"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 aprile 2015

Oltrelenews. 35 “Occupazione”.



Da “Lavoro, altro che miracolo Poletti costretto a smentirsi” di Carlo Di Foggia, su “il Fatto Quotidiano” dell’1 di aprile 2015: (…). Ieri (31 di marzo n.d.r.) l’Istituto di statistica ha diffuso i dati mensili sull’occupazione: nel solo mese di febbraio si registrano 44 mila occupati in meno (quasi tutte donne) e 23 mila disoccupati in più (+0,7 per cento), con il tasso di disoccupazione che sale al 12,7 per cento, tornando ai livelli del dicembre scorso. Rispetto a febbraio 2014 – primo mese dell’era di Matteo Renzi a Palazzo Chigi – l’occupazione è cresciuta dello 0,4 per cento (+93 mila), mentre la disoccupazione ha fatto un forte balzo in avanti del 2,1 per cento: significa 67 mila posti di lavoro persi. Solo poche ore prima, il Sole 24 Ore riportava anche la retromarcia del ministro del Lavoro Giuliano Poletti: dopo aver sbandierato pochi giorni fa i “79 mila contratti stabili in più siglati tra gennaio e febbraio”, Poletti si è deciso a comunicare al quotidiano della Confindustria anche quelli “cessati”, ridimensionando così il loro numero a 45.703, buona parte dei quali, come si temeva, sono stabilizzazioni di contratti precari e non nuovi posti di lavoro. È la certificazione di una corsa ad accaparrarsi l’incentivi stanziati dal governo con la legge di Stabilità: la decontribuzione fino a un massimo di 8.060 euro, che ha provocato una valanga di richieste all’Inps e potrebbe portare nel giro di pochi mesi a esaurire le risorse stanziate (1,9 miliardi di euro nel 2015).
(…). Venerdì scorso, per dire, Poletti aveva comunicato le anticipazioni sui contratti siglati (“nei primi due mesi del 2015 si registrano 155 mila contratti in più rispetto al 2014”) per coprire il tonfo del fatturato dell’industria registrato a gennaio (-1,6 per cento rispetto a dicembre). Sarà un caso, ma da ieri l’Istat ha deciso di comunicare anche la media mensile rispetto ai tre mesi precedenti “per offrire ai lettori andamenti che risentono meno della variabilità che si osserva a breve termine”. Tradotto: cerchiamo di fare un po’ di chiarezza vista la confusione regnante. (…). Al di là dell’Istat, però, sono proprio i numeri (…) a fare chiarezza. Dai dati, infatti, emerge che l’aumento dei contratti a tempo indeterminato di gennaio e febbraio è dovuto essenzialmente alle stabilizzazioni di rapporti di lavoro già in essere, e a un “effetto rimbalzo”, visto che negli ultimi tre mesi del 2014 le attivazioni avevano subito un brusco calo (passando da circa 117 mila a poco più di 88 mila). In pratica, le aziende hanno aspettato il nuovo anno per assumere, proprio per accaparrarsi i generosi incentivi previsti a partire da gennaio. Non solo. Nei primi due mesi del 2015 insieme alle “attivazioni”, sono cresciute anche le “cessazioni” di contratti stabili: dai 243 mila licenziamenti del 2014, ai 257 mila di gennaio-febbraio di quest’anno. Era già successo nel dicembre scorso, quando Poletti venne smentito a stretto giro dal suo dicastero: aveva anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie del terzo trimestre 2014, da cui si evinceva “un incremento di 400 mila unità”, guardandosi bene dallo specificare che quelli “cancellati” erano però 483 mila. Ieri, seppure in misura minore, è avvenuta la stessa cosa. Il ministero, poi, non ha voluto diffondere anche i dati di marzo 2014. Non è un dettaglio da poco: stando ai numeri, in quel mese le attivazioni “stabili” dovrebbero essere state almeno 200 mila, e questo ridimensiona non poco le uscite di Poletti. Se venisse considerato l’intero trimestre, infatti, probabilmente i “79 mila contratti a tempo indeterminato in più rispetto al 2014” rivendicati dal ministro del Lavoro sarebbero molti meno. Tanto più che l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’aumento dei contratti precari (circa 54 mila unità), dal calo di quelli di apprendistato (da 34 mila del 2014 ai 33 mila di gennaio-febbraio 2015, mentre quelli “cancellati” sono più di tremila), su cui il governo aveva puntato molto: dovevano essere il cuore della “Garanzia giovani” (il cui flop è ormai conclamato) e invece vengono divorati dalla corsa agli incentivi. (…).

