"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 22 novembre 2014

Sfogliature. 33 “A miracolo avvenuto…”.



Il 26 di novembre dell’anno 2004, giorno di venerdì, anno quello decimo dalla famigerata “discesa in campo”, scrivevo un post che ha per titolo “A miracolo avvenuto…”, che “Sfogliature” si fa carico di riproporre nella sua interezza. Dalla data del post sono scivolati via altri dieci anni e ci si ritrova ignudi come allora e più disperati e disorientati che mai. Sembra che il tempo si sia magicamente o tragicamente fermato, a seconda dei personali punti di vista. Un imbonitore al tempo del post riproposto, un imbonitore nella stagione novembrina presente che si è aperta come sempre con la tristissima stagione dei morti. E che morti lo si sia in un senso più esteso è un dato inconfutabile poiché, mentre il mondo corre per il suo verso, giusto o sbagliato che sia, in questo disastrato paese è sempre un ripetersi di una pantomima vista e rivista ma sempre assurda. Scriveva nel Suo “diario” il conte Henry d’Ideville alla data del 26 di aprile dell’anno 1865:
(…). … l’Italia è davvero la terra dei morti. (…). Dove trovare un popolo più vecchio, più usato, più corrotto, meno ingenuo? Le rivoluzioni, di cui non si può contare il numero, le tirannie, le occupazioni straniere, le servitù hanno pesato su questo bello e infelice paese e hanno lasciato nel sangue stesso della nazione i vizi più svariati con una dolorosa esperienza e in realtà un gran senso politico. Quando si parla della giovine Italia, questa espressione fa ridere. Chi c’è di meno giovane, di meno ingenuo, di meno entusiasta dell’italiano? Prima di tutto è sottile, scettico, astuto e interessato. Molto più intelligente di noi, sa calcolare, aspettare, lusingare e dissimulare, cosa a cui noi non arriveremo mai. Rifate le divisioni del paese, trasformatelo in uno solo Stato, sconvolgete governi e frontiere, dategli tutte le costituzioni che vorrete, non cambierete mai la razza e il temperamento del popolo. Per quanto facciate, non lo renderete mai giovane. Conserverà coi suoi difetti tutte le  sue preziose qualità. Ha un bello scrivere Eugenio Scalfari, acuto osservatore contemporaneo delle nostre sempre ambigue vicende, sul quotidiano la Repubblica del 2 di novembre ultimo, giorno dei morti per l’appunto – “La Storia non si fa con un uomo solo al comando” –, che contribuisce con la Sua riflessione a contestualizzare il mio post risalente a dieci anni addietro: (…). …tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola -  ovviamente fatta di intellettuali -  sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore. È questa la realtà? (…). Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora. Ed è in questo scenario immutabile, che nega una possibilità di un reale “cambiare verso”, che si è sempre svolta e si svolge la Storia nel bel paese. E la lettura di quel post di un decennio andato perduto ne è una amara rilettura e riscoperta. Scrivevo… A miracolo solo annunciato scriveva il “Financial Times” in un editoriale del 24 novembre: “(…). Il taglio delle tasse voluto da Berlusconi non basta a ridare slancio all’economia. Peraltro l’effetto derivante dalla minore pressione fiscale rischia di venire azzerato dal dibattito politico che ha fatto capire agli italiani quanto opinabili e temporanei siano i vantaggi di questa manovra. (…)”. Avranno tempo gli abitatori del bel paese a verificare sulla propria pelle, forse più che nelle proprie tasche, la natura esclusivamente mediatica di questa “svolta storica”, come è stata definita dall’egoarca e dai suoi corifei. Ciò che diventa a questo punto importante, più che interessante, a miracolo di già avvenuto, è penetrare nei tortuosi meandri della personalità “politica” del Cavaliere per disvelare  le ragioni primarie di una manovra, ovvero di un miracolo, che sino a poche settimane addietro era stato riposto per tempi migliori. Ne offre una interpretazione