"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 17 giugno 2015

Lamemoriadeigiornipassati. 14 “Tsunami silenzioso”.



Ora che lo “tsunami silenzioso” – inteso come gigantesca “ondata” di esseri umani che da una sponda all’altra dell’antico Mare tentano di ri-conquistare una speranza di vita nuova – si abbatte sulle nostre coste sollecitando nei nostri nativi gli atteggiamenti peggiori in fatto di rapporti umani, trovo necessario e giusto proporre un lavoro dello scrittore-giornalista Ettore Masina, ovvero una Sua “Lettera” – la numero 104, per come abitualmente le catalogava – che risale al mese di gennaio dell’anno 2005, lettera che è espunta delle notazioni personali, pur pregevolissime, e di altre parti, per renderne più spedita la lettura, e senza nulla togliere, lo spero, all’essenza di un messaggio Suo affinché “famiglie, scuole, comunità di fede, associazioni culturali ma anche legami d'amore o d'amicizia, reti di libera informazione, gruppi di solidarietà devono  diventare i luoghi di una speranza difficile ma testarda: la quale scopre nel suo cammino che la vita è bella quando si apre a essere dono”. Traggo quindi dalla “Lettera104” del gennaio 2005:
(…). L'Africa è l'unico continente del cosiddetto Terzo Mondo che negli ultimi 25 anni è diventato più povero, da tutti i punti di vista, confermando la terribilità della sua storia. Come dimenticare che è il continente da cui, 2 milioni di anni fa,  mosse la razza umana per diffondersi su tutta la Terra? Passarono  millenni di millenni, poi, trenta secoli fa, uomini armati fecero ritorno a questa Madre universale, ma soltanto  per metterla a ferro e fuoco e rapinarla delle sue ricchezze. Da allora la schiavitù segnò l'Africa indelebilmente: decine di milioni di suoi figli, selezionati fra i più vigorosi, le furono violentemente sottratti per trasformare le due Americhe in immense piantagioni e miniere; e quando l'obbrobrio della schiavitù fu formalmente cancellato, il colonialismo trasformò gli africani in servi e in soldati, inchiodò l'economia africana alla servitù delle monoculture, schiacciò  con ferocia le ribellioni, finché esse divennero irresistibili. Ammainate le bandiere delle cosiddette Grandi Potenze, il potere, occulto ma quasi totale, rimase nelle mani delle società multinazionali, che ancora oggi lo usano senza pietà. Esse fecero fallire ogni vero progetto di libertà (…) o scatenarono guerre che sembrano nazionalistiche  o addirittura tribali, ma in realtà servono al possesso di diamanti, di coltan, di uranio e d'oro - e sostengono un fiorente commercio di  armi. Raramente i nostri mass-media si degnano di parlare di queste tragedie ; eppure nella zona orientale del Congo la guerra (per il coltan e per l'uranio) ha fatto 4 milioni  di morti e più negli ultimi sette anni  e continua; nel Darfur, dal febbraio 2003, 2 milioni di persone sono state costrette all'esodo dalle loro terre, spesso senza poter seppellire i propri morti, almeno 70 mila: apparentemente un conflitto etnico, ma certamente legato anche alla presenza di giacimenti petroliferi. Dall'Uganda alla Costa d'Avorio all'Angola torme di bambini sono arruolati a forza negli eserciti più o meno "regolari", piccole vittime di una orrenda follìa. Sono devastazioni che minacciano anche le future generazioni perché distruggono la natura, creando povertà che fatalmente si riverseranno sui luoghi dove sembra ancora possibile la sopravvivenza. L'esodo  - come tutti sappiamo ma cerchiamo di non vedere - è già cominciato, e sono ormai migliaia e migliaia gli autentici eroi delle migrazioni che attraversano deserti  e pericoli di ogni sorta per affacciarsi sul Mediterraneo… (…). Dovunque, in Africa, un dittatore o la casta militare schiacciano una popolazione terrorizzata, lì si muove un capitalismo estero, la cui ferocia e ottusità sono ancora più gravi perché espressioni di veri e propri centri imperiali. Oggi metà degli africani (400 milioni di persone) devono sopravvivere con meno di un dollaro al giorno e non hanno accesso all'acqua potabile. Tornano a espandersi malattie come la malaria, la tubercolosi  e la "malattia del sonno". In nove paesi africani l'AIDS ha abbassato la soglia di speranza di vita sotto i quarant'anni. Gli stati del Continente pagano complessivamente, come interessi per i loro debiti internazionali, 13 miliardi di dollari all'anno quando, secondo l'Unicef, basterebbero 9 miliardi all'anno per salvare la vita a 21 milioni di persone. Il quotidiano spagnolo "El Pais" parla giustamente di "tsunami silenzioso". (…). Non può esserci una vera realpolitik che non sia una politica della ragione e che, in quanto tale,  non lavori a spostare l'asse della vita internazionale dalla fame di possesso e di potere  a quella di una possibilità di vita per tutti i popoli della Terra. Come non capire che, altrimenti, è l'intera umanità ad essere  mortalmente minacciata? Non un pericoloso bolscevico ma Francis Fukuyama, consulente del Pentagono e assertore, qualche anno fa, della fine della storia perché il mondo aveva, secondo lui, trovato un suo assetto accettabile e dunque definitivo, oggi descrive a questo modo la situazione planetaria dopo la crisi del bipolarismo e degli stati-nazione: "un'accozzaglia eterogenea di multinazionali, organizzazioni non governative, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via". La salvezza che egli propone è ancora una volta affidata alla forza degli stati e, in particolar modo, degli Stati Uniti. La realtà, io credo, è che l'unica salvezza proponibile è quella dell'utopia perché ormai l'utopia coincide con la ragione. I governanti, i