"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 7 novembre 2015

Oltrelenews. 67 “Una crisi infinita”.



Da “Cari nipoti vi racconto la nostra crisi” di Luciano Gallino, sul quotidiano la Repubblica del 16 di ottobre 2015: (…). Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l'idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità. L'idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino gode di diritti inalienabili, indipen-denti dal suo censo o posizione sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell'insieme ha avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l'ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l'istruzione libera e gratuita per tutti sino all'università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana per l'intera popolazione.
(…). …sul finire degli anni Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito l'attacco dell'idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi superpotenti e super- ricchi che controllano la finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza anti Wall Street di anni recenti si usa stimare nell'1 per cento: un dato che le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa iniziò quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l'uguaglianza, previa una preparazione che risaliva addirittura agli anni Quaranta. (…) Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che oltre al soggiacente ordine sociale mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante nelle sue varie espressioni, dai media all'accademia. La tesi da cui tale corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società predominanti in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare l'ordine esistente a favore delle élite o classi che formano tra l'1 e il 10 per cento della popolazione. È una tesi che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con Marx e poi con la teoria critica della società, elaborata dalla Scuola di Francoforte tra gli anni Venti e Cinquanta; si è prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con Bourdieu e Foucault, sin quasi ai giorni nostri. La suddetta tesi trova una clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare dalla nostra. La rappresentazione di quest'ultima che vi propongono i giornali, la Tv, i discorsi dei politici, le scienze economiche, la stessa scuola, l'università, sono soltanto contraffazioni della realtà, elaborate a uso e consumo delle classi dominanti. È la funzione che svolgono quotidianamente le dottrine neoliberali. E guai se uno osa contraddirle. Il richiamo alle distorsioni che l'enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto in campo sociale, politico, morale, civile, intellettuale viene confutato con l'idea che l'arricchimento dei ricchi solleva tutte le barche – laddove un minimo di riguardo all'evidenza empirica mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano, esso solleva soltanto gli yacht. (…). Al posto del pensiero critico ci ritroviamo, come si è detto, con l'egemonia dell'ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un'ideologia strettamente connessa all'irresistibile ascesa della stupidità al potere. È l'impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l'economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt'altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell'economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno. Resta pur vero che senza l'apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott'occhio. (…). Pensate a quanto è successo nell'autunno 2014. All'epoca i disoccupati sono oltre tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto all'ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell'Ocse di almeno vent'anni prima. Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci legali è anche un modo per non discutere dei problemi di cui sopra. Lascio a voi il giudizio).

Da “Fino a quando durerà la crisi economica?” di Moisès Maim, sul quotidiano la Repubblica del 19 di ottobre 2015: Per quanto tempo ancora il mondo dovrà soffrire una situazione in cui è difficile trovare lavoro, i salari scendono e i governi sono costretti a tagliare la spesa, ridurre i servizi pubblici ed eliminare programmi sociali? Questa è la domanda che si pongono milioni di persone colpite dalla crisi economica. Dal Canada all’Italia, dalla Cina al Brasile, dall’Indonesia alla Russia, la domanda è la stessa: fino a quando? La risposta, naturalmente, dipende dalla diagnosi delle cause. Ci sono quattro interpretazioni principali delle ragioni per cui l’economia globale è così anemica. La prima è che è arrivato a compimento il «superciclo delle materie prime». All’inizio di questo secolo si è avuto un forte aumento dei prezzi dei metalli, degli idrocarburi, dei prodotti agricoli e in generale di qualsiasi tipo di materia prima. Fra il 2000 e il 2010, il prezzo medio si è duplicato, mentre durante tutto il Novecento era sceso in media di uno 0,5 per cento ogni anno. La crescita dell’economia mondiale e soprattutto la fame di materie prime dell’Asia, e in particolare della Cina, ha creato una forte domanda, che ha fatto crescere in modo clamoroso i prezzi. Dal 2011, però, la tendenza si è invertita e i prezzi sono caduti del 40 per cento, colpendo le economie dei Paesi esportatori, che avevano avuto un boom nel momento in cui prezzi erano alti. Ma perché sono in difficoltà anche Paesi come la Cina o le economie di Europa e Giappone, che non dipendono dall’esportazione di materie prime? Una seconda interpretazione delle cause della crisi è incentrata sulla Cina. Il colosso asiatico è stato una delle locomotive principali (a tratti l’unica) dell’economia mondiale. Durante la crisi economica del 2008, quando le economie europee e quella statunitense sono crollate, il governo cinese adottò un programma di espansione economica molto aggressivo: aumentò la spesa pubblica e la liquidità monetaria, ampliò il credito, stimolò gli investimenti e prese misure di ogni genere per mantenere il dinamismo dell’economia e la sua capacità di sostenere l’economia globale. C’è un dato molto significativo che illustra la portata di questo stimolo economico: fra il 2010 e il 2013, in Cina, è stato usato più cemento di tutto quello impiegato negli Stati Uniti nel XX secolo. Ma questa espansione si è dimostrata insostenibile, e alcuni sintomi suscitano inquietudine rispetto alla salute economica della Cina. Secondo i più pessimisti, la locomotiva ha deragliato; secondo altri, si tratta semplicemente di una decelerazione temporanea: in ogni caso, la realtà è che l’economia mondiale non può più contare sulla Cina come compratore di materie prime o come fonte di finanziamento per il resto del mondo. La decelerazione cinese, tuttavia, non spiega l’anemia economica dell’Europa e degli altri Paesi sviluppati. Secondo l’economista Kenneth Rogoff, questa debolezza nasce dalla fine di quello che lui definisce il «superciclo del debito». Rogoff sostiene che per un periodo prolungato Paesi, imprese e persone si sono indebitati eccessivamente, e ora subiscono inevitabilmente i «postumi della sbornia», e sono costretti a ridurre i forti debiti accumulati. Questa necessità di dedicare risorse alla riduzione del debito ovviamente limita le possibilità di consumo e investimento, e questo a sua volta influenza negativamente la crescita economica. In quest’ottica, le economie torneranno a crescere a un ritmo maggiore una volta che l’indebitamento sarà sceso. Larry Summers, altro illustre economista, non la vede allo stesso modo. Riconosce che il forte debito esistente può inibire la crescita economica, ma non è nulla a confronto della «stagnazione secolare», che secondo Summers rappresenta la minaccia più seria per l’economia mondiale. Questa malattia economica si verifica quando i risparmi superano largamente gli investimenti. Le cause sono molteplici: incidono fattori demografici come la struttura per età, la composizione e la distribuzione geografica della forza lavoro nel mondo, la disuguaglianza, l’impatto delle popolose economie asiatiche sui salari e l’occupazione nel resto del pianeta e la costante incorporazione di nuove tecnologie che eliminano posti di lavoro nel momento stesso in cui accrescono la capacità di produzione. Che cosa fare di fronte a tutto questo? Summers raccomanda di stimolare il più possibile le economie, utilizzando tutti gli strumenti di cui dispongono i governi per contrastare le forze che alimentano la stagnazione. Quale di queste visioni è corretta? Tutte. Ognuna illustra un aspetto importante della realtà economica mondiale. Tutte implicano che la crisi, purtroppo, è ancora ben lungi dall’essere finita, anche se in alcuni Paesi possono esserci segnali di recupero. Ma forse il messaggio centrale di queste diagnosi è che ora i governi pagheranno più a caro prezzo e più rapidamente i loro errori di politica economica. L’improvvisazione, il populismo e la ricerca di scorciatoie illusorie prolungheranno la crisi.

Nessun commento:

Posta un commento