Da “Le donne perdute. In un mese più di 42mila senza lavoro” di Chiara Saraceno, sul quotidiano la Repubblica dell’1 di aprile 2015: (…). L’occupazione maschile, ricordiamolo, è stata la più colpita dalla crisi, passando da un tasso del 70,2% nel 2008 al 64,7% nel 2014, laddove per le donne si è passati dal 47,3% del 2008 al 46,8% del 2014. Paradossalmente la crisi ha prodotto una riduzione del gender gap nell’occupazione, non tramite un aumento dell’occupazione femminile, ma a causa di una forte riduzione dell’occupazione maschile. Mentre si è ulteriormente allontanato l’obiettivo europeo del raggiungimento del 70% di occupazione femminile, anche gli uomini sono scesi al di sotto di quella percentuale e faticano a tornare ai, non altissimi, livelli pre-crisi. Quanto alle donne, se hanno mantenuto meglio le proprie, pur svantaggiate, posizioni in termini percentuali, ne hanno perse in termini di sicurezza. È infatti aumentato molto il part time involontario, non quello scelto come temporanea strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità famigliari in una società in cui la divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne rimane rigido e il sistema dei servizi insufficiente e spesso costoso. È aumentato, cioè, il part time imposto dalle aziende, specie nel terziario, come strumento di flessibilizzazione della manodopera, a prescindere dai bisogni di questa, in termini vuoi di reddito, vuoi di conciliazione. È aumentata anche la disoccupazione femminile (di sette punti percentuali nell’ultimo anno, a fronte di una diminuzione di oltre il 2% per gli uomini), perché più donne oggi si presentano nel mercato del lavoro riducendo la percentuale delle inattive. Non si tratta solo di giovani istruite, ma anche di donne di mezza età a bassa qualifica e con carichi famigliari, che un tempo si sarebbero dedicate solo alla famiglia ed oggi invece, spesso per far fronte alla perdita o alla riduzione dei salari maschili, sono alla ricerca di una occupazione. Il dato della perdita di occupazione femminile nel mese di febbraio (…) è il segnale della persistenza delle difficoltà che le donne incontrano a entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Difficoltà che hanno a che fare con resistenze più o meno esplicite dei datori di lavoro, aggravate, se non legittimate, dalle difficoltà a conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato. (…). Nel frattempo, il sistema dei servizi per la prima infanzia, dopo i tagli drastici di questi anni, rimane al palo, soprattutto dopo che il decreto, poi diventato disegno di legge, sulla “buona scuola” — che conteneva il definitivo inserimento di nidi e scuola per l’infanzia nel sistema scolastico nazionale come diritto di tutti i bambini e un organico scolastico a sostegno del tempo pieno — sembra essersi perso per strada e difficilmente potrà essere approvato in tempo per il nuovo anno scolastico. E dei servizi per le persone non autosufficienti non si parla proprio, lasciandoli alla responsabilità esclusiva delle famiglie, cioè spesso delle donne. Il basso tasso di occupazione femminile è una delle cause dell’alta incidenza di povertà nelle famiglie in Italia. Per aumentarlo non si può contare solo sulla buona volontà delle donne. Occorrono politiche sia imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di corto respiro.

Da “Diritti, la spallata arriva dal Jobs Act” di Mario Fezzi, su “il Fatto Quotidiano” del 25 di febbraio 2015: (…). L’abrogazione sostanziale dell’articolo18 (…) dovrebbe garantire la ripresa dell’occupazione e di tante nuove assunzioni. Ma perché mai? Come è dimostrato da studi e ricerche, è solo il trend positivo economico che può fare da incentivo alla ripresa delle assunzioni. La situazione economica in apparente ripresa dovrebbe di per sé determinare nuove assunzioni. E a questo dovrebbe aggiungersi l’effetto positivo della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato del 2015 prevista dalla legge di Stabilità. Se ci sarà ripresa dell’occupazione, sarà dunque per effetto di questi due fenomeni e non certo dell’eliminazione dell’articolo18. (…). Difficilmente comprensibile poi è l’altra affermazione del capo del governo secondo cui, con il nuovo schema di decreto sul riordino delle tipologie contrattuali, si eliminerebbero la gran parte dei contratti parasubordinati per convogliare tutti verso il contratto a tempo indeterminato. In realtà i contratti di parasubordinazione restano tutti, eccezion fatta per job-sharing e associazione in partecipazione, oltre ai contratti a progetto. E non è stato minimamente toccato nemmeno il contratto a termine (…): come si pensa di portare tutti nel contratto a tempo indeterminato se si mantiene un contratto (quello appunto a termine) che rappresenta oggi l’80 per cento delle assunzioni e che resta molto più conveniente per le imprese? Per quanto riguarda il contratto a progetto poi, la sua abolizione, a partire dal gennaio 2016, è stata presentata con le medesime suggestioni che avevano visto dodici anni fa, l’eliminazione dei co.co.co. in favore dei co.co.pro. Ho sentito il presidente del Consiglio e il suo ministro del Lavoro affermare che l’eliminazione per legge dei co.co.pro. produrrà la scomparsa delle false collaborazioni e il mantenimento solo delle genuine collaborazioni autonome. La stessa cosa era infatti stata affermata nel 2003, all’entrata in vigore del decreto legislativo 276 che cancellava i co.co.co: e abbiamo visto tutti come i contratti a progetto siano diventati rapidamente un numero incalcolabile. Allo stesso modo è ampiamente prevedibile che la cancellazione dei co.co.pro. produrrà l’obbligo per i lavoratori a progetto di dover aprire la partita Iva per mantenere una sorta di rapporto di lavoro. A fianco di un aumento esponenziale di nuove partite Iva, poi, si aggiungerà una reviviscenza massiccia del lavoro nero. Tornando sul contratto a termine, c’è da notare che il decreto approvato prevede che il superamento delle soglie previste per legge o per contratto non determini la conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato, ma venga semplicemente applicata una sanzione amministrativa. È stato anche sostanzialmente riscritto l’articolo 2094 del codice civile: dal gennaio 2016 le collaborazioni che si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, rientrano nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato. (…).

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