"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 3 dicembre 2015

Oltrelenews. 72 “I patti con l’evasore e i finti controlli”.



Da “I patti con l’evasore e i finti controlli” di Bruno Tinti, su “il Fatto Quotidiano” del 14 di agosto 2015: Ogni anno l’evasione fiscale si mangia 150 miliardi solo per quanto riguarda le imposte sul reddito. L’11 per cento dei contribuenti italiani (le partite Iva) fa “nero”. Gli altri (89 per cento) sono lavoratori dipendenti e pensionati che vorrebbero evadere ma non possono. Tutto questo è fatto notorio e, quanto alle percentuali citate e all’ammontare dell’evasione, proveniente dalla stessa Agenzia delle Entrate. Che però… Prima di tutto assegna priorità negli accertamenti ai Grandi Contribuenti. Che non fanno “nero”. Eludono, non evadono. Delocalizzano sedi e siti di produzione per sfruttare vantaggi fiscali in altri Paesi, fanno transfer pricing (costi in Italia e ricavi all’estero), svalutazioni o sopravvalutazioni fasulle. Insomma imbrogliano. Ma si tratta di un contenzioso quasi esclusivamente giuridico, dall’esito incerto e che richiede procedimenti (dall’accertamento alla sentenza di Cassazione) lunghissimi. Con questo tipo di controlli, 150 miliardi di evasione abbiamo ogni anno e 150 miliardi resteranno. Bisogna andare a prendere i soldi dove si ha la certezza di trovarli: dove si fa il “nero”. Da pm l’ho fatto. Quattro pm, tre vigili urbani prestati dal Comune, quattro marescialli di Gdf, 500 processi in un anno, 150 milioni di euro accertati, una ventina direttamente sequestrati. Questo perché il “nero”, volendo, si trova facilmente; poi tocca al contribuente spiegare da dove viene. Facilmente? Certo, con le indagini bancarie e finanziarie, strumento esistente da 50 anni almeno. Si identificano i rapporti del contribuente con il sistema bancario e finanziario; e non solo i suoi ma anche quelli del suo nucleo familiare, parenti, persone che possono ragionevolmente aver operato per suo conto, dipendenti di fiducia, soci… Si fa la somma degli accrediti, la si confronta con i ricavi dichiarati e si chiede conto della differenza. Prestiti, eredità, vincite al gioco, donazioni (la fantasia degli evasori non ha limiti), purché provati (dal contribuente), vengono sottratti dal totale. Il resto è evasione, “nero”. Giuridicamente, nell’immancabile contenzioso tributario, non c’è partita, alla fine i soldi il Fisco li porta a casa. E poi le risorse che simili accertamenti richiedono assicurano un ottimo rapporto costi/benefici. Se una decina di persone (il mio team in Procura che però faceva anche altro, rapine e spaccio di droga continuavano…) ha potuto recuperare in un anno 150 milioni di euro (erano lire allora…), perché il Fisco non potrebbe fare altrettanto? Quanti dipendenti potrebbe utilizzare, 100 mila tra Agenzia e GdF? Fanno 10 mila team, 15 miliardi di “nero”, 8 miliardi di imposte e un importo più o meno analogo di sanzioni. Ogni anno. Con il resto delle risorse controllino i Grandi Contribuenti. E alla fine dell’anno facciano i conti. Allora, perché non si fa così? La risposta sta nelle linee guida dell’Agenzia delle Entrate: “Indagini finanziarie per l’attività di controllo. Devono essere utilizzate solo a seguito di un’attenta attività di analisi del rischio che faccia emergere significative anomalie dichiarative, preferibilmente quando è già in corso un’attività istruttoria dell’ufficio. Ugualmente, nei controlli agli esercenti arti e professioni, sarà utilizzato lo strumento delle indagini finanziarie solo quando la posizione fiscale è difficilmente riscontrabile con altre modalità istruttorie”. Dunque, secondo l’Agenzia, prima bisogna accertare “anomalie dichiarative” e – poi – si va a controllare in banca; prima si adottano “altre modalità istruttorie” e – poi – se non si accerta niente (ovviamente non si accerta niente, il “nero” si chiama così perché è nascosto) si va in banca. In altre parole, prima si lavora a vuoto e poi si fa sul serio. Schizofrenia? Pare di sì. Sempre nelle linee guida dell’Agenzia delle Entrate si legge: “L’impegno maggiore sarà riservato ai comportamenti evasivi più gravi, come quelli che provocano distorsioni alla libera concorrenza e danneggiano i contribuenti che adottano comportamenti leali con il Fisco”. È o non è la fotografia del popolo dell’Iva? I contribuenti danneggiati dalla distorsione della libera concorrenza (i prezzi più bassi praticabili da chi evade) sono i dentisti, gli avvocati, gli idraulici, i commercianti onesti, che non evadono; o i Grandi Contribuenti, con la loro brava sede all’estero e gli stabilimenti delocalizzati? La verità è che c’è un patto con l’evasione fiscale: il governo fa finta di fare le riforme e così la Ue è contenta; i contribuenti che possono evadere si arrangino, non gli capiterà niente; la pressione fiscale graverà sulle classi più povere. Tutto proprio come la Grecia. Fino all’immancabile bancarotta.

