"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 3 novembre 2015

Sfogliature. 45 “W l’Italia”.



La “sfogliatura” che oggi propongo è ben datata. Essa risale al giovedì 27 di luglio dell’anno 2006. Ben nove anni addietro. Ma prima che possiate leggerla mi preme contestualizzare il “problema”. Ha scritto Fabio Bogo sul settimanale “Affari&Finanza” del 26 di ottobre ultimo scorso, una data ben recente, un pezzo che ha per titolo “La tassa che frena le riforme del Paese”: (…). Secondo i calcoli di Unimpresa tra il 2001 e il 2011 la corruzione ha divorato 10 miliardi l'anno di Pil, facendo diminuire gli investimenti esteri del 16 per cento e facendo aumentare del 20 per cento il costo finale degli appalti, che rimangono - secondo la relazione dell'Autorità nazionale Anticorruzione (Anc) - il comparto di maggiore rilevanza nel fenomeno criminale. L'esame delle condanne inflitte rivela che il 62 per cento dei casi ha riguardato i dipendenti di amministrazioni statali, di gran lunga superiore a quelli che hanno visto coinvolti rispettivamente impiegati dei comuni, quelli di Asl e Aziende Ospedaliere, o di enti di previdenza e assistenza (il 12 per cento ciascuno). La mazzetta, poi, è davvero elastica. Sempre l'Anc in base alle condanne inflitte ha calcolato che nel 5 per cento dei casi l'utilità ottenuta dal corrotto era inferiore a 1.000 euro e nel 27 per cento oscillava tra 1.000 e 10.000. La più diffusa è la bustarella che varia tra tra 10.000 e 100.000 euro (44 per cento dei casi), ma frequente (20 per cento) anche quella tra 100.000 e un milione. Il 4 per cento dei casi riguarda tangenti superiori a un milione. Il valore medio è di 153mila euro. Non è difficile capire quindi perché Standard& Poor's, nell'ultimo rapporto sulle imprese italiane, abbia giudicato a il rischio Paese ancora "moderatamente alto". Perché le riforme avanzano. Ma la corruzione pure. Ora leggete pure quanto andavo postando il quel lontanissimo giovedì del 27 di luglio dell’anno 2006 e converrete con me che a qualsivoglia governo la lotta seria, dura e determinata allo sfregio imposto al bel paese non conviene proprio in termini elettorali. Meglio lasciar perdere e ciarlare, ciarlare…
Come possono sorprendere o meravigliare più di tanto le cose dette nella puntuale nota settimanale di Alberto Statera pubblicata su “Affari&Finanza” col titolo “Il Veneto che produce e il vizietto di evadere”? In un paese in cui un già ministro della seconda o terza repubblica, ché di repubbliche se ne è perso pure il conto, e per il quale il parlamento tutto dell’era dell’Ulivo si mobilita per un salutare indulto che gli eviti l’ignominiosa  detenzione domiciliare, dicevo un già ministro della cosa pubblica, pubblica in verità solo per i gonzi, ha la bronzea sfrontatezza di dichiarare ai magistrati giudicanti di avere portato all’estero somme ingenti solo per legittima difesa da un fisco vorace e non per oliare opportunamente chi di dovere, come se la prima delle due malefatte fosse di minore gravità poiché di certo meglio compresa dal popolo bue sospirante ed invidioso di tanta furbizia e destrezza; oppure, nello stesso scalcinato paese, ove un primo ministro in carica, ripeto all’epoca dei fatti o misfatti narrati in carica,  giustifica quegli stessi comportamenti dinnanzi alle più alte autorità – e si fa per dire alte, come da consuetudine - dello stato nel corso di una celebrazione delle forze preposte a prevenire o scoprire quelle stesse magagne, allora, in quel tristo paese tutto è possibile ed a nulla valgono i richiami delle anime belle e sprovvedute all’etica pubblica e privata, della quale ultima rimangono le poche briciole al pari della prima, briciole di etica di coloro per i quali non sussiste possibilità alcuna di ispirarsi, imitandoli e mettendoli in atto, a cotanti emeriti