Da “Cari
nipoti vi racconto la nostra crisi” di Luciano Gallino, sul quotidiano la
Repubblica del 16 di ottobre 2015: (…). Abbiamo visto scomparire due idee e
relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l'idea di uguaglianza e quella
di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non
bastasse, la vittoria della stupidità. L'idea di uguaglianza, anzitutto
politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni
cittadino gode di diritti inalienabili, indipen-denti dal suo censo o posizione
sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi
siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre
due secoli faticosa e incerta, ma nell'insieme ha avuto esiti straordinari. La
facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di
sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i
cittadini; la tassazione progressiva; l'ingresso del diritto nei luoghi di
lavoro; l'istruzione libera e gratuita per tutti sino all'università; la
realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative
della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza
diventare vita quotidiana per l'intera popolazione.
(…). …sul finire degli anni
Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito
l'attacco dell'idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva
abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi superpotenti e super- ricchi
che controllano la finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza
anti Wall Street di anni recenti si usa stimare nell'1 per cento: un dato che
le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa iniziò
quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con
l'uguaglianza, previa una preparazione che risaliva addirittura agli anni
Quaranta. (…) Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita
numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che oltre al soggiacente
ordine sociale mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse
dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante
nelle sue varie espressioni, dai media all'accademia. La tesi da cui tale
corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società predominanti
in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare l'ordine esistente a
favore delle élite o classi che formano tra l'1 e il 10 per cento della
popolazione. È una tesi che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da
Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con Marx e poi con
la teoria critica della società, elaborata dalla Scuola di Francoforte tra gli
anni Venti e Cinquanta; si è prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con
Bourdieu e Foucault, sin quasi ai giorni nostri. La suddetta tesi trova una
clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare dalla nostra. La
rappresentazione di quest'ultima che vi propongono i giornali, la Tv, i
discorsi dei politici, le scienze economiche, la stessa scuola, l'università,
sono soltanto contraffazioni della realtà, elaborate a uso e consumo delle
classi dominanti. È la funzione che svolgono quotidianamente le dottrine
neoliberali. E guai se uno osa contraddirle. Il richiamo alle distorsioni che
l'enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto in campo sociale, politico,
morale, civile, intellettuale viene confutato con l'idea che l'arricchimento
dei ricchi solleva tutte le barche – laddove un minimo di riguardo all'evidenza
empirica mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano,
esso solleva soltanto gli yacht. (…). Al posto del pensiero critico ci
ritroviamo, come si è detto, con l'egemonia dell'ideologia neoliberale, la sua
vincitrice. È un'ideologia strettamente connessa all'irresistibile ascesa della
stupidità al potere. È l'impalcatura delle teorie e delle azioni che prima
hanno quasi portato al tracollo l'economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue
politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva
tutt'altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell'economia
capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento
patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle
classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un
punto di non ritorno. Resta pur vero che senza l'apporto di una dose massiccia
di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non
piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto
affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott'occhio. (…). Pensate a
quanto è successo nell'autunno 2014. All'epoca i disoccupati sono oltre tre
milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha
perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto
all'ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo
di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il
licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell'Ocse di almeno vent'anni prima.
Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse
di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci legali è anche un
modo per non discutere dei problemi di cui sopra. Lascio a voi il giudizio).
