"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 29 maggio 2015

Cosecosì. 97 “Omnia (non) sunt communia”.



“Omnia sunt communia”. Nulla di tutto ciò all’Expo 2015. Lo “spirito” grande che fu “della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini” non aleggia su Expo 2015, anzi ne è straniero. Siamo stati all’Expo. Prima della nostra partenza per Milano mi ero imbattuto in una riflessione offerta da G.B. Zorzoli – “Déjà vu globale” – sulla rivista online “alfabeta2” della quale riflessione offro la parte da me più convintamente condivisa: In appendice a un convegno sulla bioagricoltura, ho trascorso mezza giornata a Expo 2015. Troppo poco per una visita approfondita. Abbastanza per un’impressione complessiva. (…). …la gente – non poca – che si aggira per i padiglioni o si ferma in strada a guardare gli show folcloristici sparsi qui e là, contribuisce a omologare Expo 2015 a una delle tante fiere campionarie. Un po’ più grande, ma non tantissimo per via dei lavori incompiuti; con qualche padiglione architettonicamente gradevole, altri banali fino al kitsch. In sintesi, una fiera paesana globalizzata, di qualità superiore alla media. Ripensando alle polemiche che hanno accompagnato la fase preparatoria e ai casini che hanno contrassegnato l’apertura della manifestazione, sarei quasi tentato di concludere con Shakespeare, Much ado about nothing, ma non sarebbe giusto liquidare con una battuta un evento che ha comunque mosso corposi interessi e impegnato non poche intelligenze nel tentativo di dargli una chiave di lettura non meramente economico-commerciale, anche se alla fine ha prevalso il dejà vu.
“Tanto rumore per nulla”, per dirla tutta con il grande bardo. E penso proprio che la più vera e la più profonda rappresentazione che si possa scrivere, per rendere l’idea e l’immagine di questa esposizione planetaria, sia da attribuirsi a Gianni Mura che in un reportage sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” - “Dal nostro inviato nel cibo” del 15 di maggio scorso, già ampiamente citato in questo blog - ha scritto: (…). La fame nel mondo all’Expo è fuori dai cancelli. La si può trovare, ma bisogna cercarla. Nel padiglione del Vaticano, all’esterno coperto da scritte sul pane quotidiano, filmati sulla difficoltà di vivere. Visto uno, molto bello, su una famiglia di Guayaquil. Commento all’esterno, di un tipo sulla quarantina: - È costato tre milioni di euro, era meglio se li davano ai poveri -. So già per chi vota. (…). Si consuma, qui dentro. La lotta contro la fame si trova dove la fanno sul serio, e tutti i giorni: alla Don Bosco, alla Caritas, a Save the Children, nel suo villaggetto di legno, tante idee in poco spazio. Un bambino, mettiamo, di 8 anni, gioca al computer che gli chiede età, famiglia, scuola, insomma vita, e poi gli chiede: vuoi vedere come vive un bambino della tua età che non è nato in Italia? C’è da scegliere: Etiopia, Siria, Liberia, India, altre ancora. Il gioco di scambio, che non è un gioco, continua: ora che ti sei scambiato con lui, cosa faresti se scoppiasse una guerra? E se morissero la capra e le due galline che assicuravano un minimo di cibo? Ogni giorno muoiono di fame e malnutrizione 17 mila bambini sotto i cinque anni. Nella classifica dei Paesi in cui è più facile essere mamme è in testa la Norvegia, segue in blocco la Scandinavia, l’Italia ben piazzata (gradino 12), davanti a Francia (23) e Usa (33). In coda Haiti e Sierra Leone. (…). L’unico padiglione da noi visitato che si sia avvicinato al “tema” proposto per l’Expo è quello allestito dall’O.N.U. Per il resto una “delle tante fiere campionarie”, imponente quanto si voglia, ma sempre “fiera” anche del cattivo “gusto” in tanti padiglioni di quel mondo occidentale soprattutto che con il “cibo” ha un rapporto ben diverso rispetto a quei popoli che ne soffrono la mancanza, o la penuria o peggio ancora la pessima qualità. Ché il problema di Expo sta tutto qui: espressione di un mondo ben pasciuto, sazio e dedito allo spreco che con il cibo ha rapporti quantomeno abnormi laddove fanno registrare, quei rapporti sbagliati, processi o alterazioni mentali – bulimia, anoressia - che nei paesi afflitti dalla fame endemica sono del tutto sconosciuti. Ed allora si scopre, percorrendo il suo “decumano”, che Expo è la celebrazione dell’Occidente nelle sue forme più “banali fino al kitsch”. Per non dire poi dello “spirito” che si coglie, anzi che abbiamo colto, avventurandoci per i padiglioni che sorgono ai lati del lunghissimo viale centrale. E sì che da una stima ad occhio da noi fatta nel giorno della nostra “esplorazione” ben l’80% dei visitatori era formato da scolaresche militarmente intruppate che, una volta rese libere nelle loro scorribande, ben poca attenzione avranno posto alla tematica – mancata - che l’Expo aveva abbondantemente annunciata e propagandata. Ha scritto bene Gianni Mura che “si consuma, qui dentro”. Ed il tono che si coglie a piene mani è proprio quello dei “consumatori” accaniti ed incalliti, sol che si pensi che il padiglione più preso d’assalto è stato, in quel mattino, quello della “Coca-Cola”. Per dirla tutta, l’effimero e l’inutile in fatto di alimentazione