"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 18 maggio 2015

Sfogliature. 40 “Costituzione ad personam”.



Parla ovviamente  Corrado Stajano, nella sua analisi apparsa sul quotidiano l’Unità e che dà il titolo alla rilettura, di ben altri personaggi storici, di un livello di coscienza molto alto, di un’etica politica che ben difficilmente potrà essere rinverdita e dimenticata, etica politica sopravvissuta all’indomani della catastrofe del ventennio. Erano leggeri gli animi di allora, pur nella consapevolezza delle difficoltà del momento, dopo una guerra che aveva visto il mondo progredito dilaniarsi su fronti opposti in nome di una civiltà dell’uomo da recuperare, salvare, tramandare. Ben altri sono i “costituenti dell’oggi”, dimentichi o acerrimi avversari dei costituenti precedenti, senza uno spirito leggero come lo fu lo spirito dei padri della costituzione della repubblica italiana. Questi sono purtroppo i tempi e questi sono gli uomini “nuovi” che impongono una visione distorta della democrazia, con gli immaginabili cattivi frutti che la “costituzione” così rinnovata saprà dare per la convivenza sociale e politica del bel paese. Ed il bel paese assiste inerte allo sfascio imminente, quasi distratto, narcotizzato da un “regime mediatico” monopolizzatore delle coscienze, che alimenta le inclinazioni meno nobili del popolo del bel paese, sfoderando la sicumera dei regimi più consolidati ed accentratori. Si domanda Giorgio Bocca nel suo ultimo lavoro “L’Italia l’è malada“: come si vive nel regime? E offre una risposta che pare proprio interpretare e rappresentare lo spirito che aleggia sul bel paese. (…). La risposta giusta è: da stanchi. Stanchi di non capire, di essere presi in giro, del dire e disdire, delle menzogne plateali, del cattivo gusto che monta, delle facce dei servi della commedia dell’arte che ogni giorno ripetono che il regime non c’è, è un’invenzione dei disfattisti, dei comunisti. Adesso il padrone vuole diminuire le tasse. È  una follia in un paese dissestato. Che senso ha? Nessuno, è panna montata, aria fritta, ma anche di questo il regime campa.
(…).Leggiamo quanto ha scritto Corrado Stajano con il meritorio impegno di ricordare le parole dei padri della costituzione italiana, al cospetto dei quali i “padrini” dell’oggi assolvono alla operosa arte di becchini della democrazia: (…). Nasce (…) in modo abnorme questa revisione costituzionale e l’ha ben spiegato (…) Gustavo Zagrebelsky, presidente della Corte Costituzionale fino al 13 settembre 2004: «Non c’è Costituzione se la sua base di consenso non trascende le divisioni della politica comune, non trascende cioè, innanzitutto, la divisione maggioranza-opposizione.Una Costituzione del governo non è una Costituzione perché non ne ha la legittimità necessaria. Questa mancanza iniziale si rifletterà sugli atti che saranno compiuti in futuro, sulla sua base. Invece che pacificare, alimentare il conflitto. Un bel risultato “costituzionale”, non c’è che dire». I momenti delle costituzioni nascenti (e anche di parti rilevanti, come in questo caso) dovrebbero conciliare, unire. Accadde nel 1947 quando l’Assemblea Costituente discusse il modello della Costituzione, promulgata, dopo i disastri del fascismo e della guerra, il 27 dicembre di quell’anno ed entrata in vigore il primo gennaio 1948. Fu un periodo di intensa drammaticità. Nel maggio 1947 i socialisti e i comunisti furono sbarcati dal nuovo governo De Gasperi, ma la crisi era già iniziata in gennaio con il viaggio del presidente del Consiglio negli Stati Uniti. Il clima di restaurazione si era fatto via via più pesante, ma i lavori della Costituente andarono ugualmente avanti in nome dell’interesse del Paese. Uno spirito unitario si rivelò allora possibile perché, a differenza di oggi, pur tra avversari, non venivano negati i princìpi della comunità e della politica. Ma, bisogna ricordare che della Commissione dei 75, motore giuridico, politico e culturale della Costituente, facevano parte uomini come Lelio Basso, Piero Calamandrei, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Emilio Lussu, Concetto Marchesi, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti. «La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope», disse Calamandrei in un discorso alla Costituente il 31 gennaio 1947. Citò Dante, i versi del Purgatorio - «facesti come quei che va di notte» - per dire che non bisogna illuminare la strada a se stessi, ma a coloro che vengono dopo. Era sua costante preoccupazione cercare di far capire che nel preparare il testo impegnativo di una Costituzione democratica fosse opportuno, per una maggioranza, collocarsi secondo il punto di vista di quella che domani potrà essere la minoranza, «in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere i diritti di questa minoranza». (…). Ancora Calamandrei, sul Ponte (9 settembre 1952): «La schiettezza di una democrazia è data dalla lealtà con cui il partito che è al potere è disposto a lasciarlo: la lealtà del gioco democratico è soprattutto nel “saper perdere”. Ma la democrazia diventa una vuota parola quando il partito che si è servito dei metodi democratici per salire al potere è disposto a violarli pur di rimanervi». E poi: «Un sintomo preoccupante di una siffatta tendenza potrebbe ravvisarsi nella leggerezza con cui (...) si è parlato di “revisionismo costituzionale” come di una faccenda di ordinaria amministrazione. È vero che nella nostra Costituzione è previsto uno speciale procedimento per rivederla; ma è anche vero che, nello spirito dell’Assemblea Costituente, questo procedimento, particolarmente lento e solenne, è stato dettato non per invogliare i posteri alle revisioni costituzionali, ma al contrario per ammonirli a non dimenticare che la nostra è una Costituzione “rigida”, le cui modificazioni saranno sempre da considerarsi come una exstrema ratio straordinaria ed eccezionale, da affrontarsi con prudente diffidenza. (...). Fa pena sentire autorevoli parlamentari della maggioranza parlare con sì scarso senso di responsabilità della opportunità di rivedere la Costituzione per comodità del loro partito». È anche profetico, Piero Calamandrei, 53 anni fa, quando scrive dei costituzionalisti del partito di maggioranza che hanno osato sostenere che siccome «la maggioranza può tutto, essa potrebbe intanto cominciare a “smobilitare” dalla Costituzione queste fastidiose garanzie di controllo costituzionale che sono il referendum e la Corte Costituzionale, e (perché no?) la indipendenza della magistratura». Ecco fatto. Il tentativo è in corso, rabbioso, nella XIV legislatura del Parlamento repubblicano. Sono proprio le fastidiose garanzie il nemico da abbattere, l’inciampo che non deve più dar noia. Pare che i neocostituenti si siano impegnati soprattutto a creare squilibri tra i diversi poteri. Il presidente della Repubblica viene ridotto al lumicino di una rappresentanza formale. La Corte Costituzionale perde il delicato bilanciamento della sua composizione: il Parlamento può nominare infatti due giudici in più togliendo questo diritto al Quirinale e alle Magistrature. I partiti, così, possono meglio giostrare e condizionare la Corte. Il primo ministro viene a godere di un potere sovrabbondante. Ha scritto una illustre costituzionalista, Lorenza Carlassare, che «la combinazione automatica sfiducia/scioglimento (della Camera dei deputati) mette nelle mani di una sola persona un potere di ricatto senza uscita, chiudendo egregiamente un cerchio davvero perverso». (…). E poi la devolution, l’attribuzione alle Regioni di competenze che creeranno disuguaglianze, spese incontrollabili, conflitti tra Stato ed Enti locali, turbamento dell’unità nazionale. Dopo la seconda lettura del «Disegno di legge costituzionale» che sarà obbligatoriamente fatta dalle due Camere, senza la possibilità di modificare il testo, non resta che il referendum popolare, ultima frontiera della democrazia. I sondaggi rilevano che i cittadini sanno poco di quanto sta accadendo: un tentativo autoritario, privo di ogni volontà di dialogo, capace di stravolgere la struttura costituzionale dello Stato. Ma bisogna dire che finora a muoversi, a spiegare, a propagandare maggiormente e con passione il pericolo grave che incombe sulla Repubblica sono stati, più che i partiti di opposizione, le associazioni, i gruppi, i circoli nutriti dalla società civile. La “sfogliatura” che avete appena letto è stata scritta e postata su questo blog il 1° di aprile dell’anno 2005. Ben due lustri addietro. Troppi o troppo pochi per una qualsivoglia democrazia? Il referendum popolare rigettò. Cambiati in parte i personaggi della rappresentazione non sono cambiati gli scenari. Ha scritto ieri, domenica 18 di maggio 2015, Eugenio Scalfari sul quotidiano la Repubblica – “Chi comanda da solo piace a molti, ma ferisce la democrazia” -: (…). ...poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: "Che cosa pensa di Renzi?". Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata. Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: "Che cosa è il popolo italiano? Che cos'è la destra e cos'è la sinistra?". (…). …sono (…) domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c'è) non si formano da un giorno all'altro e neppure da un anno all'altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d'esser chiamato sovrano; c'è una storia che l'ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso. (…). Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. (…). Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba. Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell'Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto. Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c'è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati. Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c'è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un'epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più. Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell'efficienza e della produttività. (…).

Nessun commento:

Posta un commento