"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 2 settembre 2015

Oltrelenews. 59 “Dall’altra parte del mare”.



Nel bla-bla “cretino” di un’estate “cretina” un ministro sostiene - come dal sen sfuggitogli - che financo l’Europa ha preso finalmente coscienza del dramma dei moderni migranti. Non c’è che dire: il ministro e l’Europa giungono giusto in tempo. Buon per noi. Ma per tutti quei poveri “cristi”? Da “Dall’altra parte del mare” di Andrea Satta – musicista e scrittore -, sul quotidiano l’Unità di domenica 6 di marzo dell’anno 2011: Cosa può fare il mare. Può tenere lontani l’inferno e la libertà, la fuga, la disperazione e l’approdo. (…). Siamo fratelli indifferenti, uno campa e l’altro muore, uno ce la fa e l’altro è disperato e schiatta. Uno viene privato di tutto, della casa e degli affetti, dell’amore, della vita e l’altro si preoccupa che non gli si rompano i coglioni e che la benzina aumenta. Basta, non c’è altro. Io non sono buono, solo mi chiedo se ci rendiamo conto di tutto questo. (…). Mentre a voce alta, quanto la tv, urlavo tutte queste banalità, alzò gli occhi dalle sue carte Sonya, che forse mi ascoltava, come un disturbo, mi ascoltava. Mi guardò, mi fermò e mi fece: “(…).«La via lattea illumina sempre il cielo… la conosci?» - «Forse …», le risposi. - «Una bellissima favola armena comincia così, è la storia di due fratelli… sai perché le nostre notti sono illuminate?». - «Be’… boh …».  - «Ascolta … C’erano e non c’erano, una volta, due agricoltori, due fratelli. Un giorno, finito di trebbiare, divisero in parti uguali la paglia, la sistemarono nell’aia, poi si salutarono e ciascuno se ne andò a riposare. La notte, uno dei due, quello che aveva moglie, si alzò e decise di donare al fratello minore un po’ di paglia del suo covone: “Poverino, mio fratello non ha la consolazione di una moglie e desidero dargli ancora un po’ della mia parte”. Così dicendo uscì di casa e andò sull’aia e col forcone iniziò a gettare parte della paglia sul covone del fratello. D’altro canto anche l’altro fratello, quello senza moglie, si era svegliato e aveva pensato: “Mio fratello è sposato e ha più bisogno di me di ricchezza!”. Così anche lui nella notte buia e scura si vestì, accese la candela e andò nel capanno degli attrezzi a prendere il forcone. Poi subito si mise al lavoro e con grande lena dal suo covone prese a gettare il fieno sopra quello del fratello. Ed ecco che spostando la paglia, nella notte buia crearono un vortice che la portò su nel cielo e… una parte è ancora lì. È così che la luna poi, non si trovò più sola e da quella notte, potè riposare e a volte prendersela comoda …». Con l’ultima parola del racconto Sonya uscì dalla porta e si allontanò. Me ne resi conto quando la sentii scendere le scale…restai con la paglia diventata stelle, davanti agli occhi. Forse sono questi i fratelli che non abbiamo, i fratelli che non siamo, forse è questa la pagina da scrivere, l’ultima che resta. Non è quasi più questione di destra e di sinistra, è prima di tutto questione di uomini.
Da “Meglio morire una sola volta che tutti i giorni” di Enrico Fierro e Lucio Musolino, su “il Fatto Quotidiano” del 3 di giugno 2015: (…). “Meglio morire in mare che stare in Libia. In mare si muore una volta sola, se stai in Libia è come se morissi tutti i giorni”. (…). “Mi chiamo Abdel B.M., sono di origine eritrea e ho vent’anni. Sono andato in Libia per tentare la traversata, ho pagato 500 dollari ma forse la somma non bastava ai trafficanti. Mi hanno sequestrato e portato a Misurata, nel golfo della Sirte. Ero uno schiavo, mi facevano lavorare senza pagarmi. Nel capannone eravamo in 200 almeno, dormivamo per terra e avevamo poco cibo, l’acqua era sporca e non c’erano servizi igienici per i nostri bisogni. Le donne venivano violentate, gli uomini offesi e picchiati. Per convincermi a farmi mandare i soldi dai miei genitori e pagare il viaggio mi hanno torturato. Una notte degli uomini armati sono entrati nel capannone e hanno prelevato un gruppetto di eritrei. Erano ubriachi e drogati, e hanno fatto correre gli eritrei mentre loro sparavano, li usavano come bersagli mobili. Sparavano e ridevano come diavoli. Ho visto almeno due persone cadere a terra colpite”. (…). “Mi chiamo Mohammad B. e sono nato a Damasco nel 1985. In Siria ero un bracciante agricolo, nel 2013 ho lasciato il mio Paese per il Libano, da qui volevo raggiungere il Sudan per poi tentare la traversata in Europa attraverso la Libia. Ho pagato mille dollari