davvero preziosa Francesco Merlo in una sua nota apparsa sul quotidiano la Repubblica dal titolo molto esplicativo “Le maschere del Cavaliere”. “(…). …il taglio delle tasse è come il cerone e il maquillage, è come il rialzo sotto i tacchi, la calza sulla telecamera, il trucco e la chirurgia plastica. Sempre, quando i sondaggi gli annunciano la sconfitta, Berlusconi ricorre alla magia, agli stregoni esoterici, alla politica malandrina che fa sparire l’oggetto reale della contesa, con un ‘a me gli occhi‘ che ti ammalia e ti svuota le tasche. Eccoci infatti tutti a discutere sull’idea antichissima e banale del taglio alle tasse, se sia irresponsabilità o popolarità, se sia un furto o un regalo, se Berlusconi sia un Robin Hood o se voglia invece limare le unghie allo sceriffo di Sherwood. E intanto di nuovo sparisce l’oggetto della vera contesa. Una riduzione dell’Irpef, senza il danaro di copertura e comunque misera, un rischioso ritocco da tre soldi diventa una disputa filosofica sui balzelli, sulla demagogia, sull’arte di governare. Non si parla più di economia reale e ovviamente neppure dell’università, delle pensioni, del razzismo leghista, del Mezzogiorno, delle grandi opere, delle leggi ad personam e dell’etere ma solo di Berlusconi, del suo carattere, del suo essere imprenditore o invece imbroglione, impolitico o strapolitico, del suo ricorso al decentramento del proprio pensiero, ieri consegnato al Doroteo Gianni Letta e ora affidato agli ex frondisti del Foglio che lo inventano futurista, gli fanno firmare dichiarazioni di guerra che non sa scrivere e neppure pensare, lo spacciano per un Majakovkij contro i ragionieri, un poeta contro le cifre, un fine fabbricatore di parole e concetti preziosi contro la gabbia degli aridi numeri. Ma al  profeta Rasputin questa volta non riuscirà il miracolo di farci credere che Berlusconi sia il nuovo messia. È il solito vecchio demagogo che ha raschiato tutti i barili vuoti della politica imbonitrice e del potere per il potere. Vi è un punto a partire dal quale ogni ulteriore sforzo aggrava la sconfitta, un punto che non bisognerebbe mai oltrepassare. Sino a quando Rasputin lavorava di nascosto, nelle alcove della zarina Alessandra Fedorovna, negli incontri clandestini, l’arruffio della sua barba poteva essere confuso con profondità di pensiero, i suoi occhi potevano suggerire visioni estatiche, il suo farfugliamento poteva essere scambiato con balbettio mistico. Ma quando lo zar Nicola si consegnò davvero a Rasputin tutti si resero conto che era iniziata la fine dell’uno e dell’altro. Dell’uno si scoprì l’essere imbelle e dell’altro l’essere mistificatorio. Con la trovata dell’Irpef secondo noi Berlusconi ha toccato il fondo del travestitismo. … Rasputin l’ha svelato, l’ha consegnato nudo al dileggio degli italiani. Grazie all’abracadabra dell’Irpef l’incantesimo è finito”. Sarebbe da cogliere con spirito di grande sollievo per le sorti del bel paese l’auspicio con il quale Francesco Merlo chiude il suo brillante pezzo di maestria giornalistica. Ma si dia il caso che lo sfondo di questa tragicommedia sia proprio il bel paese che non possiede, al pari dei personaggi richiamati quasi in vita, la grandezza imperiale dei luoghi, dei tempi e perché no, di quegli esseri umani. Nel caso così ben rappresentato si ha a che fare invece con teatranti di provincia, della provincia più profonda della antica Europa, animati da un asservimento smisurato, che, colti dalle vicende della storia non per costruire imperiali imprese ma solo per difendere interessi più immediati e concreti, hanno fatto strame di tutte le regole che il bel paese era faticosamente riuscito a darsi all’indomani della tragedia del fascismo e della guerra. È da auspicare che il sonno profondo delle coscienze sia proprio giunto al suo termine, e che questo ultimo atto di illusionismo mediatico non abbia a prolungarlo nel tempo.

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