esempi di furbizia, destrezza e familistica lungimiranza. W l’Italia. Novantasei virgola tre per cento (96,3%). In questa quasi totalitaria percentuale si può tentare con qualche ardimento di riassumere la topica «Questione settentrionale», esplosa dopo le ultime elezioni, con buona parte del Nord schierato politicamente a destra, e persino l’alto dibattito sull’esistenza o meno del «Lombardo Veneto» come area economicamente e intellettualmente coesa. Sono esattamente novantasei virgola tre su cento i titolari di partita Iva nel Veneto, roccaforte della «Questione settentrionale», che hanno mentito al Fisco o, se preferite, frodato lo Stato. Parole grosse, ma non sapremmo come altro dire. E stavolta non è una delle solite statistiche a vanvera che circolano sull’evasione — 100, 200 o chissà quanti miliardi di euro imboscati ogni anno in Italia — ma una verifica sul campo, sia pur parziale, che sembra proprio indiscutibile. L’Agenzia delle Entrate del Veneto gestisce 400 mila partite Iva, cioè posizioni di lavoro autonomo e di piccole imprese. Ha deciso, nonostante la lunga stagione dei condoni e delle amnistie di fatto, di fare un controllo a tappeto: all’incirca una posizione Iva su dieci. E orrore cos’ha scoperto? Che su 38 mila controlli, il 96,3% dei controllati ha, per l’appunto, commesso una frode, sottraendo circa il 16 per cento della base imponibile, diciamo quasi un miliardo di euro. Una possibile «manovrina», certo non risolutiva, ma di qualche peso. Da settore a settore, nel popolo delle partite Iva «scoperto» un decennio fa da Giulio Tremonti, che oltre ad essere un intellettuale di vaglia, è un commercialista coi fiocchi, il livello di «compliance», come dicono quelli che se ne intendono, varia notevolmente. Il minor livello di «compliance», cioè quello che noi tradurremmo volgarmente come il maggior livello di furbizia, si manifesta tra i discotecari. La meritevole Agenzia delle Entrate veneta ha messo sotto osservazione 22 discoteche, con una verifica quotidiana alla cassa sull’emissione di scontrini e ricevute. Risultato: nei giorni dei controlli sul posto gli incassi sono aumentati del 300 per cento. «Si vede che noi portiamo fortuna», ha commentato con qualche amarezza Giuseppe Greggio, dirigente dell’Agenzia, intervistato dal «Corriere Veneto». Per carità, non criminalizziamo i discotecari, titolari di un’importante funzione sociale per i giovani, tanto più che il maggior numero di frodi al Fisco non è certo il loro, ma si registra nelle province di Treviso e di Vicenza, le più ricche di piccole e medie industrie di tutto il paese, e culla della «Questione settentrionale», come ben sa il presidente degli industriali Luca Montezemolo dopo lo shock vicentino di qualche mese fa innescato dallo show di Berlusconi. A che serve tutto questo affannarsi nei controlli fiscali quando poi per un’intera legislatura si lascia intendere che chi elude o evade ha la piena comprensione del governo in carica? Assolutamente a niente, visto che, fatti i controlli, lo Stato riesce mediamente a recuperare soltanto l’1 per cento dei tributi frodati. Questo, almeno, è il dato che si è trovato di fronte il viceministro per l’Economia Vincenzo Visco, tornato dopo un lustro di condoni e creatività alla guida delle Finanze. La sua fama, come si sa, è quella di vampiro dei Carpazi, goloso del sangue dei contribuenti, ma le sue vittime sono alquanto anemiche, a stare all’Agenzia delle Entrate veneta. Non che nel resto d’Italia il dovere fiscale sia più sentito. Tutt’altro. Il popolo della partita Iva tremontiano, a Nord come a Sud, vive, vegeta e continua a votare non tanto con la mano sul cuore, piuttosto con la mano sul portafoglio. Ma nel «Lombardo Veneto» il portafoglio è molto, molto più gonfio. “

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