Da “Fino a
quando durerà la crisi economica?” di Moisès Maim, sul quotidiano la
Repubblica del 19 di ottobre 2015: Per quanto tempo ancora il mondo dovrà
soffrire una situazione in cui è difficile trovare lavoro, i salari scendono e
i governi sono costretti a tagliare la spesa, ridurre i servizi pubblici ed eliminare
programmi sociali? Questa è la domanda che si pongono milioni di persone
colpite dalla crisi economica. Dal Canada all’Italia, dalla Cina al Brasile,
dall’Indonesia alla Russia, la domanda è la stessa: fino a quando? La risposta,
naturalmente, dipende dalla diagnosi delle cause. Ci sono quattro
interpretazioni principali delle ragioni per cui l’economia globale è così
anemica. La prima è che è arrivato a compimento il «superciclo delle materie
prime». All’inizio di questo secolo si è avuto un forte aumento dei prezzi dei
metalli, degli idrocarburi, dei prodotti agricoli e in generale di qualsiasi
tipo di materia prima. Fra il 2000 e il 2010, il prezzo medio si è duplicato,
mentre durante tutto il Novecento era sceso in media di uno 0,5 per cento ogni
anno. La crescita dell’economia mondiale e soprattutto la fame di materie prime
dell’Asia, e in particolare della Cina, ha creato una forte domanda, che ha
fatto crescere in modo clamoroso i prezzi. Dal 2011, però, la tendenza si è
invertita e i prezzi sono caduti del 40 per cento, colpendo le economie dei
Paesi esportatori, che avevano avuto un boom nel momento in cui prezzi erano
alti. Ma perché sono in difficoltà anche Paesi come la Cina o le economie di
Europa e Giappone, che non dipendono dall’esportazione di materie prime? Una
seconda interpretazione delle cause della crisi è incentrata sulla Cina. Il
colosso asiatico è stato una delle locomotive principali (a tratti l’unica)
dell’economia mondiale. Durante la crisi economica del 2008, quando le economie
europee e quella statunitense sono crollate, il governo cinese adottò un
programma di espansione economica molto aggressivo: aumentò la spesa pubblica e
la liquidità monetaria, ampliò il credito, stimolò gli investimenti e prese
misure di ogni genere per mantenere il dinamismo dell’economia e la sua
capacità di sostenere l’economia globale. C’è un dato molto significativo che
illustra la portata di questo stimolo economico: fra il 2010 e il 2013, in
Cina, è stato usato più cemento di tutto quello impiegato negli Stati Uniti nel
XX secolo. Ma questa espansione si è dimostrata insostenibile, e alcuni sintomi
suscitano inquietudine rispetto alla salute economica della Cina. Secondo i più
pessimisti, la locomotiva ha deragliato; secondo altri, si tratta semplicemente
di una decelerazione temporanea: in ogni caso, la realtà è che l’economia
mondiale non può più contare sulla Cina come compratore di materie prime o come
fonte di finanziamento per il resto del mondo. La decelerazione cinese,
tuttavia, non spiega l’anemia economica dell’Europa e degli altri Paesi
sviluppati. Secondo l’economista Kenneth Rogoff, questa debolezza nasce dalla
fine di quello che lui definisce il «superciclo del debito». Rogoff sostiene
che per un periodo prolungato Paesi, imprese e persone si sono indebitati
eccessivamente, e ora subiscono inevitabilmente i «postumi della sbornia», e
sono costretti a ridurre i forti debiti accumulati. Questa necessità di
dedicare risorse alla riduzione del debito ovviamente limita le possibilità di
consumo e investimento, e questo a sua volta influenza negativamente la
crescita economica. In quest’ottica, le economie torneranno a crescere a un
ritmo maggiore una volta che l’indebitamento sarà sceso. Larry Summers, altro
illustre economista, non la vede allo stesso modo. Riconosce che il forte
debito esistente può inibire la crescita economica, ma non è nulla a confronto
della «stagnazione secolare», che secondo Summers rappresenta la minaccia più
seria per l’economia mondiale. Questa malattia economica si verifica quando i
risparmi superano largamente gli investimenti. Le cause sono molteplici:
incidono fattori demografici come la struttura per età, la composizione e la
distribuzione geografica della forza lavoro nel mondo, la disuguaglianza,
l’impatto delle popolose economie asiatiche sui salari e l’occupazione nel
resto del pianeta e la costante incorporazione di nuove tecnologie che
eliminano posti di lavoro nel momento stesso in cui accrescono la capacità di
produzione. Che cosa fare di fronte a tutto questo? Summers raccomanda di
stimolare il più possibile le economie, utilizzando tutti gli strumenti di cui
dispongono i governi per contrastare le forze che alimentano la stagnazione.
Quale di queste visioni è corretta? Tutte. Ognuna illustra un aspetto
importante della realtà economica mondiale. Tutte implicano che la crisi,
purtroppo, è ancora ben lungi dall’essere finita, anche se in alcuni Paesi possono
esserci segnali di recupero. Ma forse il messaggio centrale di queste diagnosi
è che ora i governi pagheranno più a caro prezzo e più rapidamente i loro
errori di politica economica. L’improvvisazione, il populismo e la ricerca di
scorciatoie illusorie prolungheranno la crisi.
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