a un mediatore siriano di nome Mahmoud per arrivare in Sudan. Da qui ho raggiunto la frontiera libica con un fuoristrada condotto da un altro sudanese membro dell’organizzazione che ci ha consegnato a dei libici. Erano in due e con un altro fuoristrada ci hanno portati ad Agjdabya, in Cirenaica. Il nostro campo era un lager sorvegliato da guardie armate. Eravamo in 150, non potevamo uscire, eravamo prigionieri, ci davano un panino e acqua salata ogni 24 ore. Ci picchiavano, non c’erano bagni e dormivamo per terra. Sono rimasto in questo posto per 11 giorni. Il capo del campo si chiama Abou Laabd. Una notte ci hanno caricati su un camion, coperti con dei teli e trasferiti in un villaggio in mezzo al deserto, qui ci hanno scaricato in una stalla dove c’erano mucche, capre e pecore, abbiamo dormito con gli animali per due giorni. È stato il momento peggiore, le guardie ci hanno tolto tutto, chi protestava veniva picchiato con il calcio dei fucili. Non ne potevamo più e una notte siamo scappati. Abbiamo raggiunto un’altra città dove un tale Salem, libico, ci ha ospitati per una notte prima di consegnarci a Moamamar, anche lui libico. È un trafficante e per 900 dollari ci ha portati sulla spiaggia dove c’era un gommone di 12 metri circa che da lì a poco sarebbe partito per l’Italia. Eravamo non meno di 150. Siamo partiti di notte e abbiamo navigato in quelle condizioni per due giorni, non avevamo cibo e acqua, il gommone imbarcava acqua. Fortunatamente siamo stati avvistati da una nave della Marina italiana che ci ha salvati. Sì, riconosco l’uomo che era al timone. È un membro dell’organizzazione. Quando sono arrivati i soccorsi si è confuso mettendosi in mezzo a noi. Ora sono stanco voglio andare in Olanda”. (…). “Il mio nome è Gabresellah H. sono nata nel 1991 in Eritrea. Ho vissuto per dodici anni a Karthum, facevo la domestica, il mio sogno era andare a Londra, ho contattato un sudanese che organizzava viaggi verso l’Europa. Per 1.600 dollari si è offerto di portarmi alla frontiera con la Libia. Siamo partiti a maggio 2014 in un camion con altre 98 persone. Dopo sette giorni siamo arrivati nella città libica di Ajdabia. Qui ci hanno chiusi in una casa, eravamo prigionieri. Chiedevo in continuazione a un libico quando sarebbe arrivato il mio turno per andare in Italia. Lui non rispondeva mai. Dopo un mese siamo stati portati a Tripoli in camion. Anche in questa città siamo stati rinchiusi in una casa, ci sorvegliavano uomini vestiti di nero e incappucciati. Il loro compito era selezionarci per sesso e religione. I musulmani potevano proseguire il viaggio, i cristiani no, venivano uccisi dagli incappucciati. Le donne cristiane che avevano pagato il viaggio venivano risparmiate. Ci siamo imbarcati il 7 maggio, dopo ore di navigazione ci ha salvati una nave da guerra tedesca”. (…). “Sono Mbdao D. ho 25 anni e vengo dal Senegal. Prima sono stato in Niger, lì ho incontrato un altro senegalese di nome Diof al quale ho dato 1.200 franchi senegalesi per farmi raggiungere il confine con la Libia. Eravamo in tanti, ci hanno caricati su un pick-up e portati a Tripoli dove mi sono fermato 15 giorni alla ricerca di qualcuno dell’organizzazione. Il mio contatto era un soggetto di nazionalità gambiana che tutti chiamavano “Lo zio”: era lui il mediatore per il viaggio, chiedeva 300 mila franchi senegalesi. Non avevo quei soldi, ma la somma richiesta l’avrebbe versata mio fratello su un conto corrente intestato allo Zio. Solo quando i soldi sono arrivati mi hanno trasferito a Zuara, nella Libia nord occidentale, dove sono rimasto sette giorni. Ci hanno imbarcato di notte, dopo almeno tre ore di attesa sulla spiaggia. Salivamo in 30 sui gommoni che ci portavano alla barca, un natante di colore blu non grandissimo. Eravamo in cinquecento e la barca era condotta da tre soggetti, uno al timone, un altro al controllo del motore e un terzo che sorvegliava noi immigrati. Non ci hanno maltrattato durante il viaggio, ma non ci davano da bere. La barca era vecchia e in pessime condizioni, noi eravamo ammassati uno sull’altro, quando il natante cominciò a imbarcare acqua avemmo paura, il terzo uomo ci ordinava di svuotare la barca con i secchi. Dopo 13 ore di navigazione abbiamo avvistato una nave grande di colore blu e con l’immagine di una tigre, o forse era un cane, non ricordo. È successo l’inferno, a bordo non ne potevamo più, volevamo solo uscire da quella barca che stava affondando e che mai sarebbe arrivata in Italia. Così ci spostammo