"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 8 ottobre 2014

Storiedallitalia. 63 “Un problema: sinistra non ha più significato”.



Ha scritto Nadia Urbinati in chiusura del Suo pregevolissimo “pezzo” che ha per titolo “I partiti sono vuoti perché i militanti non contano più niente”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica, di martedì 7 di ottobre 2014: Discutere delle politiche del partito, delle scelte da prendere o non prendere, in sostanza dei valori e dei principi che uniscono i militanti: questo significa dare a chi si schiera un senso di reale appartenenza e rilevanza. Significa anche concepire il partito come un luogo e un veicolo di educazione alla vita pubblica, alla deliberazione critica, alla leadership democratica. L’opposto, come si intuisce, di un partito plebiscitario e personalistico. Ma anche l’opposto di un partito vuoto. È che la trasformazione dei partiti come da sempre intesi di “collettivi” su base ampia di idee e di pensieri è avvenuta molto prima dell’avvento al potere del Renzi Matteo. I partiti “personali” o “padronali” ne hanno rappresentato un prodromo. Oggi si continua nel solco tracciato all’inizio degli anni novanta del secolo ventesimo smentendo così clamorosamente la vulgata del “cambiare verso”. Ciò che stupisce è che nessun segnale d’allarme scatta nella gran parte della pubblica opinione. E sì che segnali d’insofferenza giungono un po’ da tutte le parti: Livorno insegna, Bologna insegna, la Calabria, con il risultato delle primarie di domenica 5 di ottobre, insegna. Ma a chi?
Ma non è questo il punto. È che persiste una confusione di idee che non aiuta a dipanare l’intricata matassa. L’allegra combriccola al governo, per bocca di alcuni suoi poco autorevoli affiliati, continua a dichiarare ai quattro venti di ispirarsi alle politiche della “sinistra”. Ciò non turba la pubblica opinione. Come avviene in questi giorni sull’acconto del TFR. Quei dobloni sonanti che si lanciano per aria per catturare la (dis)attenzione dei più non ha nulla di quel grande tema proprio della “sinistra” che va per “giustizia sociale”, per “redistribuzione” più equa della ricchezza di un paese, per un riequilibrio nel rapporto tra colletti bianchi e maestranze che il liberismo dal liberismo reaganiano ha esasperato rendendolo insopportabile ed immorale. I dobloni, oggi sonanti elettoralmente, del TFR hanno rappresentato da sempre quel gruzzolo di risparmio proprio del lavoratore che ha consentito poi, una volta terminata l’attività lavorativa, di tappare i buchi di uno stato sociale disastrato ed inefficiente. Del resto si è andato sostenendo dall’anno 2088 – anno primo della crisi – che se non fosse esistito quel particolare “stato sociale” costituito dai gruzzoli dei nonni o dei padri ben difficilmente si sarebbe realizzata la “tranquillità sociale” della quale abbiamo goduto negli anni di “crisi”. La politica economica che si propone è in perfetta sintonia con il liberismo più sfrenato che ha attraversato il mondo intero e che, tanto per non dimenticarlo, ha generato la “crisi” attuale. È lo stesso liberismo sfrenato ed immorale che non ha saputo poi, a “crisi” conclamata, risanare le piaghe purulente create nel tessuto sociale. Nella generalità dei casi sono state le collettività che hanno dovuto far fronte al disastro finanziario. Il “pannicello caldo” che oggigiorno si vuole mettere in atto con la “rapina” del TFR è l’ennesima riprova di un governo che ha accantonato le idee proprie della “sinistra”: equità, solidarietà, redistribuzione della ricchezza, ascesa sociale. In un contesto ben delineato di reale “tradimento” delle idee della “sinistra” il dissolversi della forma partitica necessaria a quelle idee affinché avessero vita e gambe per andare avanti, forma partitica così ben delineata da Nadia Urbinati, quel dissolvimento torna auspicabile anzi, va sempre più incoraggiato. Ha scritto in proposito Gad Lerner, sempre sul quotidiano la Repubblica del 7 di ottobre - “La frontiera del trasformismo” -: (…). …per gestire senza esserne travolto questa fase di impoverimento forse inevitabile del lavoro dipendente, Renzi necessita di un partito della nazione piuttosto che di un partito della sinistra. Ovvero di un partito del leader capace di riunire gli italiani contro un nemico comune, da individuarsi nella tecnocrazia europea fautrice dell’austerità. Il Pd degli iscritti e delle primarie non può bastargli in questa operazione – politica a tutto tondo - di deregulation interna ed esterna. Senza voler dare a questo termine alcun significato morale negativo, Giovanni Orsina definisce tecnicamente “trasformistica” l’operazione completata da Renzi, con diretto riferimento alla conquista del Parlamento del Regno d’Italia riuscita un secolo prima a Giovanni Giolitti. Scrive Orsina che il premier “ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro” (La Stampa, 18/09/14). Così, profittando anche dell’evanescenza delle opposizioni, si è affermato come leader “inevitabile”. (…). Se il trasformismo renziano possa rappresentare la chance di un nuovo inizio, sul terreno decisivo dei rapporti di lavoro, è un azzardo che si svelerà ben presto. È sul “presto” auspicato dall’illustre notista, alla luce della storia politica del bel paese, che bisognerà misurare, un domani, il risultato nefasto dell’agire politico dell’oggi. Ritornando al pregevole “pezzo” di Nadia Urbinati: La situazione del Pd è (…) paradossale perché (…) si tratta di un partito che è un vero asso pigliatutto. Come ha detto Renzi, esso