del 9, la sorpresa di un mondo che si schiude per te, il godimento di pendere dalle labbra di qualcuno e sentirsi al centro. Ero felice, ogni giovedì, in quelle tre ore, di una felicità diversa dalle altre, di una felicità che, dopo, ti fa sentire migliore. E poiché la felicità dà dipendenza, oggi ci sono ricascata. Mi sono iscritta a un corso di dizione e di fonetica (che ha la "e"aperta) perché è un altro modo di conoscere le parole. Ancora il giovedì, due ore questa volta, in un sottoscala che sa di umido. Di nuovo a scuola, di nuovo quel brivido, di nuovo quella felicità. Tutto questo è per dire che ogni tanto, (…), concedersi qualcosa da imparare - qualsiasi cosa: dal kamasutra alla stenografia, passando per il tip tap oppure per la cucina cubana - è una cosa che fa bene, come la frutta, la verdura, l'esercizio fisico e l'aria di mare.

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