"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 7 maggio 2015

Cronachebarbare. 34 “Il 1° di maggio a Milano”.



Da un po’ di giorni svetta al primo post tra i post più popolari di questo blog quello che ha per titolo “Corruzione/prescrizione”. Bene. Ma mi sono convinto che continuare a parlare di “corruzione” sia divenuto un puro esercizio letterario, un non senso insomma. Poiché quel parlare – inutile - di “corruzione” non ha smosso e non smuove di un millimetro l’elefantiaco molle corpo sociale del bel paese. Ha avuto, quel molle corpo sociale, un miserevole sussulto all’indomani dei fatti del 1° di maggio a Milano. Per spegnersi subito appena voltata pagina. Perché miserevole sussulto? Poiché da esso non c’è da attendersi un benché minimo recupero di quello spirito di solidarietà cittadina inabissatosi al tempo del liberismo più sfrenato. È sembrato quasi che, con quel fremito appena accennato di quel molliccio corpo sociale, si sarebbe venuto a riscoprire, come d’incanto rinvigorito, quello spirito cittadino in verità morto da un pezzo. Spirito cittadino morto e sepolto proprio in quella città nella quale la spaventevole presenza della povertà da un lato – contro l’esagerata ricchezza dall’altro - dovrebbe fare da pressante richiamo a quella solidarietà che la vita cittadina, compiutamente articolata e vissuta, dovrebbe diffondere a piene mani. Solidarietà, che non ho riscontrato e che ho cercato e non ho visto in un mio recente soggiorno meneghino. Ne ho scritto su questo blog il 21 di novembre ultimo scorso nel post che ha per titolo “Un 14 di novembre a Milano”. Sarebbe da rileggere. Perché scrivo di tutto ciò? La risposta è semplice: il nostro resta un paese senza memoria. E l’inatteso dell’oggi sembra essere spuntato da chissà dove, quasi per magia. Ma di nuovo non c’è nulla. È tutto antico, vecchio, incartapecorito.
E di “mali antichi” ne ha parlato Eugenio Scalfari il 2 di settembre dell’anno 2012 sul quotidiano la Repubblica col titolo “Mali antichi insidiano il nostro fragile Paese”. Scriveva allora l’illustre opinionista: (…). Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. (…). La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi. La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito – così insegna la storia – non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma. Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù. (…). L’arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi. I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia. La democrazia ha come condizione preliminare l’esistenza dello Stato. L’Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia. Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi. (…). In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e ancora non si è capito il perché. Ecco, “un Paese arrabbiato” scriveva quasi tre anni addietro l’illustre opinionista. E la rabbia di allora quale risposta ha ricevuto? Se non quella dei pronunciamenti solenni, degli annunci di mirabolanti imprese, di una narrazione dello stato sociale del paese che non corrisponde per nulla al reale. La “rabbia” di Milano d’oggigiorno? È un rabbia antica. È una rabbia che ha trovato, e non per caso, un humus ideale. In quel tempo andato – il 16 di novembre - scriveva il direttore del quotidiano la Repubblica Ezio Mauro un “pezzo” che ha per titolo “Un deficit di libertà”: (…). Un ceto, una fascia di popolazione, una generazione, possono essere compressi fino all’irrilevanza sociale, dunque politica, cioè fino all’invisibilità. È quanto sta accadendo nelle nostre società, sotto i nostri sguardi che non vedono. E tutto ciò, com’è naturale, avviene attorno alla questione capitale di una società democratica, che è la questione del lavoro. La perdita del lavoro (e nello stesso modo il lavoro che non c’è) è infatti qualcosa di più della perdita del reddito e della sicurezza economica. È lo smarrimento dei legami sociali, dell’interdipendenza dei ruoli, del riconoscimento reciproco attraverso le funzioni e le obbligazioni volontarie che nascono dalle scelte individuali e dalle necessità collettive. Ma è anche il venir meno dei diritti, fino al diritto democratico supremo, il sentimento della cittadinanza. Molto semplicemente, senza