"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 17 luglio 2015

Lalinguabatte. 1 “La questione tedesca”.



“Guai a noi se in futuro non riusciremo a non odiare l’intero popolo tedesco”. L’Europa ha un problema che non è rappresentato dalla disastrosa condizione socio-economica della Grecia. Il problema dell’Europa è la Germania. Nasce da esso – il problema intendo dire – una “questione tedesca”. Che non è roba da poco. La Storia insegna. Quella “questione” ha dilaniato l’Europa per secoli e secoli, dalle contrapposizioni continue e ripetute franco-prussiane giù giù per la china sino alle terribili due guerre denominate “mondiali”. Per non dire delle persecuzioni razziali e della “soluzione finale” pensata e realizzata con scientificità e puntiglio tutto morbosamente tedesco. Tutto e sempre sul suolo dell’Europa. Non Vi scandalizzi la frase posta all’inizio di questo scritto. Quella frase riportata – alla pagina 195 - nello stupendo volume di Antonio Scurati che ha per titolo “Il tempo migliore della nostra vita” – Bompiani editore (2015), pagg. 267, € 18.00 - è attribuita al futuro Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini. La frase sembra sia stata pronunciata all’indomati della prematura morte – per uccisione – di Leone Ginzburg – il 4 di febbraio dell’anno 1944 – per mano degli aguzzini tedeschi. Il sogno di un’Europa unita è nato proprio dall’esigenza di imbrigliare quel “mostro” tentacolare che per secoli ha reso le contrade della vecchia Europa teatro di massacri ed atrocità inaudite. Ecco, quel sogno sembra sia morto prima di essere giunto a compimento. Poiché di questa Europa mercantilistica ed egoista non ne abbiamo assoluto bisogno. Di questa Europa forgiata sullo “stampo” e con l’impronta riconoscibilissima della “questione tedesca” c’è solamente da diffidare e da temere. Non è questa l’Europa che è stata sognata all’indomani delle due immani tragedie che hanno contraddistinto il secolo ventesimo. Ha scritto Paul Krugman il 14 di luglio sul quotidiano la Repubblica - "Il progetto europeo è morto" -:
Supponiamo  che consideriate Tsipras uno stupido incompetente. Supponiamo che vi piaccia con tutto il cuore vedere Syriza lasciare il governo. Supponiamo che accogliate la prospettiva di cacciare questi indisponenti greci fuori dall'euro. Anche se tutto ciò fosse vero, l'elenco di richieste dell'Eurogruppo resterebbe una follia. (…). Qui si va oltre l'inflessibilità, si va nella pura ripicca, nell'annientamento assoluto della sovranità nazionale, senza nessuna speranza di sollievo. Plausibilmente, si tratta di un'offerta formulata in modo tale che la Grecia non possa accettarla; ma, anche così, si tratta di un grottesco tradimento di tutto ciò che si supponeva dovesse affermare e sostenere il progetto europeo. C'è nulla che possa far arretrare l'Europa rispetto all'orlo del baratro? Si dice che Mario Draghi stia cercando di ricondurre un po' alla ragione, che Hollande stia finalmente dando prova di un po' di quell'opposizione al gioco delle Moralità che l'economia tedesca ama fare e che in passato egli ha vistosamente mancato di impedire. Ma molto danno è già stato arrecato. Dopo tutto ciò, chi mai si fiderà più delle buone intenzioni della Germania? Da un certo punto di vista, l'economia è diventata qualcosa di secondario. Cerchiamo di essere chiari una volta per tutte, però: nelle ultime due settimane abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia. Tutto ciò non ha attinenza alcuna con l'implicita economia dell'austerità. Più che mai adesso è vero che imporre una rigida austerità senza un alleggerimento del debito significa scegliere una politica predestinata al peggio, a prescindere da quanto il paese sia disposto ad accettare tormenti. E ciò, a sua volta, significa che perfino una capitolazione assoluta della Grecia sarebbe un punto morto. La Grecia riuscirà a organizzare con successo un'uscita dall'euro? La Germania cercherà di ostacolare una ripresa? (Mi dispiace, ma questo è il tenore delle domande che dobbiamo porci adesso). Al progetto europeo  -  un progetto che ho sempre esaltato e sostenuto  -  è stato appena inferto un colpo terribile, forse mortale. E, a prescindere da quello che pensate di Syriza o della Grecia, a infliggerlo non sono stati i greci. Come non fare proprie le riflessioni pensate e scritte dall’illustre opinionista? Una straordinaria – come sempre – analisi dello “stallo” in cui la “questione tedesca” ha portato l’intero continente europeo è stata compiuta da Nadia Urbinati - “Chi ha tradito i fondatori dell’Europa” - sul quotidiano la Repubblica dell’8 di luglio 2015: (…). La visione di un’Unione europea è nata tra le due guerre per sconfiggere i nazionalismi e i nazionalisti. Le direttrici originarie di questa utopia pragmatica furono in sostanza due: quella che faceva perno sulla volontà politica costituente e quella che faceva perno sulla formazione dell’abitudine alla cooperazione mediante regole e accordi economici. La prima era impersonata da Altiero Spinelli e faceva diretto ed esplicito appello alla volontà degli Stati di darsi un ordine politico federale, un progetto da prepararsi con il lavoro politico e delle idee (come fece il movimento federalista europeo). La seconda era rappresentata da Jean Monnet. Quest’ultima divenne il paradigma ispiratore dell’Unione europea, il cui primo nucleo fu nel 1950 la creazione di un’alta autorità sulla produzione franco-tedesca dell’acciaio e del carbone. Quel trattato sarebbe stato il primo di una serie numerosa di