"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 18 dicembre 2014

Oltrelenews. 13 “Petrolio”.



Da “Sta cambiando il mercato troppo greggio nel mondo i prezzi resteranno bassi” di Eugenio Occorsio, sul settimanale “Affari&Finanza” del 20 di ottobre 2014: (…). …la Cina e la Russia rallentano, la Germania è sull’orlo della crisi per non parlare del resto d’Europa: i valori così bassi del greggio non sono semplicemente funzione del passo lento dell’economia e della domanda mondiale? «Non è questo l’elemento prevalente. Per capire la situazione dobbiamo andare indietro di dieci anni. Nel 2003-2004 le quotazioni cominciarono a salire, tanto che più o meno tutte le compagnie, grandi o piccole, decisero di potenziare gli investimenti per aumentare la disponibilità e quindi cogliere le opportunità di prezzi così alti che allora sembravano dover durare per sempre (il picco fu a 150 dollari nel luglio 2008, ndr). Nei dieci anni fra il 2003 e il 2013 si sono spesi nel mondo oltre 4mila miliardi di dollari nell’esplorazione e nello sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas. Bene, ora questi investimenti, che per natura richiedono in media 7-8 anni anni per dispiegare i loro effetti, stanno dando i loro frutti. Così aumenta a dismisura la capacità produttiva, più ancora che l’offerta: il problema, come notava già lo sceicco Yamani, è che quando la capacità aumenta ma la domanda è stabile o in declino, si crea quello che gli americani chiamano glut, insomma eccesso di petrolio potenzialmente in grado di arrivare sul mercato. È quello che sta succedendo.
Né è semplice per le compagnie rallentare di colpo o addirittura interrompere gli investimenti, che vengono intrapresi di solito in cooperazione con i Paesi produttori i quali non si lasciano sfuggire tanto facilmente le opportunità di guadagno pur ridotte. Ma poi ci sono ancora altri fattori». Quali? «Sempre negli ultimi dieci anni è intervenuta in tutto l’occidente una serie di leggi molto stringenti sui consumi energetici, e tecnologie importanti — pensate solo ai motori auto — sono state sviluppate. Anche questo è un fattore importante per il calo della domanda di greggio. E considerate che alcuni Paesi produttori non immettono sui mercati tutta la loro capacità per non accentuare l’eccesso di offerta. L’Arabia Saudita, il maggior produttore, esporta 9,4 milioni di barili al giorno pur avendo una potenzialità di 12,5: da sempre aspira al ruolo di “banca centrale” del greggio, graduando a seconda delle esigenze le quantità da immettere sul mercato». Una scorta di sicurezza e un’arma politica, insomma. Ma l’elemento più asimmetrico è un altro ancora: sono in corso furiosi combattimenti in uno dei Paesi cruciali dello scenario petrolifero, l’Iraq, mentre la Libia (altro membro dell’Opec) è senza governo e in balìa delle scorribande armate, e come se non bastasse il ganglio altrettanto fondamentale Russia-Ucraina è diventato una polveriera. In altri tempi, situazioni simili hanno comportato un’impennata dei prezzi del greggio. Ora, il contrario. Perché? «L’Isis è una banda di orrendi tagliagole, non c’è dubbio, però il danno che finora ha apportato ai mercati petroliferi è limitato. La loro non è una guerra per il petrolio. Certo, qualche pozzo lo controllano e con essi, vendendo di contrabbando 2-300mila barili al giorno, riescono a finanziare la loro avanzata. Il contrabbando di petrolio c’è sempre stato, dagli embarghi contro Teheran o Baghdad fino alle tante attività illecite in giro per il mondo. Ma da questo a influenzare i mercati ce ne corre. Per quanto riguarda la situazione attuale, la grande maggioranza del petrolio iracheno viene estratto nel sud-est del Paese, al riparo dall’invasione del Califfato. L’Iraq aveva prima dell’attacco dell’Isis superato i 3 milioni di barili al giorno di produzione, il massimo da prima dell’intervento americano, e sottraendo la quota “rubata” dall’Isis gli equilibri complessivi cambiano poco. In Libia la situazione è ancora più pesante perché la sottrazione di produzione arriva agli 800mila barili, la metà del potenziale del Paese. E se volete aggiungiamo anche i cronici problemi della Nigeria, altro Paese Opec, alle prese con i guerriglieri del delta del Niger, nonché del Sudan. Tutto petrolio in meno che arriva sui mercati: eppure la superofferta è sempre tale». Per completare il quadro dei fattori che influenzano le quotazioni del greggio, non si può non parlare dello shale, prima gas e ora petrolio, americano. «Ecco, questa è la vera grande novità di questi anni. Gli Stati Uniti consumano oggi 18,3 milioni di barili di petrolio al giorno e ne producono fra shale e tradizionale 11,5, compresi i biocarburanti. Una bella differenza rispetto a soli cinque anni fa, quando gli Stati Uniti importavano il 60% del greggio. E’ tutto cambiato: le quotazioni interne della benzina, i costi industriali. E se parliamo di gas la situazione è ancora più interessante: complessivamente, le industrie hanno costi energetici pari a un terzo». L’Arabia Saudita e gli altri Paesi dell’Opec temono che l’America cominci ad esportare, superando l’auto-embargo che si è posto dai tempi dello strapotere dell’Opec, abbattendo così ancora di più le quotazioni? «Beh, di sicuro sono molto attenti. Ma non sarà così facile per gli Stati Uniti vincere le resistenze interne, politiche e di forti lobby, per affrancarsi dai dogmi degli anni ‘70 e esportare grandi quantità di petrolio e gas». Il petrolio è un’arma politica ormai da quarant’anni, dalla guerra del Kippur del 1973. Nel suo nome si fanno guerre o si stringono inedite alleanze come quella recente fra Mosca e Pechino per il gas. E l’altro giorno al vertice eurasiatico di Milano è stato notato il febbrile lavorìo diplomatico di Putin per evitare che l’“incidente” ucraino comprometta la diplomazia del gas. Qual è la vera situazione della Russia? «Oggi di fatto Mosca è il maggior produttore di petrolio al mondo con 10,4 milioni di barili perché a differenza dei Paesi arabi produce tutto quello che può senza tenere alcuna capacità inutilizzata. Nel gas tutto questo è ancora amplificato. La Russia, malgrado tutto, malgrado il caso ucraino, ha ancora bisogno dell’Europa come mercato di sbocco in un momento in cui le quotazioni del gas stanno anch’esse scendendo. L’accordo con la Cina dispiegherà i suoi effetti fra molti anni. È importante ricordare che per i leader prima sovietici e poi russi le quotazioni degli idrocarburi, prima fonte di ricchezza del Paese, sono in diretta dipendenza con le loro fortune. Breznev godette di un grande consenso popolare nella seconda metà degli anni ‘70 quando i prezzi salirono alle stelle. La crisi di Gorbaciov e dell’Urss iniziò nel 1986, anno in cui il greggio era sceso fino a 9 dollari. Una nuova crisi piombò sul Paese verso la fine degli anni ‘90, culminata nel default tecnico della Russia nel 1998, e costò l’instabilità e il declino a Eltsin. Negli ultimi anni Putin a sua volta ha cavalcato gli alti prezzi del petrolio del gas fino a due anni fa e ora, non a caso, sta cercando in tutti i modi di evitare che una caduta prolungata dei prezzi si traduca in una crisi personale di consenso all’interno della Russia, che aprirebbe nuovi scenari».