libertà materiale non c’è libertà politica: il lavoro è partecipazione, emancipazione, costruzione di sé e della propria libertà in relazione con gli altri e con le libertà altrui. È la trama in cui la realizzazione della nostra vita entra pubblicamente in rapporto con le vite degli altri, in quel disegno che abbiamo chiamato società, cioè lo stare insieme liberamente accettato in una composizione di diritti e di doveri che tende al cosiddetto bene comune, o qualcosa di simile. Se si rompe il nucleo di valori comunemente riconosciuto nella civiltà occidentale del lavoro, salta tutto questo. Per gli individui, va in crisi il rapporto stesso con la democrazia, perché quando io non sono più in grado di far fronte ai doveri fondamentali davanti alla mia famiglia e ai miei figli, alle loro necessità primarie, alle legittime aspirazioni (cioè alla libertà), la democrazia può diventare per me un guscio vuoto, un insieme di formule che non trova senso pratico e traduzione concreta nella vita di tutti i giorni. Peggio, la democrazia diventa un sistema che si predica per tutti e si declina per alcuni, il regime degli “inclusi”, dei protetti e dei garantiti, che taglia fuori il resto. (…). …sotto la spinta mai neutrale della crisi i soggetti più deboli e più esposti della nostra società sono stati più volte costretti a scegliere tra lavoro e diritti, addirittura tra lavoro e salute, abbiamo dovuto prendere atto di una questione a cui non eravamo preparati: i diritti nati dal lavoro sono dei diritti “nani”, cioè subordinati e condizionati, che possono venire revocati se la crisi lo impone, dunque sono della variabili dipendenti e non autonome. Eppure fanno parte di quel contesto democratico generale di cui tutti usufruiamo qualunque sia il nostro ruolo, perché è la civiltà materiale italiana nel suo progredire. E tuttavia poiché sono frutto del negoziato (e dunque necessariamente del rapporto di forza) e soprattutto perché costano, in quanto rispondono a delle spettanze, sono comprimibili come non accadrebbe mai ad altri diritti. Dimostrando così che il lavoro può tornare ad essere semplice prestazione, cioè merce, quando perde ogni valenza generale, simbolica, culturale, infine e soprattutto politica. Questo accade perché il neoliberismo, dopo aver generato la crisi, è riuscito paradossalmente a trasformarsi nel suo presunto antidoto, cioè nell’unica legge di sopravvivenza delle democrazie esauste d’Occidente, diventando nei fatti la religione superstite, una moderna ideologia. (…). …l’alleanza capitale-lavoro-welfare è stata un’identità naturale delle democrazie rappresentative dell’Occidente, per tutti questi decenni. Se salta, salta anche il tavolo di compensazione dei conflitti che ci ha tutelati tutti, cioè quel vincolo d’interdipendenza che ha legato e tenuto insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle crisi cicliche, di internet, della globalizzazione, quel nesso di destino comune che ha scusato e reso fin qui tollerabili le disuguaglianze. Fuori da quel vincolo di libertà tra capitale lavoro e cittadinanza è difficile trovare nuove legittimazioni di sistema per tutti, l’imprenditore e il lavoratore. Da lì è nata un’idea di società, con le istituzioni e i legami che ne derivano. Fuori, non sappiamo come riscrivere il contratto sociale, le obbligazioni reciproche, le protezioni e le opportunità di crescita, i nuovi diritti e i nuovi doveri. Il rischio è che la nuova legittimazione sconti l’esclusione, cioè non sia democratica, o meglio che conservi la forma della democrazia, ma non la sostanza a cui eravamo abituati. Tutto questo crea uno spazio enorme per la politica, e naturalmente per la sinistra. Se solo lo sapessero. “Un deficit di libertà” è anche, per l’illustre Direttore, la “rabbia” che esplode. E dopo aver i cittadini laboriosi di quella metropoli ripulito i muri dalle lordure del 1° di maggio, rispunterà in quel di Milano quello spirito di solidarietà che il vivere cittadino dovrebbe coltivare amorevolmente e senza il quale tutto è destinato a divenire una “giungla d’asfalto” quale quella descritta – “The Asphalt Jungle” (1950) - dal grande John Huston in quell’indimenticabile Suo film?  

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