tutti su un fianco, la barca ondeggiò fino a capovolgersi. Finimmo in acqua. L’acqua era gelida, chi non riusciva a nuotare affogava, ne ho visti tanti muovere le braccia, urlare, piangere e poi finire inghiottiti dal mare. Con me c’era mio fratello di 18 anni, si chiamava Khamid, non l’ho più visto, forse è annegato. Gli scafisti, voi li chiamate così, sì, li so riconoscere. Il capitano era un africano, l’addetto al motore un nordafricano, un altro era africano ed era quello che ci ordinava di svuotare la barca, due di loro parlavano la lingua wolof del Senegal, il terzo parlava arabo. Sì, sono loro, li riconosco”. (…). “Al T. è il mio nome. Tre anni fa sono scappato dalla Siria per il Libano, ho vissuto di stenti aiutato solo dalla Chiesa, due anni dopo ho lasciato Beirut per Karthum. Qui ho incontrato un sudanese di nome Bachir, il cui numero di telefono è 092… che per 600 dollari si è offerto di portarmi al confine egiziano. Eravamo in 28 e abbiamo fatto il viaggio su un fuoristrada. Alla frontiera ci ha consegnato ad altre persone che ci hanno fatto attraversare il deserto fino alla città libica di Ajdabya dove siamo rimasti per due giorni in attesa di un alto ufficiale della polizia libica di nome Mouftah, il cui numero di telefono è 09244… L’ufficiale ci ha chiesto 900 dollari come saldo del viaggio, più altri 500 per portarci a Tarablus, dove ci hanno rinchiusi in una fattoria per cinque giorni in attesa di un altro ufficiale libico che ci ha chiesto altri mille dollari. Diceva che doveva consegnarli a un tale di nome Rafou, che in Libia tutti conoscono come il miglior organizzatore di viaggi verso l’Italia. Una notte abbiamo aspettato cinque ore sulla spiaggia prima di essere imbarcati su dei gommoni di colore scuro, servivano a trasbordarci su un peschereccio. Eravamo almeno in 700, anche donne e bambini, molti messi uno sull’altro nella stiva. Prima di imbarcarci sul peschereccio i libici armati ci hanno tolto tutto, qualche gioiello, soldi, telefoni, vestiti buoni. Durante il viaggio quelli nella stiva vicino al motore non riuscivano a respirare, vomitavano, i bambini piangevano, e chiedevano di uscire a prendere un po’ di aria. Ho visto un uomo che aveva il diabete sentirsi male, urlare dalla disperazione, ma nessuno lo ascoltava. Poco dopo è morto. A bordo non c’era cibo, né acqua, nessuno aveva il giubbotto di salvataggio. Ci ha salvato una nave della Marina italiana. Sì, riconosco l’uomo che era al timone e gli altri che ci controllavano a bordo. Ho dei parenti in Olanda, chiedo solo di poterli raggiungere”. (…). “Sono Jallow M., nato in Gambia nel 1978. Ero un ufficiale della National Intelligence Agency e mi occupavo della sicurezza del presidente. Nel 2006, dopo il golpe di Yanya Jammeh si è insediato un regime dittatoriale. Mi chiedevano di torturare gli oppositori, anche le persone che manifestavano l’intenzione di non votarlo, ma queste pratiche sono contrarie alle mie convinzioni, mi sono rifiutato di obbedire agli ordini e sono stato arrestato. Dopo un mese mi hanno concesso la semilibertà, ne ho approfittato per fuggire. Prima in Senegal, dove ho lavorato per tre anni, poi in Burkina Faso, dove ho fatto l’autista, quindi in Niger e successivamente in Libia. Con la guerra ho deciso di scappare in Italia, ho contattato un mediatore, Jawkneh Muhammed, che lavora per un certo Karim, conosciuto anche come Iman, è il capo dell’organizzazione, un uomo potente. Ho pagato 1.500 dollari. Con altre 120 persone siamo stati portati a Juwara, in una casa di questo Karim dove siamo stati trattati in maniera disumana. Abbiamo atteso 45 giorni in quelle condizioni prima di essere imbarcati sui gommoni e poi trasferiti su un’imbarcazione con due bandiere, una libica. Chi creava problemi veniva picchiato. Riconosco dalle foto gli uomini che erano al timone e quelli che lavoravano per lui”. (…). “Mi chiamo Sonia J., sono nata in Nigeria nel 1991 e sono incinta di quattro mesi. Con mio marito volevamo raggiungere l’Europa per dare un futuro al figlio che aspetto. Una notte a Tripoli ci hanno fatti salire su un gommone scuro, eravamo 120, c’era acqua e pane, ma mancavano i giubbotti di salvataggio per tutti, dopo quattro giorni di navigazione il gommone si è capovolto, eravamo in troppi e le onde erano alte. Ci siamo salvati in dieci. Anche mio marito è morto, aveva 28 anni. Ora chiedo solo di essere aiutata a rimanere in Italia, lavorare e crescere il figlio che aspetto”.

Nessun commento:

Posta un commento