"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 11 novembre 2014

Strettamentepersonale. 16 “L’eguaglianza non è più la virtù”.



Carissimo Ninì, salto tutti i convenevoli ed in questo nostro secondo incontro – un rendez-vous terra terra – vengo subito alla tua graditissima email. Lasciamelo dire: caspitina che piglio che hai! Scrivi nella email: L’aumento dei salari e degli stipendi e la diminuzione delle tasse indurrebbero più tranquillità nell’italiano medio che ancora ha un reddito, convincendolo a consumare senza restrizione alcuna: i consumi interni subirebbero un immediato incremento, che produrrebbe commesse e vendite per le aziende italiane ed estere. L’incremento delle vendite produrrebbe più occupazione e più posti lavoro e quindi farebbe sì che le aziende ricominciassero con serenità ad assumere a tempo indeterminato. Cosa si oppone a questa semplice formula? Il Capitale! (…).  Scopro in questo passaggio della tua email il lungo, forse faticoso cammino che ti ha portato a tanto sostenere, da individuare nel “Capitale” la causa prima della “crisi” che sta impoverendo le nostre vite e distruggendo l’avvenire dei nostri figli e perché no forse dei nostri nipoti. E dire che questa tua acquisizione qualcuno la classificherebbe come cultura passatista ed oggigiorno senza valore alcuno. Forse ti sarà sfuggita la mia posizione su quel tuo auspicio che hai sintetizzato laddove scrivi che sarebbe opportuno tornare “a consumare senza restrizione alcuna”. E qui caro Ninì non ci siamo proprio.
In una occasione precedente, su questo blog, ho sostenuto come il ritorno a quel “consumare senza restrizione alcuna” fosse proprio una cosa insana e da sprovveduti, considerato l’impatto ambientale e sulle risorse che una corsa sfrenato al consumismo più becero e sfrenato potrebbe comportare, con il lascito alle future generazioni dei disastri ambientali che sicuramente non si faranno attendere. Sostenevo invece che fosse necessario e non più eludibile un’azione di redistribuzione delle ricchezze dai pochi che sinora ne hanno usufruito ai tanti tantissimi che ne sono stati privati. È in questo senso che io auspicherei non una “ripresa” qualsivoglia ma la “ripresa” più giusta ed umana, che attenui le disuguaglianze che il capitalismo finanziario ha esasperato. Ed in questa mia posizione e consapevolezza mi trovo in buona compagnia. Ha scritto infatti Massimo Fini su “il Fatto Quotidiano” – “Fermi e infelici, forse abbiamo avuto troppo” - dell’8 di novembre ultimo: Cosa resta allora all'uomo occidentale? La prigionia in un meccanismo anonimo che un gruppo musicale, i CCCP, ha sintetizzato nel verso «produci-consuma-crepa», basato sull'invidia per cui raggiunto un obbiettivo bisogna subito inseguirne un altro e poi un altro ancora, senza poter così mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e, ora, anche orientale (…), l'industrial-capitalismo (…) col postulato «non è bene accontentarsi di ciò che si ha» ha creato la premessa programmatica dell'infelicità umana, perché ciò che non si ha non ha confini. Ma adesso questo meccanismo, basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è arrivato al suo limite. È fermo, come una macchina davanti a un muro. Ed è quindi vero ciò che scriveva Marcuse nei primi anni '70: «Al di sotto della sua ovvia dinamicità di superficie, questa società è un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva». Siamo fermi. (…). Il benessere ci ha fatto male. Ci ha tolto vitalità. (…). Carissimo Ninì, condividi l’analisi dell’illustre opinionista? Scrivi ancora nella tua email – “Aiutare le imprese o le famiglie?” -: La crisi continua ad imperversare! Salari e stipendi bloccati perdono ogni giorno il loro potere di acquisto! La povertà dilaga!  Persino le famiglie del vecchio “ceto medio”  rischiano di scendere sotto  la soglia di povertà! E qui si ritorna all’assunto tuo delle responsabilità dirette del capitalismo di questi anni. Che mi pare rafforzi la mia convinzione che se ripresa c’è da essere essa deve avere necessariamente l’imprescindibile valore della redistribuzione della ricchezza planetaria sulle fasce sociali che ne sono state sinora escluse. Scrive a questo proposito il sociologo Marco Revelli – “L’eguaglianza non è più la virtù” – su “il Fatto Quotidiano” del 30 di ottobre: L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso. L’idea che “un eccesso di uguaglianza faccia male all’economia” – o, più esplicitamente che “una buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita” –, ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della globalizzazione. Ha motivato la rivoluzione fiscale, che ha drasticamente abbattuto le progressività delle aliquote e frenato le politiche redistributive negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities dei Programmi di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate sulle priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del controllo dei prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla focalizzazione della produzione sulle esportazioni, sulle privatizzazioni e sul perfezionamento dei diritti del capitale d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali. (…). “L’eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza, in qualche misura, il valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura. Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si retrocedeva comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si poneva non più come presupposto ma, tutt’al più, come conseguenza dello sviluppo, da perseguire con altri mezzi, compreso quello di un’iniziale opzione disegualitaria. (…). Non stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura di tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora, avevano contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e che ora apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle finanze pubbliche – e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzavano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto incentivo di una minore tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento pubblico. Un paradigma, possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato il lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un lato, e quella della povertà, dell’altro – finivano per assumere una posizione secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà, ridimensionate con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura alternativa (un certo tasso di disoccupazione poteva essere considerato funzionale all’abbassamento del costo del lavoro). Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa. Carissimo Ninì, ne hai ben donde quando consapevolmente scrivi: Le imprese chiudono oppure falliscono! La disoccupazione è in continua evoluzione  specialmente tra i giovani!Il lavoro è ormai una chimera e quando raramente si trova è a tempo determinato La precarietà incombe sulle nuove generazioni! I giovani sono stati privati del futuro! (…). La politica si crogiola nel proprio egoismo e nella più completa apatia ed indifferenza, trascura i problemi della gente comune e cancella se stessa ed i principi fondamentali della democrazia! Le istituzioni languiscono o transigono, in un inquietante e paradossale buonismo! Questo è il panorama di una Italia ormai in declino, sul ciglio del baratro, purtroppo pressoché prossima al default! Ed i cittadini? Ignari o guidati dai media, seguono  di volta in volta il branco e gli schieramenti, vinti dalla martellante ipnosi pubblicitaria. Ma come e perché siamo giunti a questo stato delle cose? Errori? Politiche errate? Incapacità di gestire la cosa pubblica? Forse tutto questo ed altro ancora! (…). Cosa fare dunque? Aiutare le imprese con sgravi fiscali e quanto altro o aiutare le famiglie? Aiutando le imprese  non si risolverà il problema, in quanto commesse e consumi interni non dipendono certo dalle tasse che su di esse gravano: potranno sopravvivere per altro tempo ma alla fine tutto si ripeterà. Aiutando considerevolmente le famiglie probabilmente si riuscirà a incrementare la crescita. Considerevoli aumenti, fin qui negati, a salari e stipendi sbloccherebbero i consumi interni e produrrebbero la sbandierata “crescita”! Certamente non aumenti soltanto sbandierati del tipo dei famosi “ 80 euro”, buona manovra elettorale che comunque non tutti hanno preso o goduto, perché erano accompagnati da consistenti aumenti di tasse e balzelli come l’Imu, la Tasi, la Tari,la Yuc e quant’altro di locale o Nazionale!(…).

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