"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 6 giugno 2015

Oltrelenews. 45 “Finanza vs economia”.



Da “Troppa finanza poca economia” di Marco Panara, sul settimanale “Affari&Finanza” del 27 di ottobre dell’anno 2014: La più sintetica fotografia del nostro tempo difficile è nel rapporto tra due numeri, nella cui gigantesca differenza si annidano gran parte dei pericoli che ci minacciano. Il primo è 75 bilioni di dollari, 75 mila miliardi, l’ammontare del prodotto lordo mondiale nel 2013. Il secondo è 993 bilioni di dollari, 993 mila miliardi, l’ammontare delle attività finanziarie globali alla fine dello scorso anno. Oggi ambedue i numeri sono già più alti, e quando nei prossimi mesi avremo i dati del 2014 dovremo cominciare a familiarizzarci con un nuovo termine: trilione, fino ad oggi utilizzato solo dagli informatici per contare i bit della capacità di calcolo e dagli astronomi per misurare la distanza tra le stelle. Dal 2015 lo useremo anche in economia per dare un nome a quella inquietante montagna di attività finanziarie che avrà superato il picco del milione di miliardi, un trilione appunto.
Il primo motivo per il quale quella montagna ci inquieta, oltre alla sua dimensione, è la dinamica: in dieci anni il prodotto lordo mondiale è raddoppiato mentre il volume delle attività finanziarie è triplicato. Il secondo motivo è la struttura di quella montagna: di quei 993 mila miliardi di dollari solo 283 mila sono finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni e attivi bancari; tutto il resto, 710 mila miliardi di dollari, sono invece prodotti derivati scambiati fuori dai mercati regolamentati, dei quali solo una piccola quota è legata a transazioni che hanno a che fare con l’economia reale. Il grosso sono scommesse: sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie prime, sull’andamento degli indici azionari, sul fallimento di stati o di grandi imprese. All’interno di quei 710 mila miliardi si annidano, secondo le stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, rischi massimi pari a circa 19 mila miliardi, una cifra superiore al prodotto interno lordo degli Stati Uniti. I derivati inoltre, il grosso di quella montagna, sono la parte che negli ultimi dieci anni è cresciuta più rapidamente surclassando la finanza primaria, il cui rapporto con il pil si è mantenuto sostanzialmente stabile intorno a un multiplo di quattro, mentre i derivati sono passati da cinque a dieci volte il pil. La finanza non è un nemico dell’economia, è anzi fondamentale per la sua crescita, e non lo è neanche l’innovazione finanziaria in sé. Il problema è che la finanza è diventata un competitore dell’economia reale nell’attrazione delle risorse, un potentissimo elemento di distorsione dei processi e delle politiche, un ancora più potente fattore di instabilità i cui rischi sono amplificati dalla velocissima mobilità dei capitali e dalla volatilità delle scelte, oltre che dalla dimensione delle risorse in gioco. (…). Il problema della competizione tra la finanza e l’economia reale non si porrebbe se negli ultimi quindici anni non si fosse sviluppata impetuosamente quella che potremmo definire “finanza sintetica” o “finanza di carta”, che cioè vive di vita propria e assorbe risorse senza trasferirle all’economia reale e quindi alla crescita. C’è molto rischio in questo tipo di finanza, ma ci sono anche guadagni colossali e assai poche tasse (spesso nessuna), il che la rende assai attraente per i capitali in cerca di opportunità. E’ la ragione per cui il Fondo Monetario, nel Rapporto di cui sopra, segnala come primo fattore di instabilità lo squilibrio tra gli investimenti finanziari e gli investimenti reali e indica nella costruzione di nuovo equilibrio la ricetta necessaria per avere un futuro più tranquillo. Il Fondo non avrebbe nessun bisogno di segnalare questo squilibrio se la finanza fosse al servizio dell’economia reale, perché l’investimento finanziario (e il rischio connesso) sarebbero collegati all’investimento (e al rischio) economico. Se lo segnala è perché quel collegamento non più così forte anzi è diventato assai debole, tanto da porre un problema ulteriore, quello della efficacia delle politiche monetarie e del rischio della loro distorsione. (…). Le politiche monetarie espansive adottate dalle banche centrali per contrastare la crisi delle economie infatti hanno avuto una efficacia limitata (o annullata) dal fatto che i miliardi immessi nel sistema non sono andati a finanziare investimenti delle imprese e consumi delle famiglie ma soprattutto operazioni finanziarie. Che notoriamente non aumentano l’occupazione, non si trasformano in pil e neanche in gettito fiscale aggiuntivo per le esauste casse degli stati. (…). Ma, (…), la politica monetaria - anche se come tutti (salvo la Germania) speriamo, riuscirà ad essere innovativa ed efficace - non basta. L’economia reale deve trovare in se stessa la capacità di competere con la finanza per attrarre risorse, cioè investimenti. Come? Ci vuole l’altra politica, quella capace di fare da una parte le riforme necessarie per la competitività e, dall’altra, di far pagare le tasse anche a chi fa i soldi con la finanza di carta. Se l’economia paga le tasse e la finanza di carta no non ci sono riforme strutturali che tengano, vincerà sempre la seconda. E noi saremo sempre più poveri.

