"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 22 novembre 2015

Lalinguabatte. 6 “Un privilegio che sta scadendo”.



È che si vive in un mondo costruito a cerchi concentrici. Ed al centro della predetta configurazione, come ombelico del creato, ci stiamo noi, come esseri umani, come persone portatrici di diritti e di doveri. Noi come singoli, intendo dire. Oggigiorno, mutuando il peggior linguaggio proprio della “cattiva politica” di questi tempi oscuri, potremmo definirci, singolarmente, come occupanti quel “cerchio magico” del creato. Ed al di fuori del predetto “cerchio magico”, nella migliore tradizione familistica, ci sta il secondo cerchio, occupato stabilmente dai familiari più stretti, e poi il cerchio di quelli del quartiere, qualora l’agglomerato urbano ne comprenda più di uno, e poi ancora il cerchio della nostra città, e poi ancora il cerchio della nazione o paese che dir si voglia, ma non esiste ancora un cerchio che comprenda quelli del continente al quale apparteniamo pure, e figurarsi un cerchio nel quale ci stiano quelli dei continenti altri. Un mondo a cerchi concentrici, cerchi sempre più soggetti a quella forza centrifuga esistente in natura per la qual cosa i diritti scemano man mano che ci si allontana dal  nostro personalissimo “cerchio magico”. Ha sostenuto Adriano Sofri sul quotidiano la Repubblica del 20 di novembre – “Le misure del dolore” –, con il realismo che contraddistingue sempre il Suo scrivere, che man mano che ci si allontani dal nostro personale “cerchio magico” la “misura del dolore” tende a cambiare ovvero a diminuire sempre di più risalendo per i cerchi concentrici nei quali proviamo ad immaginare il mondo che il tempo nostro ci ha dato da vivere. E nulla ci turba di quel che accade nei cerchi concentrici più esterni, poiché per quelli che li occupano stabilmente la “misura del dolore” tocca i livelli più bassi immaginabili. Ma questa rappresentazione di una “misura del dolore” che tenda a diminuire andando su su per i cerchi concentrici più esterni non rende appieno della realtà umana nel suo complesso, qualora si pensi che tutti gli esseri umani abitano e convivono su di una “navicella” comune, angusta sempre di più, quale è il pianeta chiamato Terra, “navicella” lanciata nella immensità dello spazio indifferente alla sua sorte e che accomuna tutti in un destino che difficilmente potrà essere parcellizzato se non a scapito e detrimento dei più deboli, degli  esseri umani emarginati. Sarei curioso di conoscere sino a quale dei cerchi concentrici esterni al nostro “cerchio magico” la nostra “misura del dolore” si mantenga su livelli umanamente accettabili, ovvero abbia la sensibilità d’includere anche quelli a noi sconosciuti in forza di quel destino comune che ci lega in quanto abitatori e passeggeri della “navicella” Terra. Sarebbe un dato interessante sul quale poi la “buona politica” dovrebbe costruire le sue strategie per creare un mondo un po' più umano. Ché la politica, oggigiorno, non ha strumenti validi e strategie urgenti ossequiosa com’è ai dettami della ricchezza e del potere. Ha scritto Pino Corrias su “il Fatto Quotidiano” del 20 di novembre ultimo scorso – “I nostri privilegi stanno scadendo” -:
Rimbambiti dalle Playstation che buttano sangue senza sporcare, ottenebrati dalle vacanze in crociera, dove si mangia otto volte al giorno e si fa finta di girare il mondo stando fermi dentro una nave, assuefatti alle assicurazioni family efficaci contro tutti i rischi, inclusi gli insetti, alle case con aria condizionata, igiene e impianto elettrico conformi, al veleno omeopatico dell’ora di religione e dal lieto fine delle fiction, compresa l’ultima idiozia planetaria di James Bond,ci siamo persuasi che la vita non abbia conseguenze. Che non abbiano conseguenze la guerra, le religioni monoteiste,la fame nel mondo, i muri e il filo spinato, il traffico di esseri umani, l’avvelenamento del pianeta, la circostanza che l’uno per cento della popolazione mondiale possegga il 90 per cento delle risorse, che un bracciante nero di Rosarno guadagni 5 euro per 12 ore d i lavoro e che un proiettile di Kalashnikov costi 0,80 centesimi di dollaro. Moltiplicata e filtrata dagli schermi nei quali ci specchiamo per una decina di ore al giorno credendo di sapere, di vedere e perfino di comunicare, ci siamo abituati all’idea che la vita sia questa cosa inoffensiva che ci circonda, questa melassa di selfie e di stronzate lunghe 140 caratteri, di grotteschi litigi destra-sinistra, di piccoli e grandi ladri, e che la massima interferenza con il nostro silenzioso ruminare immagini sia un’improvvisa assenza di campo – meglio un figlio che si droga di trigliceridi e il partner in overdose da Xanax – o addirittura l’interferenza pubblicitaria, lo spam, l’odiosa finestra che si