"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 5 giugno 2015

Cronachebarbare. 35 “Trilaterale e democrazia decisionista”.



Càspita se non capita in questi giorni liquidi. Capita che all’improvviso veda il viso e lo sguardo dell’interlocutore cambiare quella espressione assorta e pensosa  che avevano assunto all’inizio del discorrere. Ché dell’esercizio della dialettica “quellichelasinistra” ne avevano fatto un segno distintivo, unico nel panorama della cosiddetta “buona politica”, monopolizzandolo quasi quel segno, vessillo da esibire con grandissimo orgoglio in contrapposizione alle altre pubbliche rappresentazioni della politica che della dialettica se ne facevano beffa se non altro ancora. E si scorga su quel viso ed in quello sguardo farsi largo una espressione non più assorta e pensosa, bensì ilare, di finta considerazione e comprensione del ragionare dell’interlocutore, di commiserazione, espressione che è ad un passo dal compatimento dell’altro con quell’atteggiamento tipico di quelli che non menano un passo se non per dire che “così va il mondo”. E poiché esistono ancora nel buon lessico di “quellichelasinistra” parole e termini che erano in un tempo andato - per “quellichelasinistra”  - verità incrollabili e che nel tempo liquido presente sono capaci invece, più di ogni altra cosa al mondo, di indurre quell’insana ilare commiserazione, ecco come un riflesso pavloviano comparire, con sopracciglio aggrottato, quello sguardo di compatimento al solo accennare a quello straordinario “1789” ed a quell’anelito di libertà che ne venne dalla Francia liberata da un “feudalesimo” ancora imperante. E così pure nel ricordare e nominare quell’incredibile “1848” che vide la comparsa di quel “Manifesto”“spettro” nell’Europa del tempo - redatto a quattro mani dal “moro” di Treviri. E quel riflesso ancora quando si va a ricordare l’anno “1948”, ovvero l’anno che diede alla luce qualcosa di veramente straordinario, quella che è stata definita la “Dichiarazione universale dei diritti umani”. Accade così di citare – maldestramente – la Nadia Urbinati che sul quotidiano la Repubblica del 22 di maggio scorso ha scritto in “I rischi di chi decide senza deliberare”:
Quarant’anni fa, nel 1975, la Commissione Trilaterale (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo rapporto sulla “governabilità” nei Paesi occidentali dal titolo eloquente,“La crisi della democrazia”. Il rapporto diceva, in sostanza, che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste. Secondo Huntington, gli Stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli Stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. “Eccesso di democrazia” era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un’alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All’opposto stava l’apatia, indice di soddisfazione. Ecco, di quella “Commissione” tristemente famosa e della quale si pensava erroneamente che si fossero disperse le ceneri al vento, si stanno attuando oggigiorno le indicazioni sotto il falso “ricatto” della “crisi” che imporrebbe il superamento financo della cosiddetta democrazia “esecutiva” – penultima debordante trovata - con una novella forma della democrazia detta della “decisione”, per come la definisce la Nadia Urbinati, in contrapposizione  a quella che dovrebbe essere una sana democrazia “deliberativa”. Scrive infatti l’illustre studiosa:  La crisi economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee. Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere facendo pendere il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, (…). L’amichevole inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa, direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto permanente del Parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la discussione non è tuttavia mai interrotta né lo sono la riflessione ragionata del pubblico e l’influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma la incalza, la prepara e la cambia. (…). La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della “crisi” e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, (…): la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l’altra. In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso alla costruzione dei trattati costituzionali dell’Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde oggi a un’impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e a un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l’impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli Stati. La sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli Stati membri. La crisi (…) mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare. Ne discende da tutto ciò un arretramento della democrazia ed un ritorno ad un “feudalesimo” mascherato di modernità. Poiché quel “feudalesimo”, che solamente l’opera rivoluzionaria e meritoria del “moro” di Treviri - con le Sue analisi scientifiche e le Sue straordinarie intuizioni - si pensava fosse stato definitivamente accantonato nelle coscienze collettive, ritorna prepotente nel tempo liquido che siamo chiamanti a vivere nella misura in cui la non partecipazione massiccia dei cittadini al voto democratico non desta paura e/o scandalo ma anzi viene ben vista quale strumento di semplificazione, di più rapida capacità deliberativa. A “quellichelasinistra” un tempo tutto ciò sarebbe apparso come la negazione stessa della democrazia, il ritorno di quel “feudalesimo” dei pochi privilegiati chiamati a decidere per le sorti della generalità dei cittadini - per censo, per diritto divino, per casta familiare - non già per lo spirito di cittadinanza venuto fuori dalle ceneri di quel “1789” e da tutto ciò che ne è seguito. Càspita se non capita di questi giorni liquidi incontrare un qualcuno che dicesi essere di “quellichelasinistra” che pur di vincere la partita delle urne non si perita di sostenere l’immancabilità, la necessità e l’inarrestabilità di tali stravolgenti processi della democrazia in corso in quell’Europa che un tempo veniva considerata la culla della moderna democrazia parlamentare. E quello sguardo pieno di compatimento, al solo sentire nominare e date, e luoghi ed Uomini che hanno fatto la Storia della democrazia nel mondo occidentale, accompagna l’inutile logomachia, come tra sordi, stretti nell’incomunicabilità che è segno distintivo, artatamente costruito, dello spirito del tempo presente. Al tempo presente del nuovo “feudalesimo” la non partecipazione alla vita politico-elettorale dei cittadini non discenderà già dalle esclusioni care all’antico assetto sociale - che ha dominato per secoli e secoli - bensì dalla non politicamente ostacolata “apatia, indice di soddisfazione” che le nuove “caste” utilizzano per una selezione censuaria che torni conveniente ai nuovi assetti della democrazia dalla rapida, involuta decisione.  

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