Da “L’Italia bloccata dai ricorsi al Tar” di Roberto Mania, sul settimanale “Affari&Finanza” del 16 di novembre 2015: Centosettantaquattro ricorsi al giorno, più di mille e duecento a settimana, sessantaquattromila all'anno. L'Italia in mano ai Tar, ai Tribunali amministrativi che decidono sulla riforma delle banche popolari, sui commissariamenti, sui percorsi scolastici, sui precari delle università, sulla xylella che ammazza gli ulivi pugliesi, sui provvedimenti della Banca d'Italia, sulle Agenzie fiscali, su Uber, sulle concessioni pubbliche, sulle delibere della Consob, sull'insegnamento in lingua inglese all'università e, tanto, sugli appalti pubblici. I Tar decidono su tutto, si "sostituiscono" al legislatore e talvolta anche alla Corte costituzionale, e contribuiscono a bloccare l'economia del Paese e a zavorrare il Pil. I Tar d'Italia registrano i conflitti di potere economico, finanziario, politico. Conflitti locali e nazionali. Mercati contro burocrazia, a volte. (…). I Tar diventano (…) il deposito di una pubblica amministrazione obsoleta, di un inutile protagonismo dello Stato nell'economia, e anche di una legislazione cacofonica, debordante e fantasiosa che punta a non farsi capire, per non scegliere mai. Abbiamo oltre 50 mila leggi, tra statali e regionali, alle quali bisogna aggiungere più di 70 mila regolamenti. (…). Così i ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato (aumentati del 15 per cento nel 2014 rispetto al 2013) rappresentano insieme la sfiducia dei cittadini e delle imprese nella macchina pubblica e l'àncora di salvataggio per il presunto sopruso, l'interesse legittimo da tutelare. Romano Prodi, ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione europea, ha sostenuto, non tanto provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato potrebbe favorire la crescita del Pil perché "in presenza di un'eterna incertezza, i capitali e le energie umane fuggono dall'Italia verso luoghi nei quali quest'incertezza non esiste". È stato travolto dalle critiche dei diretti interessati, presidente del Consiglio di Stato in testa. Ma anche se nessuno lo ha mai calcolato è indubbio che pure la giustizia amministrativa abbia effetti negativi sulla crescita dell'economia. Quel punto di Pil che ci manca - stima della Banca d'Italia - a causa delle lentezza della giustizia civile sarebbe probabilmente qualcosa di più se si riuscisse a comprendere anche il peso delle sentenze dei Tar. I Tar regolano il traffico, ma spesso sbagliano direzione perché il libretto di circolazione è ingiallito e dice che si deve guardare al formalismo giuridico - paradigma decisamente ottocentesco - anziché all'effetto concreto della decisione, paradigma che guida l'economia del mondo globale. Un ricorso al Tar "allunga la vita", forse. Poi c'è sempre l'appello al Consiglio di Stato. Ma allunga, di certo, i tempi di realizzazione delle opere, sfianca l'economia, imbriglia i nuovi progetti, delude, quando c'è, lo spirito imprenditoriale. Se continuiamo ad essere in fondo alla classifica del doing business è anche per questo. Non solo, sia chiaro. Da una parte la ricorsite, dall'altra il Moloch della norma avulsa dal contesto economico, sociale, finanziario. Vuol dire perdita di potenziali investimenti. Miliardi che non arrivano mai. Il conflitto giurisdizionale, non solo quello amministrativo, frena gli investitori stranieri. Forse è vero che l'Ilva non andava svenduta alle multinazionali tedesche, inglesi o indiane, ma è anche vero che gli interessamenti si sono bloccati di fronte all'incognita dei processi. Vale per l'Ilva come per tanti altri casi. Il premier Matteo Renzi annunciò al suo arrivo al governo una guerra senza quartiere ai