"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 20 dicembre 2014

Oltrelenews. 14 “Populismo”.



Da “Populismo e privatismo” di Giorgio Ruffolo, sul quotidiano la Repubblica del 4 di marzo dell’anno 2011: (…). Per privatismo intendo la forma più rozza del liberalismo. Quello pone al centro dell´azione politica la libertà dell´individuo: quindi, certamente, i suoi interessi personali; ma anche le sue responsabilità sociali. L´individuo è anche un cittadino. Nel privatismo è esaltata la sua separatezza ed esaltata la sua compiacenza. La società è sostanzialmente negata (vedi la famosa sentenza della signora Thatcher: la società non esiste) o piuttosto, è intesa come un pulviscolo di granelli privati. I quali sono facilmente coinvolti da emozioni collettive (il gioco, il calcio, lo spettacolo) e attratti da personalità autoritarie. E qui il privatismo si rovescia in populismo fanatico. Questo collettivismo ludico si sposa perfettamente con la diseguaglianza: che anzi, lo sprona. Grande parte della fortuna del berlusconismo sta nell´ammirazione del successo e nella forza dell´invidia sociale. Di qui i suoi riferimenti politici: non le aristocrazie o i poteri forti delle borghesie, considerati con antipatia plebea: ma i nuovi poteri della finanza, dell´industria mediatica, dell´industria edonistica (moda e viaggi, feste e festini): non i valori storici dell´unità nazionale, ma quelli localistici del campanilismo. Inoltre: queste passioni mondane si combinano perfettamente anche con la reverenza verso le istituzioni religiose. Prova ne sia la benevolente indulgenza di queste alle scappatelle di massa. Naturalmente, il berlusconismo si combina perfettamente con i "liberali" benpensanti, che in Italia hanno sempre svolto un ruolo di copertura moderata della destra violenta. Infine. Il berlusconismo si combina anche con i residui del vecchio marxismo stalinista. Suoi eredi più o meno illustri, orfani di quelle obbedienze, trovano nella nuova devozione gioia e conforto al loro disperato bisogno di papi.

Da “Cambiare per fermare i populismi” di Ezio Mauro, sul quotidiano la Repubblica dell’1 di aprile 2014: (…). Smarrito nella solitudine repubblicana, il cittadino ritorna individuo: e deve fronteggiare privatamente le nuove paure pubbliche che la crisi ingigantisce e che nessuna cultura comunitaria ha avuto il tempo e il modo di elaborare, riducendole a politica e smitizzandole. Bisogna avere il coraggio di ammettere che la destra è più attrezzata a cavalcare questa onda d'urto che frantuma identità e appartenenze. Anzi il più attrezzato è un populismo-nazionalista che unisce modernità e tradizione nella coltivazione delle paure, rinchiudendole dentro frontiere immaginarie innalzate contro la nuova sfida transnazionale e globale. Per essere più esatti siamo davanti alla crescita di forze che si presentano come "né di destra né di sinistra" (la definizione preferita che Marine Le Pen dà oggi del Fronte) o addirittura come il superamento della dicotomia del Novecento (il Movimento 5 Stelle). Come tali queste forze uniscono un culto strumentale della tradizione ad una critica radicale della globalizzazione che porta con sé una denuncia degli esiti estremi del capitalismo finanziario e del liberismo selvaggio, che la sinistra non sa più fare. (…). Covano nei nuovi populismi elementi culturali da tea party, com'è evidente, o da moderna rivoluzione conservatrice europea, che usa gergalità di sinistra e modalità radicali mosse da un'autentica anima di destra nel senso che Salvemini dava al "disprezzo per la democrazia" o che Croce attribuiva alla "feroce gioia" contro le istituzioni. È la rivincita contro l'occidentalizzazione del mondo, che va in crisi proprio da noi, in Europa. L'irrisione dei grandi racconti della modernità, considerati superati come i concetti e le definizioni che hanno prodotto. Anzi, è la fine del moderno in politica, con la crisi delle categorie classiche che l'hanno interpretata per oltre un secolo. Viene alla luce una novità: una speciale modalità del populismo di essere "popolare", cioè di adulare il popolo rappresentandolo nelle sue paure e nei suoi fantasmi, ma anche nella sua proletarizzazione culturale, con la perdita di riferimenti e di meccanismi di lettura e di interpretazione del contemporaneo, senza più categorie del reale. Il populismo chiede una relazione empatica, dunque anche d'istinto. Più che elaborare le paure, le stereotipizza, facendole diventare soggetti politici minacciosi, dunque bersagli. In cambio promette protezioni primitive organizzate ognuna sempre attorno al concetto delle frontiere, immaginarie o reali, storiche o culturali: perché il nemico è tutto ciò che è transnazionale, che si muove da un mondo all'altro e li attraversa tutti d'abitudine, l'immigrazione naturalmente, ma anche le élites, il cosmopolitismo, l'euro, l'Europa e la globalizzazione. La risposta è la chiusura in una sicurezza immaginaria, separata e isolata, antica e autarchica con le monete di una volta, le barriere e i confini, gli Stati teorizzati come pure comunità di discendenza, il welfare riservato agli indigeni, i diritti degli altri che pagano dogana. È la risposta più radicale di fronte all'impatto radicale della crisi. (…). Il rischio (…) che la sinistra di governo, alla fine del suo lungo travaglio, non sia in grado di trovare in se stessa gli elementi per una lettura altrettanto radicale della fase e per una proposta di contromisure forti, e finalmente diverse dall'antipolitica crescente. Come se le vecchie parole della tradizione riformista fossero inservibili, mentre invece il concetto di uguaglianza potrebbe essere la leva politica da cui ripartire, nel momento in cui le disuguaglianze sono la cifra dell'epoca. Come se, soprattutto, riformismo equivalesse a moderatismo, incertezza identitaria, accettazione di un'egemonia culturale altrui, mancanza di autonomia politica, dispersione nel senso comune dominante. (…).