intromette tra noi e l’ultimo hit di Adele che ci commuove fino alle lacrime sui nostri divani riscaldati. È questa rappresentazione drammatica e straniante, che è reale però, poiché vissuta nelle nostre case, nelle nostre scuole, per le vie cittadine, in qualsivoglia “sala d’attesa” di stazione, di aeroporto, di studio medico e di qualsivoglia luogo ove sarebbe possibile un vivere di socialità diffusa, è questa rappresentazione che viene chiamata la “normalità” delle nostre vite. Vite ermeticamente rinchiuse nel proprio cerchio concentrico d’appartenenza, vite che tendono a dare e riconoscere quella “misura del dolore” in ragione della appartenenza più prossima che sia. È di questa “normalità” che ci si è sentiti privati il 13 di novembre a seguito dei tragicissimi fatti di Parigi. Poiché quella “normalità” da difendere a tutti i costi è come se discendesse da una favorevole congiunzione astrale, astratta da ogni interferenza con il restante del genere umano, concessa per divina bontà in forza d’inesplicabili disegni di una entità superiore. Un’assurdità. Un abominio. Ha scritto ancora Pino Corrias: Dovremo abituarci all’idea che tutto quello che abbiamo considerato normale per le nostre vite – non solo la pace, la libertà, la sicurezza, ma anche il lavoro, il bar sotto casa, il concerto, la spiaggia, un museo – è un privilegio che sta scadendo. Che la nostra immunità di cittadini ha un perimetro labile, fortuito, provvisorio. (…). …sempre sapendo che quello stesso mondo reale così ostile è la grande ombra della nostra luce e che quasi ogni nostro beneficio discende da quella diseguale equivalenza. Per questo una parte della nostra guerra dovrà riguardare anche le condizioni che l’hanno determinata e che senza distruggerle o almeno modificarle, nessuna pace sarà più possibile. Nel mondo che ci ha appena svegliato siamo noi spettatori gli intrusi. E da un momento all’altro le salme. Ecco su cosa sarebbe bene che si riflettesse e su cui sarebbe bene che ci si confrontasse da subito, abbattendo quelle artificiose barriere che stanno lì artatamente a creare tutte quelle disuguaglianze che risultano essere strutturali e connaturate alla “normalità” di un mondo che della visione illuministica, con la quale la grande “ville lumiere” illuminò il cammino della Storia, riesce bene, per colpevole scelta di comportamenti e di quant’altro, a farne a meno. Scrive Pino Corrias a seguito dei tragicissimi fatti di Parigi: Questa improvvisa esplosione di realtà terrorizzante ci lascia storditi come le flash bomb usate nei blitz dalle forze speciali. Perché per la prima volta riconosciamo nel sangue versato in modo così casuale sulle strade di Parigi, il nostro sangue. Perché scopriamo che l’atrocità del destino non è più (e inspiegabilmente) una esclusiva di quei quattro quinti del mondo che abitano oltre i nostri schermi, ai quali – tra un’emergenza Ebola e l’altra – diamo un’occhiata e qualche spicciolo, ma senza mai sentirne il cattivo odore. Perché impariamo che una bomba fabbricata con il perossido di acetone cancella vite e storie di ragazze, architetti, commesse, insegnanti, casalinghe, nerd informatici, non solo nei bar di Gerusalemme e Gaza, o tra la polvere dei mercati di Tripoli, Kabul, Zakho, ma anche dalle parti del Beaubourg dove abbiamo fatto colazione dozzine di volte e dato appuntamenti e progettato nuovi sogni. Addormentati dall’irrealtà che ci nutre di mondi virtuali ci svegliamo nel mondo reale, non più magico, anche se continuiamo a credere alle diete vegane e alla Madonna di Medjugorie, ma nel quale scopriamo che i governi del nostro confortevole Occidente, lo stesso che ci vuole difendere schierando uomini e mezzi per la nostra salvaguardia, non fa altro che creare le terribili condizioni che ci mettono sempre di più in pericolo perché abbiamo in quantità superflua ogni cosa che manca in quantità minima a tutti gli altri. Perché produciamo e traffichiamo armi, mentre predichiamo la pace universale. Perché spostiamo giganteschi investimenti, desertificando interi Paesi per allagarne altri. Perché preleviamo risorse. Proteggiamo banche. Contrabbandiamo petrolio. Appoggiamo dittature se utili. E facciamo fuori dittatori quando diventano inservibili. Fabbrichiamo eroi come Osama bin Laden quando combatte i paracadutisti mandati da Mosca in Afghanistan. E diavoli come Osama bin Laden, quando è lui che ci manda i Boeing 747 a schiantarsi nel cielo di New York. …(non) sappiamo nulla dei villaggi che spariscono dentro la nuvola di uno dei nostri droni. Siamo noi tutti, senza distinzione alcuna, i responsabili costruttori ed i principali utilizzatori di quegli impenetrabili cerchi concentrici che, come bolge dantesche, rendono “infernale” questo mondo degli umani.

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