Da “Se la finanza non aiuta l’economia reale” di Marcello De Cecco, sul settimanale “Affari&Finanza” del 30 di marzo 2015: Per un buon numero di decenni gli economisti, (…), hanno scritto e insegnato che lo sviluppo delle strutture finanziarie influisce positivamente sulla crescita reale delle economie. (…). Spinta dalla gravità della crisi, sembra ora prevalere la visione opposta. Si afferma che lo sviluppo del settore finanziario, a prescindere dalle sue caratteristiche, avviene a scapito della crescita della economia reale. Quindi, la crescita del settore finanziario è negativamente correlata con quella dell'economia reale, dell’industria e dei commerci di un Paese. Opinioni di questo tipo non sono manifestate da economisti della sinistra estrema o della destra estrema, quelli per intendersi che hanno sempre visto il capitalismo finanziario come una piovra che succhia il sangue al settore reale e ai suoi protagonisti, imprenditori o lavoratori che essi siano. La finanziarizzazione eccessiva è ora deprecata anche da coloro che avevano, in passato, creduto nello sviluppo virtuoso delle strutture finanziarie. Lo si fa sulla base di ragionamenti fondati sul potere del grande oligopolio finanziario internazionale che si è formato negli ultimi decenni. Esso è visto come conseguenza della prima crisi del petrolio e degli effetti negativi che essa ha indotto su buona parte dei conti esteri dei paesi sviluppati. A causa delle liberalizzazioni delle attività finanziarie, effettuate per attrarre capitali sufficienti a riequilibrare i conti esteri messi in crisi dall'aumento dei prezzi del petrolio, l'oligopolio finanziario internazionale che si è formato ha potuto fissare i prezzi dei suoi servizi e sottrarre, per la maggior redditività che riesce così a esprimere, sia risorse finanziarie a chi, come molte attività industriali, riesce a remunerarle meno, sia risorse umane di maggior valore, perché riesce a pagarle meglio. Nei settori non finanziari, i manager pagati meglio non sono più quelli addetti alla ricerca o alla organizzazione della produzione, ma quelli che fanno da interfaccia alle istituzioni finanziarie e cercano di ottenere condizioni più favorevoli per le risorse che devono investire. O quelli che all'interno delle loro imprese, 'fanno finanza', ad esempio nelle divisioni delle medesime imprese che si dedicano ad attività di ricerca e collocazione di risorse finanziarie tramite i mercati. (…). …la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, può giungere a pubblicare, come ha appena fatto, uno studio firmato da Steven Cecchetti, capo del suo ufficio studi fino a qualche mese fa, nel quale, ricorrendo anche al conforto di sofisticate analisi statistiche, si sostiene che la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell’economia reale. Il motivo, secondo lo studio citato, è che il settore finanziario, per espandersi velocemente, e anche per diminuire i rischi, concede crediti ai settori più patrimonializzati dell’economia reale. Ad essi risulta più facile l'uso del patrimonio come collaterale per i prestiti. Tali settori sono caratterizzati da bassa crescita della produttività e da elevata capitalizzazione. Cecchetti ha in mente innanzitutto il settore dell'edilizia, che ha molto peso nella struttura del capitale dei paesi sviluppati e risulta storicamente coinvolto nella gran parte degli episodi nei quali la crescita rallenta e nelle più gravi crisi che hanno gravemente disturbato il funzionamento delle economie sviluppate negli ultimi due secoli. Comunque la si voglia guardare, la crisi attuale ha riportato in auge le opinioni di coloro che vedono l'economia reale assediata e spesso espugnata da una classe di capitalisti finanziari che prevale su quella degli imprenditori industriali e commerciali. Vengono quindi alla mente le grandi visioni dello sviluppo capitalistico internazionale, come quelle di Fernand Braudel o del suo ammiratore e discepolo Giovanni Arrighi. La dinamica degli spostamenti dei centri del potere economico internazionale è da essi vista come una conseguenza della trasformazione dei capitalisti industriali in capitalisti finanziari, che apparentemente ha causato la dinamica delle egemonie mondiali fino a quella americana. Negli anni più recenti sarebbe addirittura responsabile del trasferimento dell’egemonia verso Oriente, col ritorno del centro dell’economia mondiale dove esso risiedè per molti secoli nel passato. Sarebbe essa ad avere causato i grandi squilibri che hanno dato luogo alla crisi attuale. La crescita dell’economia finanziaria, (…), sembra avere assunto, una volta ancora, le caratteristiche di una accelerazione del processo di innovazione finanziaria. Ma è una innovazione che ha come scopo una sottrazione sempre maggiore del potere finanziario al controllo degli Stati per la maggior fluidità delle risorse finanziarie, cioè della loro maggior capacità di muoversi tra Stati diversi. O addirittura di migrare, per motivi specialmente di evasione o elusione fiscale, verso centri off-shore, che in effetti sono spesso 'la mano sinistra di Dio' delle grandi piazze finanziarie poste almeno formalmente sotto la sovranità di grandi Stati nazionali. 

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