"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 9 novembre 2014

Oltrelenews. 9 “Deflazione”.



Da “Quel fantasma della deflazione” di Marcello De Cecco, sul settimanale “Affari&Finanza” del 7 di aprile 2014: (…). Gli economisti monetaristi, che hanno tenuto banco negli anni 70-80 quando imperversava l'inflazione a due cifre, hanno contribuito non poco a confondere le idee alla gente e in particolare a politici e banchieri, affermando che i due processi, inflazione e deflazione, sono entrambi conseguenza diretta dell'aumento della massa monetaria il primo e della sua diminuzione il secondo. Innanzitutto non è certo che i movimenti dei prezzi siano conseguenza di movimenti nella massa monetaria nello stesso senso. La supposta simmetria tra i due processi è fallace. Nell'ultimo decennio, a fronte di aumenti massicci della massa monetaria, i prezzi non si sono mossi nella stessa direzione: hanno invece iniziato un rallentamento inesorabile. (…). Così l'aumento di massa monetaria è andato a gonfiare a dismisura i prezzi delle attività finanziarie e le dimensioni dell'intero sistema finanziario mondiale. In concomitanza con aumenti continui e massicci della massa monetaria, il livello generale dei prezzi è aumentato prima di poco. In anni più recenti, l'incremento ha cominciato a decelerare e nei tempi recentissimi quasi a fermarsi e a trasformarsi in una diminuzione, come è accaduto già in Grecia e Spagna. Negli Stati Uniti se non si sono ancora raggiunti valori negativi, gli aumenti dei prezzi sono di poco superiori allo zero. Eppure è proprio lì che la massa monetaria è stata fatta crescere più massicciamente.
Gli Usa sono stati i primi a gettare moneta nel sistema finanziario come acqua sul fuoco e sono in effetti riusciti a spegnere almeno la parte evidente dell'incendio finanziario che stava portando al crollo dell'intero sistema economico americano e mondiale. L'economia reale americana, sotto la spinta di dosi massicce di nuovi lavori pubblici attivati per contrastare la depressione che si paventava dopo la crisi, è tornata per breve tempo a crescere ai ritmi pre-crisi ma subito dopo si è infiacchita. E la disoccupazione, che era aumentata a livelli enormi, ha iniziato a diminuire ma a tassi inferiori a quelli che caratterizzarono tutte le fasi di ripresa precedenti. Il mercato del lavoro Usa si è ristretto con l'uscita di milioni di disoccupati che hanno smesso di cercare lavoro, mentre altri milioni lo cercano ancora senza trovarlo. La disoccupazione di lungo periodo e i lavori precari e malpagati sono aumentati anche durante la ripresa. (…). Verso la deflazione in Europa spinge la realtà istituzionalmente stabilita delle modifiche costituzionali, dei “patti fiscali” e dei trattati internazionali come lo statuto della Bce, ma anche la previsione degli effetti che avrà la regolazione unica delle banche europee ora in costruzione. Tutti in Occidente e in particolar modo in Europa, persino in Germania e negli altri Paesi creditori, sono in grado di vedere coi propri occhi la deflazione che avanza e stabilisce sulle economie un progressivo rigor mortis. Il flebile movimento che il corpo fiaccato delle economie europee sembra mostrare in questi giorni non deve illudere. È l'equivalente di quel che è accaduto negli Stati Uniti: la prospettiva di fondo, prezzi fermi o addirittura in ribasso, gela nel lungo andare le intenzioni positive mostrate dalle imprese riguardo agli investimenti e alla forza lavoro. Negli Stati Uniti, ma anche altrove in Occidente, continua intanto a crescere la disuguaglianza, che imperversa da un trentennio. E ci si chiede come farà l'1% della popolazione a consumare tutto ciò che produrrà un'industria col potenziale di quelle americana ed europea. I grandi economisti che si formarono negli anni 20 e 30 sapevano bene che uno dei maggiori misteri dell'economia era come, perché e quando si fermava il circolo vizioso della deflazione. Con un sistema finanziario speculativo ancor più rigoglioso di quello dei loro tempi, oggi non vale nemmeno la “formula della disperazione” escogitata da Keynes contro la preferenza per la liquidità: vogliono carta e dunque diamogliene quanta ne vogliono. Stampiamo moneta e prima o poi i prezzi ricominceranno a salire, le prospettive di investimento volgeranno al bello, salirà l'occupazione e i cittadini riceveranno di nuovo credito dalle banche da spendere in beni di consumo e mutui per comprare case. (…). Ricordiamo (…) che per ribaltare veramente e durevolmente le aspettative di imprenditori e consumatori e dare un colpo decisivo alla disoccupazione europea potrebbe essere necessario ricorrere al “deterrente ultimo” suggerito da Keynes e applicato prima da Hitler e poi dalle democrazie: il ricorso a lavori pubblici massicci e prolungati, che aumentino direttamente occupazione, massa salariale e investimenti senza ricorrere alle intermediazioni finanziarie. Per gli economisti tradizionali è l'arma della fine del mondo del dottor Strangelove, e infatti in Europa ad essa si fece ricorso solo dopo che l'economia capitalistica degli anni venti si era autodistrutta.