partiti, il modello consumista, cancellando o riducendo a entità simboliche la fraternità umana in nome di un benessere materiale da incrementare incessantemente nei paesi già privilegiati, preparano guerre sempre più crudeli, distruzioni del creato, insicurezza per i nostri figli, problemi di terribile entità per i nostri nipoti. È necessario far crescere questa consapevolezza e la volontà di liberarsi dalla schiavitù del materialismo genocida del Mercato. Davanti alla ferocia dell'egoismo imperiale e al nanismo politico dei nostri partiti, cui sembra mancare ogni sensibilità a proposito delle comuni responsabilità planetarie è  necessario che continui a crescere di dimensioni numeriche ma anche di progettazione creativa il movimento di chi pensa - e vuole - che un altro mondo sia possibile. (…). Tutto ciò ha scritto quell’illustre opinionista, or ben due lustri addietro. Oggi che quello “tsunami” umano non è più tanto silenzioso ma ha rotto la coltre di indifferenza e di tragico silenzio che l’ha avvolto, tornano più che mai attuali quelle Sue parole a fare intendere, anche ai più riottosi, della necessità che incombe - come risorsa estrema - che siano le “utopie” – per come le ha chiamate allora – ovvero una “politica resa umana”, ad essere portatrice di idee nuove e progetti nuovi che diano risposte ad un mondo che sempre più si restringe in termini di movimento e di abbattimento delle distanze e delle frontiere ma sempre di più segnato da ineguaglianze e sofferenze inenarrabili, “politica resa umana” che riconquisti appieno il suo primato per segnare il cammino sempre più difficile di questi anni e di quelli a venire. Una “politica resa umana” che abbia il respiro dell’umanità tutta e senza il quale respiro tutte le vite, anche quelle privilegiate che vivono nei cosiddetti paesi progrediti, si sentiranno risucchiate nella precarietà e nella paura. E della paura dei cosiddetti “benestanti” ne ha scritto di recente – il 20 di gennaio ultimo scorso – Vittorio Sermonti in una Sua inquietante lettera al Direttore del quotidiano la Repubblica – “Cosa rischiamo noi benestanti”-: Caro direttore, guardiamoci negli occhi: siamo i benestanti della terra, e alla nostra benestanza, con una serie di agi di cui ci accorgiamo davvero solo quando si profila il terrore di perderne uno, concorre in modo significativo la libertà di pensare quello che ci pare (che ognuno pensi quello che pare a lui), di dire quello che ci pare e, con qualche modesta limitazione, di fare quello che ci pare. Insomma, la libertà e l'idea stessa di libertà individuale, e quindi di tolleranza per la libertà individuale del prossimo, i Lumi, la democrazia, Max Weber e tutto il resto. Ma al mondo, come peraltro notissimo, c'è anche una sterminata e crescente massa di malestanti, di cui, per inciso, noi benestanti in calo abbiamo maledettamente bisogno per protrarre il nostro benestare: e questi malestanti che, purtroppo, se non crepano a grappoli di pandemie o non si ammazzano meticolosamente fra di loro, magari si stanziano nelle nostre periferie a non morire di fame, e in genere a invidiarci e disprezzarci, costituiscono un parco immane di consumatori potenziali delle nostre tecnologie: per il momento, in modo assolutamente prioritario, delle più accessibili. Cioè delle raffinate tecnologie degli armamenti, e delle incontenibili tecnologie dell'informazione (resi ubiqui dalla ragnatela dello spionaggio e del controspionaggio globale, i malestanti sanno tutto di come stiamo al mondo noi, di cosa ci piace, di cosa ci spaventa, e attivano in rete un proselitismo letale contro le nostre libertà, garantito dalla libertà d'espressione, di qualsiasi espressione). Come nasconderci che, in tutti i casi, si tratta del fall out di tecnologie belliche o parabelliche, inesitabili ai livelli estremi? (difficile azionare bombe all'idrogeno in un supermarket di infedeli, e comunque senza rischiare imponenti ritorsioni). Così l'individualismo radicale di cui noi saremmo portatori sani (?) suppura fra i malestanti della terra, affetti da contagio mediatico, in una frustrazione di identità che tende a compensarsi con i fasti del terrorismo «personalizzato ». Se a noi sembra, insieme, ovvio e sacrosanto fruire dei vantaggi della libertà, o semplicemente della vita, a loro (a molti di loro) no, e aspirano all'avvento di una equità planetaria che non è mai esistita e ovviamente non esisterà mai sul pianeta, demandando le proprie rivalse a un Dio vendicatore. Noi benestanti siamo certamente più bravi e buoni, con qualche eccezione inevitabile, essendo in tutti i casi noi e non loro, e questa circostanza (che nell'uso corrente chiama in causa il conflitto di civiltà) è forse l'unica cosa seria e certa in tanto marasma: noi siamo noi, loro sono loro. In tutti i casi, mi par di constatare che al fondamentalismo religioso dei monoteisti, noi benestanti, atei integrali, bestemmiatori euforici, opponiamo in concreto, insieme ai principi della nostra libertà, l'irrefrenabile dinamismo di un fondamentalismo tecnologico altrettanto intollerante, ma molto più fragile e molto più rischioso: Dio, anche volendo, non si vende e non si compra, i kalašnikov sì. È vero: indietro non si torna e, personalmente, tornare indietro mi annoierebbe a morte. Ma visto che le nostre strepitose tecnologie, che esaltano il protagonismo mediatico, sono molto più idonee ai loro scopi che ai nostri, temo che noi benestanti d'Occidente, se non proviamo a mettere in questione gli automatismi ideologici del nostro benestare, chiuderemo presto baracca.

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