"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 17 marzo 2015

Oltrelenews. 29 “Grexit?”.



Da “Tsipras farà cambiare passo all’Europa”, intervista di Eugenio Occorsio al professor Jean-Paul Fitoussi pubblicata sul settimanale “Affari&Finanza” del 2 di febbraio 2015: «Finalmente dall’Europa cominciano ad arrivare buone notizie. Negli ultimi giorni ne sono arrivate due, entrambe importantissime: l’annuncio del quantitative easing della Bce e la vittoria di Syriza alle elezioni greche. Vogliono dire che qualcosa sta finalmente cambiando nell’eurozona ». (…). «Salutiamo con gioia la decisione del popolo greco di eleggere un governo impegnato in un fondamentale cambiamento della politica europea» (…). Professor Fitoussi, perché tanta gioia? Non sarà pericolosa questa voglia di avventurismo del nuovo governo greco, il fatto che il loro modello è Che Guevara? «Macché. Come avete visto dai primi incontri ad Atene con il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, di giovedì scorso, e il giorno dopo con il capo dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, si tratta di persone molto ragionanti. Credetemi: finora gli unici pericoli per l’Europa li hanno dati la Merkel e i suoi epigoni. Ma lo sa che il reddito dei greci è sceso del 40% dall’inizio della crisi, che non c’è più copertura a malattie che non esistevano da 70 anni? Che la gente è alla fame, il tasso di suicidi aumenta, metà dei giovani sono senza lavoro? Come membri della Progressive Economy Initiative abbiamo preparato un rapporto chiamato Call for Change in occasione delle elezioni europee del 2014 in cui anticipavamo i principi e i programmi di Syriza. Somministrare dosi massicce di austerity a un malato grave equivale ad ucciderlo. Cosa volevano aspettare, i governi e la commissione europea, per capire che è ora di cambiare? Una rivoluzione per le strade di Atene? Sangue e forconi per le capitali europee? Dobbiamo ritenerci fortunati se il cambiamento è arrivato per la via migliore, quella di libere e democratiche elezioni. E che la politica si riprende finalmente il suo ruolo. I tecnici devo fare quello che dicono i po-litici, non il contrario. Italia, Francia e gli altri devono prendere esempio».
Le sembra verosimile quest’accordo segreto di cui si parla in base al quale già da un paio di mesi sarebbe stato ristrutturato il debito greco rendendolo più sopportabile? «Non tanto. Mi sembra una ricostruzione un po’ strana, sarebbe una strada obliqua e del tutto irrituale. Intendiamoci: gli accordi sono fin dall’inizio soggetti a una rinegoziazione continua, era già previsto che le scadenze potessero allungarsi così come i tassi scendere in accordo con le condizioni di mercato, tutto questo almeno per la parte di competenza degli Stati perché le condizioni con Bce e Fmi sono difficilmente negoziabili. Ma questo Tsipras lo sa benissimo. Quello che chiede è una misura molto più massiccia di riscadenzamento dei debiti e di revisione dei tassi, che è ben altra cosa». I tempi stringono, il 28 febbraio scade il programma dell’Efsf, il fondo europeo di soccorso. Ce la faranno a negoziare in così breve tempo, considerando che nel frattempo la Grecia deve anche eleggere il Presidente della Repubblica? «Non è una data vincolante. Esistono meccanismi tecnici già accertati per poterla rinviare almeno all’estate. E anche per garantire, il che è decisivo, l’accesso della Grecia al quantitative easing. Vorrei rivolgere un appello alla Bce, alla Commissione Ue, all’Fmi, perché non boicottino Tsipras ma anzi diano al suo Paese lo spazio vitale necessario perché questo possa dimostrare che un’altra via è possibile, non quella dell’austerity a tutti i costi ma quella dell’espansione, dello sviluppo, certo anche del rigore del bilancio ma non inteso come solo sacrifici ma semplicemente trasparenza, taglio delle spese inutili, lotta all’evasione fiscale. L’importante è considerare Tsipras un interlocutore affidabile e un partner attivo. Le istituzioni stesse, oltre ai governi europei, devono rigettare le minacce e i tentativi di intimidazione rivolti alla Grecia e ai suoi nuovi leader ». Un nodo che è emerso nei primi giorni di Tsipras è la destinazione dei fondi prestati a profusione dall’Europa: sono andati ai cittadini greci o alle banche internazionali? «La questione è posta male. È vero, dei 240 miliardi molti sono andati alle banche francesi e tedesche. Ma era necessario perché queste non interrompessero le linee di credito con le banche greche, e quindi di fatto non lasciassero alla fame i cittadini».

Da “Europa, ascolta le parole di Atene” di Mariana Mazzuccato, sul quotidiano la Repubblica del 16 di marzo 2015: (…). “Unione fiscale” vorrebbe (…) dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione (…) molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli. (…). …permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni (…). Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi. Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto. Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro. Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile (…). Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare. Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e investono maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact. È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varoufakis viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione. Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.

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