trattati sottoscritti dai governi in tutti i settori di interesse comune. La federazione europea sarebbe cresciuta quindi per accumulazione, senza un fiat fondatore, ma come politica di auto-imbrigliamento degli Stati che avrebbe col tempo costituzionalizzato le pratiche sovrannazionali. Le radici di questa via non-politica all’integrazione europea stanno nel Settecento, nella filosofia della mano invisibile e della funzione civilizzatrice del commercio. L’assunto kantiano era che gli individui tendono a muoversi, a interagire e a comunicare per ragioni loro proprie con la conseguenza di mettere in moto un processo indiretto di relazioni pubbliche e di diritti che col tempo avrebbero consolidato la convivenza pacifica per generale convenienza. In prospettiva, l’integrazione avrebbe potuto mettere capo a una più perfetta unione, senza che nessuno l’avesse esplicitamente voluta. Questa fu la filosofia che ha sostenuto il progetto europeo mediante decisioni di secondo ordine, indotte dalla convenienza a cooperare. Questo paradigma è stato una strategia di successo nella fase espansiva della ricostruzione post- bellica, proprio per la sua capacità di contenere le potenzialità conflittualistiche della politica e dare spazio alla pratica degli accordi e dei trattati. Ma in questo tempo di crisi economica, tale metodo ha perso mordente. La sfida di fronte alla quale si trova oggi l’Europa richiederebbe una determinazione politica nello spirito di Spinelli. Come ha sostenuto il costituzionalista Dieter Grimm, la rete di diritti e costruzioni giuridiche ha bisogno di ancorarsi a una «espressione di autodeterminazione del popolo sovrano europeo» per riuscire a far valere appieno la sua autorità su tutti e in tutti gli Stati. Affidarsi alle pratiche generate dall’uso di regole condivise, all’abitudine di vivere da europei come se le cose vadano avanti per forza propria: tutto questo regge e funziona fino a quando le cose procedono facilmente e non è necessario scomodare un supplemento di volontà per prendere decisioni ostiche, benché necessarie. Il paradigma dell’eterogenesi dei fini su cui si è modellata l’Unione europea è figlio dell’utopia settecentesca del doux commerce, della forza civilizzatrice del commercio a condizione che sia la mano invisibile del mercato a muovere le decisioni, non la volontà politica. Il problema è che, mentre questa strategia ha avuto il merito di stabilizzare relazioni pacifiche essa non è in grado ora di guidare l’Unione europea verso una integrazione politica democratica, della quale invece vi sarebbe bisogno. La routine riproduce pratiche ma non sa creare scenari nuovi. Ecco perché oggi la lotta che si combatte in Europa è tra il partito della mano invisibile e il partito della volontà politica federale. Non si giungerà mai ad una più perfetta unione se il demos europeo non sarà interpellato, se la volontà politica non acquisterà la sua autorità fondatrice, condizione senza la quale altri, dopo la Grecia, potrebbero pensare di usare lo strumento dell’appello al popolo nazionale per reagire contro decisioni che non sono prese nel nome di un popolo europeo. Il “no” referendario alle condizioni sul debito imposte alla Grecia ha messo in luce che solo all’interno di un’Unione politica compiuta il caso greco potrebbe non essere solo e soltanto una questione di rapporto privato fra debitori e creditori. Solo in un’Unione politica la questione greca potrebbe essere a tutti gli effetti una questione europea, e la sua soluzione una straordinaria opportunità di crescita continentale. Per comprendere questo, la logica della mano invisibile non serve, e anzi è di ostacolo perché mentre rifiuta di dare la scena alla politica rafforza la pratica delle trattative intergovernamentali e quindi rafforza sempre di più gli interessi nazionali. Crea le condizioni per il declino dell’Unione europea. In Come ho tentato di diventare saggio, raccontando come prese corpo l’idea federalista ed europeista, Altiero Spinelli così dipinse l’Europa degli anni ’30: «Tutti questi Stati d’Europa obbedivano sopra ogni altra cosa alla legge della conservazione e dell’affermazione della propria sovranità. Fossero essi democratici o totalitari, erano sempre più nazionalisti... La federazione europea non ci si presentava come una ideologia, non si proponeva di colorare in questo o in quel modo un potere esistente... Era la negazione del nazionalismo che tornava a imperversare».. Ha scritto Mariana Mazzuccato sul quotidiano la Repubblica del 13 di luglio – “Solo lo spirito del dopoguerra potrà salvarci dalla crisi eterna” -: (…). Oggi il salvataggio di cui avrebbe bisogno la Grecia ammonta a circa 370 miliardi di euro, ma non è nulla in confronto ai salvataggi internazionali messi in piedi per banche come la Citigroup (2.513 miliardi di dollari), la Morgan Stanley (2.041 miliardi), la Barclays (868 miliardi), la Goldman Sachs (814 miliardi), la JP Morgan (391 miliardi), la Bnp Paribas (175 miliardi) e la Dresdner Bank (135 miliardi).(…). Ma nell’Europa “distorta” dal capitalismo finanziario globalizzato la sorte di milioni di esseri umani – per ora i greci, domani chissà - è un problema di scarso peso e valore nell’ottica efficientistica e monetaristica che a quel progetto si è voluto dare con la compartecipazione colpevole di quelle forze politiche che avrebbero dovuto combatterne la realizzazione. E la “questione tedesca” è e ritorna ad essere una delle risultanti della “malapolitica” europea.

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