ha portato a casa risultati elettorali strabilianti a partire dalle elezioni europee. E resta nei sondaggi intorno al 40%. E intanto gli iscritti crollano, crolla l’affluenza alle primarie di fine settembre in Emilia-Romagna. L’assenteismo dilaga sia nelle sezioni che sotto i gazebo. Il Pd “governa il vuoto”, per parafrasare il titolo di un bel libro sulla fine del partito-partecipazione di Peter Mair (Ruling the Void). Perché quel che ancora chiamiamo “partito” ha subito una così radicale metamorfosi da assomigliare a una casta di notabili. Come spiegare questo “partito vuoto”? Forse cercando di mettersi nei panni di un potenziale militante. Perché un cittadino o una cittadina dovrebbe decidere di tesserarsi? Almeno tre sono le ragioni che lo scoraggiano. Prima di tutto per la pessima reputazione che ha il partito politico, anche secondo la leadership del Pd. E se il partito è un carrozzone e esserne parte equivale a meritarsi la rottamazione o la disistima, perché iscriversi? La seconda ragione sta nell’irrilevanza del ruolo dei militanti. È vero quel che dice Renzi, che è meglio produrre buone idee che tessere fasulle. E se le tessere non fossero fasulle? Ovvero, perché presumere l’alternativa tra avere tessere fasulle e buone idee? È chiaro che per diventare una fucina di idee un partito deve essere aperto al dialogo, al dibattito, ad una partecipazione che conta: ma i settemila e duecento circoli esistenti in Italia e all’estero sono pressoché inattivi. Ancora più triste il destino delle sezioni. Sembra che si sia persa l’abitudine al discorso pubblico e che parli o abbia voce solo chi decide, cioè chi sta dentro le istituzioni. La terza ragione completa questo quadro: i militanti non hanno potere neanche di decidere la leadership. E lo statuto lo conferma. Il primo articolo recita così: “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito non da chi ha una determinata idea politica, ma da chi ha diritto di voto, cioè potenzialmente da tutti gli italiani. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in sintonia con la sua natura democratica: non chiudere le paratie con la società, rendere il partito permeabile e aperto. Ma l’apparenza inganna. Questo ecumenismo è un problema non un pregio, perché disegna un partito che non vuole avere militanti ma solo votanti. E infatti in questa sua forma post-partitica, la figura più importante è quella dell’elettore (delle primarie), non dell’iscritto, che dovrebbe essere invece il vero protagonista del partito perché ha rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale “parte” sta. È per questa ragione che sarebbe ovvio supporre che le cariche di partito fossero oggetto di decisione solo da parte degli iscritti. A questa condizione diventare un militante avrebbe un senso. Ma se basta essere elettore, allora perché iscriversi? Apertura a tutti implica togliere potere a chi è militante. È evidente che lo statuto del Partito democratico ha un’impronta plebiscitaria, per cui il collettivo degli iscritti ha meno importanza del numero dei votanti. Anche per questa ragione la sua vita politica interna è nulla e il numero dei suoi iscritti crolla. (…). Ha scritto Silvia Truzzi su “il Fatto Quotidiano” del 5 di ottobre – “Un problema lo abbiamo risolto: sinistra non ha più significato” :- (…). …Openpolis, il sito che monitora l’attività dei parlamentari, c’informa che le larghe intese veleggiano alla grandissima. La comunità d’intenti di due tra le maggiori forze (al governo e all’opposizione) è altissima e la matematica ci viene in soccorso. In Senato i capigruppo di Forza Italia e Pd, Paolo Romani e Luigi Zanda, hanno una percentuale di votazioni comuni che sfiora il 91%. Matteo Richetti (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi), hanno votato allo stesso modo 1.605 volte: il voto convergente arriva all’86,4%. Il ministro Maria Elena Boschi (Pd) e l’onorevole Daniela Santanchè (FI) hanno una concordanza di opinioni pari all’81,5%. La percentuale di votazioni uguali tra il renziano Lorenzo Guerini e l’onorevole forzista Annagrazia Calabria tocca l’87%. Il desiderio di essere come tutti, ma proprio tutti. (…). …sono (i) numeri a dirci che la questione destra e sinistra, lungi dall’essere superata nei dibattiti, è semplicemente inutile. Un confronto fatto di slogan completamente svuotati di significato, e non perché i vecchi bacucchi nipotini di Togliatti non capiscono – come dicono i giovani virgulti che hanno preso il Palazzo d’inverno – che l’articolo 18 è un totem (qualche volta è anche un tabù, dipende dal dichiarante). (…). Il dibattito sta facendo (anzi: ha già fatto) la fine ingloriosa dell’infinita e ormai superflua querelle fascismo/antifascismo. Una brutta vicenda di rimozione collettiva, invenzione e mistificazione: finita la guerra abbiamo finto di averla vinta, ognuno si è inventato un fratello o un cugino partigiano (con gli anni diventato nonno), la Resistenza è diventata l’epica salvifica e opportunista di un paese sconfitto. La guerra santa combattuta da pochi e utilizzata, dopo, da molti. Ora siamo arrivati allo stesso punto: il dibattito è inutile perché le visioni della società – dunque i valori – dei due schieramenti sono sostanzialmente allineati. Fine delle ideologie, fine delle idee, diciamo fine anche alle finte categorie politiche. Così magari ci sentiamo anche un po’ meno presi in giro. (…) …sarà bene ricordarsi quel che già nel ‘94 cantava Gaber: “È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra”.

Nessun commento:

Posta un commento