Da "Le radici dei populismi" di Ian Buruma, sul quotidiano la Repubblica del 17 di dicembre 2014: (…). …il sentimento anti-immigrati trascende la vecchia linea di demarcazione tra destra e sinistra. (…). All' estremo opposto dello spettro politico l' opinione si divide tra coloro che sono per lo più motivati dalla propria lotta contro il razzismo e l' intolleranza e coloro che vogliono tutelare il lavoro e la "solidarietà" per ciò che resta delle classi operaie autoctone. Ricondurre frettolosamente all' intolleranza le ansie suscitate dall' immigrazione sarebbe un errore. Le "identità" (in mancanza di un termine migliore) nazionali, religiose e culturali stanno subendo una trasformazione, determinata non tanto dall' immigrazione quanto dallo sviluppo capitalistico globale. Nella nuova economia globale, vincitori e perdenti si delineano chiaramente. Gli uomini e le donne istruiti e in grado di comunicare facilmente al di là dei confini nazionali traggono vantaggio dalla situazione attuale. Altri invece no. Le nuove divisioni tra classi non separano tanto i ricchi dai poveri, quanto le élite istruite e metropolitane dai provinciali meno sofisticati, meno flessibili e meno connessi. I loro leader condividono l' amarezza di coloro che si sentono alienati in un mondo che gli appare sconcertante e pieno di odio. Gli agitatori populisti amano riattizzare questo risentimento popolare prendendosela con gli stranieri che lavorano per una miseria o non lavorano affatto. In realtà, però, ciò che soprattutto infastidisce le popolazioni autoctone è il relativo successo delle minoranze etniche e degli immigrati. E questo spiega il dissenso verso il presidente Obama. Gli americani sanno che il giorno in cui i bianchi saranno ridotti a una delle tante minoranze non è lontano, e il numero delle persone di colore che occupano posizioni di potere è in continuo aumento. Ecco perché i sostenitori del Tea Party e di altri gruppi analoghi vogliono riprendersi i propri, rispettivi Paesi. (…). Nemmeno l' economia globale potrà fare marcia indietro, anche se dovrebbe essere regolamentata con maggior attenzione perché ci sono cose che vale ancora la pena tutelare, ed esistono buoni motivi per non esporre completamente la cultura, l' istruzione e alcuni stili di vita alla distruzione creativa delle forze darwiniane del mercato. (…).

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