mandarini della burocrazia, a quei giuristi, perlopiù amministrativisti (giudici del Tar e soprattutto consiglieri di Stato) che a guida dei gabinetti ministeriali e degli uffici legislativi hanno esercitato nel passato la vera attività legislativa, complice una classe politica sostanzialmente impreparata. Un po' l'ha fatto, un po' no. Certo c'è stato un rinnovamento e uno svecchiamento di questa parte di classe dirigente. Nello staff di Palazzo Chigi non ci sono più esperti di diritto amministrativo. E forse è anche per questo che l'annunciata riforma dei Tar si è arenata. Ogni tanto il premier la ritira fuori (l'ha fatto anche all'ultimo meeting Ambrosetti a Cernobbio) ma poi rientra nel cassetto. L'idea era (ed è) quella di modificare i meccanismi di accesso al Tar e di superare la sentenza di sospensiva. "Questo sistema senza certezze per chi lavora va assolutamente cambiato", è ancora il refrain a Palazzo Chigi che ha competenza sulla giustizia amministrativa. Ma pochi gli atti concreti: tre sezioni distaccate di Tar dopo essere state soppresse sono di fatto ritornate in vita. Due cambiamenti si stanno però realizzando: da una parte i giudici amministrativi di primo grado ricorrono sempre di meno alla sospensiva, lasciando così che i lavori di opere infrastrutturali proseguano come già accade in molta parte dell'Europa; oppure, proprio come nel caso della trasformazione delle banche popolari in società per azioni con la tumulazione del voto capitario, che le riforme di sistema non si arrestino. Dall'altra parte si accentua il ricorso alle soluzioni extragiudiziali. (…). Luci e ombre. Alle Ferrovie dello Stato, una delle più importanti stazioni appaltanti del Paese, hanno ridotto al minimo il contenzioso: l'1 per cento delle gare. Sembra che funzioni come filtro la predisposizione rigorosa delle gare. Partecipa chi effettivamente ritiene di aver chance di vincere senza che abbiano accesso i professionisti del ricorso. Su 1940 gare nel 2015 solo venti hanno dato vita a un contenzioso. Diversa la situazione alla Consip, perno della revisione della spesa pubblica, attorno alla quale si sta cercando di costruire una nuova cultura dell'utilizzo delle risorse pubbliche. Bene, anche i tempi per risparmiare soldi si allungano per colpa dei ricorsi. Ha certificato la Corte dei Conti nell'ultima relazione del bilancio Consip relativa al 2013: 47 ricorsi davanti al Tar, di questi 39 sono pendenti, due solo definiti nel merito con esito favorevole, uno con esito sfavorevole, e altri due sono stati quelli nei quali la Consip ha deciso di non costituirsi, tre, infine, non sono stati depositati. (…). Conclusioni: per la gara sui buoni pasto sono stati necessari 15 mesi e 20 è durata quella per la telefonia fissa. Tempi biblici. Va detto, la giustizia amministrativa funziona decisamente meglio di quella ordinaria. Negli ultimi cinque anni l'arretrato è diminuito di oltre il 50 per cento: nel 2009 erano pendenti 667.582 ricorsi, nel 2014 sono scesi a 292.400. In media i procedimenti cautelari davanti al giudice amministrativo durano 35 giorni. Per i Tar - secondo uno studio di Alessandro Pajno, consigliere di Stato con un curriculum di prim'ordine ai vertici della pubblica amministrazione - si è passati dai 41 giorni del 2010 ai 33 del 2013; per il Consiglio di Stato dai 42 giorni del 2010 ai 36 del 2013. Nei giudizi di merito del Consiglio di Stato si è passati dai 351 giorni per i ricorsi depositati nel 2010 ai 235 per quelli depositati nel 2013. (…). È una domanda di appello "patologica", come ha rilevato la Banca d'Italia. Ma è esattamente così che si butta la sabbia negli ingranaggi dell'economia.

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