"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 11 ottobre 2014

Oltrelenews. 4



Da “Il cassiere che poteva cambiare la storia” di Gianni Barbacetto, su “il Fatto Quotidiano” del 9 di ottobre 2014: Alla fine, la condanna è arrivata solo per lui. Roberto Buzio è l’ultimo “cassiere” delle tangenti della Prima Repubblica. È stato per 15 anni il segretario di Giuseppe Saragat e poi, dopo la sua morte, ha continuato a lavorare per il Psdi, il Partito socialdemocratico italiano. Allo scoppio di Mani Pulite è scappato dall’Italia, per evitare l’arresto. Da allora vive in Alta Savoia, in Francia. Nel marzo 2012 ha rilasciato a il Fatto Quotidiano un’intervista in cui ha rivelato episodi inediti di Tangentopoli di cui era stato protagonista. “Antonio Cariglia, ultimo presidente del Psdi, mi chiese di andare da alcuni imprenditori a raccogliere contributi per il partito. Tra questi, c’era anche Silvio Berlusconi, che fino al 1992 ha sostenuto i partiti della Prima Repubblica. Ho ricevuto diversi contributi di Berlusconi dalle mani di Gianni Letta. L’ultimo, a ridosso delle elezioni dell’aprile 1992. Lo andai a ritirare in un ufficio nel centro di Milano”. Negli archivi di Mani Pulite c’è la traccia di una tangente pagata da Letta a Buzio: 70 milioni di lire, versati nel 1989. Anche Letta l’ha ammessa, in un interrogatorio all’allora pm della procura di Milano Antonio Di Pietro. Ma tutto è coperto dalla provvidenziale amnistia che arrivò quell’anno. “La storia però era diversa: intanto i milioni non erano 70, bensì 200″, ha raccontato Buzio al Fatto. “E poi rivelammo solo quella dazione, d’accordo con i nostri avvocati, perché sapevamo che era coperta dall’amnistia. Eppure i pagamenti continuarono fino al 1992. Erano parecchie centinaia di milioni. Non solo, nell’ambiente sapevamo che a riscuotere non era soltanto il Psdi: Berlusconi sosteneva tutto il pentapartito”. Troppo tardi. L’avesse raccontata nel 1993, forse la storia italiana sarebbe andata diversamente.
Forse ci saremmo risparmiati il ventennio berlusconiano. Invece Buzio si sfoga solo nel 2012, per protestare contro quelli che, a differenza di lui, sono passati indenni dalla Prima alla Seconda Repubblica. “Io andavo solo a prenderli, i soldi”, dice oggi più amareggiato che mai, “e ho dovuto scappare in Francia e diventare cittadino francese. Quelli che invece li usavano sono ancora lì”. Fa i nomi di alcuni big del suo partito, il Psdi, che sono passati nel fronte berlusconiano. Carlo Vizzini, per esempio. “E Simona Vicari? Ce la siamo inventata io e Vizzini”. Oggi è sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico del governo di Matteo Renzi, in quota Ncd. “Ed Enrico Ferri? L’ho portato io al partito e l’ho presentato a Saragat. Divenne ministro e segretario del Psdi. Ora suo figlio, Cosimo, è sottosegretario alla Giustizia e siede a fianco dei carnefici di suo padre”. La settimana scorsa, Buzio è stato condannato: per diffamazione, proprio per l’intervista concessa due anni fa al Fatto. Un anno di reclusione sostituito con due anni di libertà controllata, più il pagamento di 16 mila euro al querelante che lo ha portato in giudizio: Antonio Di Pietro, nei cui confronti Buzio aveva avuto parole dure, sostenendo, nell’intervista, che i pm di Mani Pulite agivano colpendo qualcuno e salvando altri. Si salvarono, in verità, quelli su cui non furono trovate prove. Tra questi Berlusconi e Letta, che la scamparono anche perché Buzio, “d’accordo con gli avvocati”, rivelò soltanto le tangenti coperte dall’amnistia. Ora l’ultimo dei “cassieri” continua a raccontare quella che ritiene la sua verità nel suo sito web (“Dalla Francia con amore”, www.robertobuzio.fr). E ripete: “Cosa crede? Che non sarei potuto andare anch’io da Berlusconi, negli anni scorsi? Ora sarei deputato. Ma a me interessa ristabilire la verità storica. Lo farò, a ogni costo”.

