"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 2 ottobre 2015

Oltrelenews. 63 “Migranti economici”.



Da “Comodo dire migranti economici” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 19 di settembre 2015: (…). …nell'impostazione proposta e imposta dalla Merkel nei confronti dei migranti c'è un tarlo. I cosiddetti 'migranti economici' devono essere rispediti nei loro Paesi. Chi sono i cosiddetti 'migranti economici'? Sono neri dell'Africa subsahariana che non fuggono da nessuna guerra ma dalla fame. Nella generale ignoranza che ormai contraddistingue il mondo occidentale si pensa che l'Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Ai primi del Novecento era alimentarmente autosufficiente, lo era ancora in buona sostanza (al 98%) nel 1961. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978 e così via precipitando. La situazione di oggi è sotto gli occhi di tutti. Cos'è successo nel frattempo? Che i Paesi industrializzati, sempre alla ricerca di nuovi mercati, per quanto poveri, perché i propri sono saturi, hanno introdotto in Africa Nera il loro modello di sviluppo, disarticolando la cultura, la socialità e l'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni. E quindi la fame. E' uno dei tanti effetti perversi della globalizzazione. E qui si pongono due questioni. Una è teorica. Se il capitale ha diritto ad andarsi a cercare il luogo della terra dove ritiene di poter essere meglio remunerato, lo stesso diritto non dovrebbero averlo gli uomini? Il denaro vale quindi più degli uomini? Questo nemmeno il vecchio Adolfo avrebbe osato sostenerlo. Questione pratica. I neri africani (escludendo il Sud Africa che fa caso a sè) sono 700 milioni. Se solo una quota significativa di questa gente viene da noi ne saremo sommersi. Aiutarli economicamente? Sarebbe 'un tacon peso del buso' perché li integrerebbe ancor più strettamente in un sistema che è destinato inesorabilmente a stritolarli. Dar loro «non il pesce ma gli strumenti per pescarlo» come dicono molte anime pie? Nel padiglione Onu all'Expo c'è un comico filmato il cui senso è che noi dovremmo insegnare agli africani come si fa l'agricoltura. Ma se sono millenni che quelli hanno vissuto di agricoltura! Semmai dovrebbero essere loro a insegnarla a noi. Ai tempi di un G7 di molti anni fa ci fu un controsummit dei sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, al grido di «Per favore non aiutateci più!». La sola cosa che dovremmo fare è andarcene da quei mondi, con le nostre aziende assassine e la nostra cultura paranoica. Via, raus, 'foera di ball'. Ma a parte che non lo faremo mai (e adesso ci si sono messi anche i cinesi che si comprano l'Africa Nera e la sua terra a regioni) nemmeno questo sarebbe risolutivo. I neri africani sono in una posizione di non ritorno. Non possono ritornare alle loro economie perché le terre che, sotto il nostro impulso o imposizione, hanno abbandonato si sono desertificate e non ci sono più nemmeno le comunità che, col loro reticolo di solidarietà, consentivano a quel mondo di esistere. Non possono che andare avanti. Cioè non possono che venire verso di noi. E verranno e ci distruggeranno come noi abbiamo fatto con loro. È la sorte che ci siamo meritati.

Da “Deprediamo le terre di chi fugge dalla fame poi si fa presto a dire: Aiutiamoli a casa loro” di Antonello Caporale, su “il Fatto Quotidiano” del 25 di settembre 2015: (…). …il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita. E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi? L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra. I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto…Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza… Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo. Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 mila pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure! L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che – lavorata – permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perché hanno un lavoro. Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.

1 commento:

  1. Non riesco a credere a quello che leggo.Non riesco neppore ad immaginare una cosa cosi.Aldo,Per te questi dati sono credibili o di propaganda contro?Anche se tu li hai pubblicati perchè ci credi non ti viene nessun dubbio?

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