Da “Petrolio, tutti contro tutti così la strategia saudita indebolisce Usa e Russia” di Federico Fubini, sul quotidiano la Repubblica del 29 novembre 2014: (…). Il regno sunnita del Golfo che da solo vale circa 12 milioni di barili al giorno (ma ne estrae solo 9), ha deciso che il prezzo può scendere ancora: non è il momento di chiudere i rubinetti, benché il mercato sia fin troppo liquido. Sulla domanda di energia si sta facendo sentire la frenata dell'economia europea, quella della Cina e la svolta americana: la rivoluzione del "fracking", il gas e il petrolio estratti dalla roccia di scisto, avvicina ormai gli Stati Uniti all'obiettivo dell'autosufficienza nell'energia. (…). A spiegare la scelta saudita di lasciar cadere le quotazioni, in fondo, non basta la certezza che le soglie di profitto per Ryadh restano comunque elevate: produrre un barile nel deserto della penisola arabica costa appena 12 dollari. Quando in gioco è il prezzo del greggio, anche la politica entra sempre nell'equazione. Nelle banche d'affari di Wall Street da settimane si stanno così facendo strada anche letture legate ai rapporti dei grandi produttori Opec con la Russia e gli Stati Uniti. Nella scelta dell'Opec di non procedere a un taglio, alcuni vedono un favore saudita all'alleato americano contro la Russia di Vladimir Putin. Senz'altro per Mosca la caduta del greggio è un problema più intrattabile di quanto non sia per Ryadh, il Kuwait o per Abu Dhabi, il più potente dei sette Emirati Arabi Uniti. Putin ha ormai bisogno di un prezzo sopra ai cento dollari al barile per garantire la stabilità della sua economia e del sistema finanziario. Non era così anche nel 2007, quando la Russia è cresciuta dell'8,5% con un prezzo medio del barile ad appena 72 dollari. Già però nel 2012, con le quotazioni in media a 111 dollari, l'economia aveva più che dimezzato la sua velocità di crociera. Pesano senz'altro i seicento miliardi di dollari di debito estero delle grandi imprese russe. Il crollo del rublo, il cui valore si è quasi dimezzato in pochi mesi, aumenta in modo esponenziale il peso di quei debiti. Solo l'anno prossimo rimborsi per 130 miliardi attendono le aziende russe, gli introiti da petrolio non bastano a finanziare le loro scadenze e qualcuno si trova in difficoltà: il colosso statale Rosneft da solo vale il 5% della produzione mondiale di greggio, ma ha debiti esteri per 60 miliardi e ha appena chiesto un aiuto a Putin per sostenerli. Non è una sorpresa. Prima di finire sotto sanzioni, Rosneft aveva già osato investimenti ovunque, anche in Italia (nella galassia Pirelli e in Saras). A guidarla è Igor Sechin, un ex collega di Putin al Kgb. Ora però la scelta saudita di non far muovere l'Opec non può che aggravare le difficoltà degli oligarchi russi e mettere il leader di Mosca sempre più con le spalle al muro. (…).

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