Da “Il fantasma della peste” di Adriano Prosperi, sul quotidiano la Repubblica del 9 di ottobre 2014: In Africa occidentale si moriva da tempo a causa di Ebola. Ma si voltavano le spalle, si diceva che tutto era sotto controllo. Non era vero. Finché l’8 agosto scorso l’Organizzazione mondiale della santità per bocca del suo direttore ha dichiarato che siamo in piena emergenza internazionale. E oggi, nei nostri Paesi, basta un nome di un sospetto contagiato per scatenare un’ansia spaventosa. Nessun uomo, nessuna donna è un’isola: questo è certo e indiscutibile, soprattutto ai nostri tempi. Ma questo si traduce nel fatto che quando si tratta di Ebola basta un nome a fare l’effetto di un sasso nello stagno. Le onde che se ne dipartono sono le isoipse di un altro contagio, diverso da quello del virus e a diffusione assai più rapida: quello della paura. Che effetti può fare la paura? Il più evidente lo vediamo nella deformazione del modo di percepire gli spazi del mondo. All’improvviso l’idea di un mondo più piccolo, senza confini, senza frontiere, ha perduto l’alone di ottimismo che circondò pochi anni fa l’idea della mondializzazione: si è rovesciato nel suo opposto, appare come una minaccia, ci fa regredire col desiderio al tempo dei viaggi lenti per mare e per terra, delle lunghe soste in quarantena nei porti di mare. Oggi sono i porti dell’aria, gli aeroporti, a trovarsi nella tempesta. Si guarda a loro come alla falla irrimediabile della nostra sicurezza: guardiamo al nostro vicino d’aereo col dubbio: chissà da quale remoto contatto col mondo africano è arrivato proprio lì, accanto a noi. E l’idea della quarantena si affaccia, suggerita dall’esperienza storica e dalle norme sanitarie elaborate nei secoli. Quarantena significa sospensione della vita, attesa, paura. Tutte cose in conflitto col ritmo turbinoso della vita nel mondo attuale. Isolamento, osservazione: tempi lunghi da trascorrere in un mondo alieno, abitato da presenze che non hanno niente di umano. Le fotografie mostrano esseri con tute da astronauta, maschere, attrezzature per trattare a distanza corpi pericolosi. Tutto questo non è nuovo. Abbiamo immagini della grande peste del 1630 a Venezia che mostrano esseri mostruosi: volti nascosti dietro una maschera con occhialoni e una specie di lungo becco adunco al posto del naso, corpi coperti da vesti lunghe fino a terra, stivaloni, guanti enormi. Era la tenuta di sicurezza dei medici: dentro il becco tenevano foglie di rosmarino, bacche di ginepro, spicchi d’aglio, per non sentire il fetore dei corpi dei malati. In mano, avevano un lungo bastone per sollevare lenzuoli e scoprire corpi. Intanto gli appestati erano isolati sull’isola del Lazzaretto Vecchio; e chi aveva avuto contatti con loro era confinato su quella del Lazzaretto Nuovo. Per chi trasgrediva le regole igieniche e alimentari, c’era una forca eretta su di una nave. Intanto i morti si ammassavano nelle case e chi poteva ne gettava i corpi dentro le apposite barche che passavano nei canali. Quell’epidemia devastò città e campagne dell’Italia centro-settentrionale. Rimase celebre quella di Milano. La grande letteratura che riesce a far rivivere il presente nascosto sotto i panni del passato ce ne ha offerto un’idea coi Promessi sposi del Manzoni: anche, se non di più, con la sua Storia della colonna infame . Senza il terrore che dominava le menti, senza il sospetto e l’odio che avvelenavano i rapporti umani, non ci sarebbe stato nel 1630 il mostruoso processo contro il barbiere Gian Giacomo Mora e il commissario di sanità Guglielmo Piazza. Dietro il vicino, il passante qualsiasi, si vedeva l’untore, l’avvelenatore che dissemina deliberatamente il contagio. E ben prima dei due sfortunati milanesi tanti altri avevano pagato con la vita il sospetto di essere i colpevoli delle epidemie di peste. Gli eretici, i bestemmiatori, le prostitute attiravano l’ira di Dio, alla fine toccò anche ai malati di Aids. Nella serie dei capri espiatori non potevano mancare gli ebrei: furono loro a finire sui roghi quando la Peste Nera del 1348 devastò l’Europa. Fu quello il momento capitale dell’esperienza della fragilità della specie, l’attacco che mise a rischio la sopravvivenza stessa degli esseri umani in una vasta e progredita area continentale. A quel momento storico ci si deve rivolgere sempre come al laboratorio degli effetti devastanti di un’epidemia: non solo per la dimensione apocalittica del fenomeno, che apparve allora misterioso e incomprensibile se non rifacendosi all’idea dell’ira di un Dio da placare con penitenze e purgazione della società dai membri sospetti. Ma anche e soprattutto per capire quali siano gli effetti della paura del contagio. I cronisti della Peste Nera ce lo hanno detto: Matteo Villani scrisse che «le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti». E più d’ogni altra fonte storica è un scrittore della grandezza di Giovanni Boccaccio che vale la pena di rileggere a questo proposito: «L’un fratello l’altro abbandonava, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». Ecco il punto: l’esperienza del terrore può dissolvere i vincoli più sacri fra gli esseri umani. L’aggressione di un nemico invisibile, di una minaccia mortale senza riparo, può davvero trasformare l’essere umano in lupo per il suo simile. E oggi Ebola minaccia di rinnovare questa esperienza: all’abisso già esistente tra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo, oggi si aggiunge la minaccia di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri rapporti umani abituali. (…).

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