e fame nel mondo. Ha scritto Enzo Bianchi, il priore di Bose, sul quotidiano la Repubblica del 19 di maggio – “Perché il pane quotidiano deve essere un diritto di tutti” -: “Omnia sunt communia”: questa affermazione, risalente ai padri della chiesa, è stata la bandiera della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini”. (…). …questa affermazione era stata ripresa dal concilio Vaticano II: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità… L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni» ( Gaudium et spes 69). Il cibo, che ci dà la vita e senza il quale moriamo, è la prima realtà che va necessariamente condivisa. Oggi siamo consapevoli dell’ingiustizia regnante, dell’assoluta mancanza di equità nella distribuzione delle risorse del pianeta. Si pensi solo che meno del 20% della popolazione possiede l’86% della ricchezza mondiale. La diseguaglianza planetaria, a partire dall’ingiusta ripartizione del cibo, dovrebbe farci provare vergogna. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri dai ricchi dovrebbe inquietarci, perché una tale situazione può solo preparare una rivolta dei poveri, una guerra – dai nuovi connotati, ma sempre guerra – tra i privilegiati da un lato e, dall’altro, i bisognosi che non solo ricevono sempre meno aiuti e sono sempre più abbandonati a se stessi, alla miseria, all’ignoranza, alle regressioni tribali che generano violenza tra gli stessi poveri, ma che vengono anche defraudati delle loro terre e delle ricchezze che vi si trovano. I ricchi oggi diventano più ricchi e i poveri più poveri, cresce il numero delle persone obese nel ricco occidente, mentre gli abitanti dell’emisfero sud, dell’Africa, continuano a morire di fame o di malnutrizione. Purtroppo negli ultimi venticinque anni si sono imposti e regnano “dogmi economici” che favoriscono i ricchi e aumentano l’ingiustizia nella società. L’idolo della crescita economica che si pretende inarrestabile; il consumo, anch’esso pensato sempre in aumento per soddisfare una ricerca di felicità falsata; la concezione della naturalità della diseguaglianza, che sarebbe vantaggiosa per tutti: questi sono diventati dogmi poco contraddetti e invece sempre capaci di rendere idolatre e alienate le masse. (…). …attualmente si crede alla mano invisibile del mercato, pensata come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini (cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. (…). Non mi dilungo a declinare l’istanza della condivisione del cibo, ma è facile comprendere che non significa solo l’atto finale dello spezzare il pane insieme, seduti alla stessa tavola, bensì anche il rispetto del lavoro del produttore di alimenti, il riconoscimento del lavoro dei contadini, la sostenibilità sociale ed ecologica, l’instaurazione di un mercato equo e solidale e, all’inizio dei processi, l’affermazione della proprietà comune delle risorse naturali come l’acqua e la destinazione della terra a quanti la lavorano. Il cibo, dunque, è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi ha fame perché non ne ha. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… (…). Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Mai senza l’altro, neppure a tavola! Nel Padre nostro non sta scritto: «Dammi oggi il mio pane quotidiano » – suonerebbe come una bestemmia! – ma «Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare “Padre nostro” e non “Padre mio”»! Permettetemi di ricordarlo: se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora «le pain se lève», «il pane insorge, si alza in rivolta». Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri (…). Dell’”albero della vita” meglio non parlare. Sembra, o meglio lo è, un grande “albero della cuccagna”. Di quelli che si tiravano su nelle piazzette dei nostri borghi di un tempo ed in cima ai quali si appendevano salumi e quant’altro di commestibile per la fame nostrana dei tempi andati. Ora non li si usa più. È infiocchettato “l’albero della vita” e fa da sfondo alle manifestazioni festaiole che si svolgono nella piazzetta adiacente all’orrendo padiglione Italia. Il “vero”, “maestoso”, “grande” albero che avrebbe dovuto rappresentare l’Expo di Milano lo si ritrova nel padiglione dell’O.N.U., un grande, grandissimo albero la chioma del quale sovrasta all’esterno, bucandola, la volta del padiglione. È così che si è salvata l’anima dannata dell’Occidente ben pasciuto, l’anima morta dell’Expo 2015.

1 commento:

  1. Caro Aldo Ettore, il problema della fame della maggioranza della popolazione mondiale, mi ha sempre assillato e fatto sentire in colpa perché anche io appartengo al mondo opulento. Cerco di fare qualcosa per oppormi a questa ingiustizia ma sono sempre briciole: non spreco niente non bevo acqua minerale, non butto mai niente, compro molti prodotti del Commercio equo e solidale. Ma anche se conosco molti che vivono sobriamente la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre più.
    Che dire? Speriamo che la rabbia dei poveri provochi una rivoluzione culturale che generi il risveglio delle coscienze e porti al governo delle Nazioni uomini giusti. Un abbraccio. Franca

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