"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 14 giugno 2015

Oltrelenews. 47 “Salvinichi?”.



Da “Renzi ha finito le metafore, aiuto” di Daniela Ranieri, su “il Fatto Quotidiano” del 29 di novembre dell’anno 2014: (…). Ma adesso qualcuno comincia a sospettare che l’abuso di metafore sia un’abile strategia per mascherare la mancanza di strategie. Matteo ha unito un naturale istinto affabulatorio a un uso bellico, di sfondamento, della supercazzola di Monicelli. Nativo televisivo coi riflessi da Ruota della fortuna, ha mostrato la sua marcia in più rispetto al più grande inventore di sineddochi e di racconti paralleli al vero della storia italiana (quello de “i ristoranti sono tutti pieni”) portando alla ribalta un linguaggio inaudito, fresco, tutto giochi di parole e rime spassose. Intelligenza rapida, talento da battutista, propensione alla vanagloria: gli ingredienti c’erano tutti per fare di uno scalatore da sezione di provincia il narratore di una nuova nazione, fuori dalla gora della crisi e dei tecnicismi fallimentari. Ed è nato Matteo Renzi: a metà tra il cazzaro da Bar dello Sport e il grande statista, lui stesso metafora vivente (ultima spiaggia, rottamatore), Matteo ha pescato nei simboli più potenti dell’immaginario nazionale una caterva di metafore efficaci, mediaticamente pro-attive, familiari e gagliarde, per forma e lunghezza destinate a finire nei titoli dei giornali e nei 140 caratteri di Twitter. E ha funzionato, finora. Dài Matteo, facce ’n’altra metafora. (…).
Schiacciato tra i conti di Bruxelles e l’apocalisse annunciata delle dimissioni di Napolitano, ha perso le parole, perché le sue parole così festosamente vuote si rivelano inservibili di fronte alle difficoltà. Nella manovra di effrazione del Pd e di costruzione di un sé vitalista, anti-intellettualista, visionario, Matteo pensava alla “nuova frontiera” di Kennedy e al “sogno” di Martin Luther King, potenti simboli di un afflato comunitario, ma rischia di replicare la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, grottesca metafora di una sinistra sempre più distante dal suo popolo, e di riprodurre, contratta, la parabola di Craxi delimitata dalle due famose metafore, quella felliniana de La nave va (1983) e quella autolesionista del “poker” che diceva di avere in mano per screditare Di Pietro (1993). (…). Ha rottamato il giaguaro e il tacchino di Bersani, che non erano metafore ma proverbi il cui limite era quello di evocare un mondo à la Pellizza da Volpedo che non esiste più, con la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega, come disse Miguel Gotor. Ha irriso al grigiore di Letta, che non usava metafore e dimostrò la sua concretezza in extremis demolendo indocilmente il rito metaforico della campanella. Ha doppiato B., che faceva leva su elementi reali come l’invidia sociale nella costruzione di una realtà parallela, e che oggi, occupato nei suoi tristi casting per trovare un clone di Matteo, insegue il suo epigono proprio sul piano metaforico (“Salvini è un goleador”), destando la pietà generale. (…). Le regionali hanno mostrato il ritratto del vero volto di un bellissimo Dorian Gray: smantellamento dello Statuto dei lavoratori, stasi delle Riforme e svuotamento della democrazia. Perché la comunicazione impressionistica a un certo punto non comunica più; si satura nutrendosi di se stessa e si svuota di significato politico. Perseverare nel puro racconto fantasioso si rivela prima o poi per quello che è: una manifestazione di narcisismo infantile o, peggio, di inadeguatezza cialtrona. E dopo il popolo della sinistra se ne accorgerà anche l'audience plaudente, pronta, col dito sul telecomando, a decretare la morte mediatica di chi un attimo prima l'aveva appassionata.

Da “Finalmente Renzi ha un nemico. Il cielo ci ha regalato Salvini” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto quotidiano” del 3 di dicembre dell’anno 2014: (…). Il disegno è presto detto: un grande partito al centro, il Pd, capace di rastrellare voti dispersi e confusi dalla destra berlusconiana, qualcosa di piccolo a sinistra (forse, se, chissà), e una forza a destra con le caratteristiche della destra senza più centro. Uno schema abbastanza prevedibile, e può darsi che funzioni. In più, un vero fenomeno della natura: la strabiliante capacità degli italiani di dimenticare tutto molto in fretta. (…). Ecco l’inedito: uno scontro ideologico tra due forze che ad ogni passo si dichiarano post-ideologiche. Uno scontro di idee senza impianti ideali, due cinismi che si fronteggiano. E pure con uno schema analogo, quello di far ricadere sui più deboli scelte, propaganda e strategie. Il mondo del lavoro dipendente in sofferenza accusato di essere “privilegiato” dalla parte renziana, e il mondo degli ultimi, immigrati, Rom, rifugiati, capri espiatori perfetti della crisi come da tradizione delle destre nazionaliste europee. Grosse distanze tra i due mondi, certo. Eppure anche una grande similitudine: la crisi la pagheranno i deboli: i lavoratori vecchi e conservatori per il Pd, aggrappati ai loro diritti come a un salvagente in mare aperto, immigrati e minoranze etniche per la Lega salviniana. Sarà battaglia, e nei fumi della battaglia nessuno dei due eserciti penserà al grandi patrimoni, alle rendite, a un capitalismo finanziario che ci ha portato fin qui, alla finanza che guadagna senza creare lavoro, in parole povere alle caratteristiche strutturali di un’economia liberista distorta e rapinatrice. Due guerre tra poveri di diverso segno, di diversa provenienza, di diverso spessore. E i poteri veri, intanto, non li sfiora nessuno.

Da “Ti piace vincere facile? Basta scegliersi l’avversario” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 10 di giugno 2015: Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. (…). Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa. E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe. Eroiche associazione di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio. E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.

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