Da “Deflazione la Yellen si preoccupa più di Draghi” di Federico Rampini, sul settimanale “Affari&Finanza” del 14 di aprile 2014: (…). Il danno della deflazione è uno degli argomenti più ostici per il cittadino medio (…). Siamo vissuti per decenni in un’economia inflazionistica, perciò siamo sensibili al pericolo opposto. Se i prezzi aumentano il nostro potere d’acquisto si riduce, il nostro reddito compra meno cose. Gli italiani ancora non hanno perdonato all’euro quello shock inflazionistico, misteriosamente assente dalle statistiche, che “arrotondò” molti prezzi al rialzo nel passaggio dalla lira. Una parte del risentimento anti-euro di oggi è ancora legato a quella sensazione di essere stati impoveriti. Tutto questo spiega ma non giustifica la disattenzione verso il pericolo opposto. La Federal Reserve ha un obiettivo d’inflazione del 2% annuo, oggi i prezzi al consumo in America non salgono neppure dell’1%, che male c’è? Il male c’è, eccome. Un’inflazione a zero non è una buona cosa. Proviamo a immaginare un paragone col corpo umano. Se abbiamo la febbre a 40 gradi, è segno che siamo malati e bisogna farla scendere in fretta. Ma la temperatura corporea deve comunque rimanere positiva, l’aspirina ce la deve ridurre al livello normale di 37 gradi, non al di sotto dei 35 gradi (saremmo in piena crisi di ipotermìa e a rischio di assideramento), certamente non a zero gradi: quella è la temperatura di un cadavere all’obitorio. In un’economia sana un po’ d’inflazione ci dev’essere, come la temperatura positiva nel corpo umano. L’inflazione zero è un pessimo segnale, anche perché facilmente si scivola sotto lo zero. Prezzi declinanti inducono i consumatori a rinviare le spese aspettando ulteriori ribassi; le imprese sono danneggiate nelle vendite e nei profitti; con i prezzi scendono anche occupazione e salari. Tutto questo non è teoria: è accaduto in Giappone nell’ultimo ventennio, la deflazione è l’anticamera di una depressione. (…). È significativa l’accoglienza trionfale che l’America progressista riserva a Thomas Piketty, l’economista francese autore di “Le Capital au XXI siècle” (Editions du Seuil). Riassumendo le sue conclusioni, Piketty evidenzia le cause dell’aumento secolare nelle diseguaglianze. La più importante di tutte è il rallentamento della crescita che automaticamente premia la rendita finanziaria e ogni sorta di rendimenti che vanno ai patrimoni già accumulati. In questo senso rilanciare la crescita è un imperativo prioritario, e tutti i mezzi sono validi. (…).

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