"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 28 luglio 2014

Cronachebarbare. 30 “Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi”.



Proviamo a dipanar la matassa. Ché, per il dizionario Sabatini-Coletti, sta per “avvolgere in gomitolo il filo dalla matassa”, onde averne un capo che inizio ha, ma anche “risolvere una questione complicata”.  Non è detto che si riesca. E la “questione complicata” è la politica del bel paese. Sono passati venti anni dalla infausta “discesa in campo”. Sappiamo oramai quanto siano costati quei venti anni di politica gridata, di annunci senza realizzazioni, di insulti a chi esprimesse opinioni diverse, ma bastava pure, non esprimendo opinioni contrarie, essere individuati come appartenenti all’altro campo. È pur vero che dalla parte avversa si registravano timide obiezioni, un sommesso tintinnar di spade di cartone, un rullare di tamburi muti. A quell’atteggiamento che sembrava rinunciatario allora oggigiorno vien proprio da attribuire un significato ben diverso. Poiché chi sta ora a condurre la cosa pubblica riproduce e rivitalizza quegli atteggiamenti fintamente osteggiati. È qui che dipanar la matassa riesce difficile assai. Poiché nel campo che ha prima rappresentato la cosiddetta opposizione si mettono oggi in atto gli stessi strumenti e gli stessi comportamenti che prima, fintamente, si detestavano. Ha scritto Marco Travaglio – “Il guappo di cartone” – su “il Fatto quotidiano” di ieri 27 di luglio, ricordando amorevolmente il Suo indimenticato maestro Indro Monanelli a tredici anni dalla scomparsa: Berlusconi gli stava simpatico. Ma ciò che subito lo allarmò, non appena nell’estate ‘93 quello gli preannunciò la sua “discesa in campo”, fu la miscela esplosiva che sarebbe nata fra i tratti caratteriali del suo ex editore e la voglia di padrone che alberga nella pancia di una certa Italia. Quella che aveva fatto dire a un altro rabdomante, Mussolini: “Come si fa a non diventare padroni in un paese di servi?”. Fra il Duce e il Cavaliere ci fu un altro politico italiano che provò a diventare padrone, e per un po’ ci riuscì: Craxi. Nel 1983, quando andò al governo, Montanelli sul Giornale lo salutò così: “Come uomo di partito, Craxi ha certamente grossi numeri. Come uomo di Stato, è tutto da scoprire… È arrogante, un po’ guappesco e sembra avere del potere un concetto alquanto padronale… Craxi ha una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i politici immuni da questo vizio. Ma alcuni sanno almeno mascherarlo. Craxi è di quelli che l’ostentano sino a esporsi all’accusa di ‘culto della personalità’… che potrebbe procurargli guai seri. Non perché a noi italiani certi atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché in fatto di guappi siamo diventati, dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”. E così fu: alla protervia di Craxi, che eccitava gl’intellettuali, gli italiani preferivano il grigio e molliccio understatement dei democristiani, che sapevano gestire il potere senza quasi farsene accorgere. Soltanto B., grazie al fascino del denaro, del successo e delle tv, riuscì a far digerire per vent’anni il suo guappismo molesto. Chissà cosa direbbe Montanelli oggi del suo quasi concittadino Renzi, rara avis di democristiano che posa un po’ da Craxi e un po’ da B. Certo, il ritratto di Bettino gli calza a pennello. Tranne forse la profezia finale: a giudicare dalle Europee, si direbbe che ne vogliamo un altro, di guappo di cartone. Renzi ne è convinto e ci marcia. Ma esagera.
È che, quando quelli oggigiorno al governo stavano a fare la finta opposizione lanciando forti lai (quasi sempre senza suono alcuno) alle intemerate di quell’altro, ai tentativi di quello di stravolgere gli assetti istituzionali, le regole e quant’altro afferisce alla vita associata di un paese dell’Occidente, oggigiorno sfoderano quanto appreso a menadito facendo quella che può a buona ragione essere definita una finta opposizione. Non si sono spenti ancora l’eco lontana del loro inveire ed il loro chiamar alla difesa della Costituzione - che è la più bella del mondo -, quel loro inutile blaterare al pericolo del “populismo demagogico” dell’altro, pur avendo nelle loro file fior di pensatori che avrebbero dovuto irrobustire le loro incerte coscienze. Poiché è avvenuto che il 10 di settembre dell’anno 2012 un tale, Michele Ciliberto, grande pensatore, pubblicava sul quotidiano l’Unità un “pezzo” storico che ha per titolo “Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi”. Sarà di certo sfuggito, il “pezzo” intendo dire, alla “nouvelle vague” oggi al potere. È che Michele Ciliberto oggi sarebbe indicato come un “professorone”. O un “rosicone”. O un “gufo”. Termini che non hanno ancora raggiunto la trivialità che ha dominato il ventennio precedente. Scriveva Michele Ciliberto che… È sbagliato (…) pensare che il populismo riguardi solo il nostro Paese, così come è stato un errore ritenere che il berlusconismo fosse un fatto solo italiano. Quella che è stata definita «democrazia dispotica» è infatti qualcosa che riguarda molti Paesi europei e una generale patologia della democrazia; non è, come qualcuno ha detto, la pura e semplice «autobiografia» della nazione italiana. (…). Le parole, (…), quando vengono usate in modo generico e approssimativo perdono forza analitica, anzi servono a confondere le acque invece di chiarirle. Da questo punto di vista ci sono alcuni elementi preliminari. Anzitutto è da tener presente che i blocchi sociali e politici che hanno caratterizzato ampia parte della storia del Novecento, compresa quella della cosiddetta prima Repubblica, sono venuti meno. Nel definire queste trasformazioni si sono impegnati sociologi (la società liquida) ma anche psicologi (la crisi della figura del padre, la caduta del principio di autorità), ma il «fatto» nella sua durezza è sotto gli occhi di tutti. Non esistono più blocchi sociali compatti che si esprimono, organicamente e in modo diretto, in partiti e in scelte politiche. Tanto meno vi sono organizzazioni politiche che siano nomenclature delle classi. Il che non significa che non esistano più classi o che non ci sia più lotta di classe. Ma come è cambiata la configurazione delle classi, così è mutato il rapporto tra economia e politica, e soprattutto è mutata la relazione tra dinamiche economico-sociali e rappresentanza politica. Questo credo sia il problema di fondo su cui occorre riflettere. Questi processi in Italia sono stati ampiamente rappresentati, e potenziati, dal berlusconismo, il quale è al tempo stesso un effetto e una concausa di questa situazione. (…). In Italia questi processi si sono accompagnati alla fine della politica di massa, delle culture politiche dell’antifascismo, e all’imporsi sia di nuove modalità della lotta politica (il leaderismo) sia di nuovi e inediti modelli di relazioni con le parti sociali. Ciò ha comportato anche il consumarsi, nelle vecchie forme, del concetto di destra e di sinistra. È un fenomeno di vasta portata, anche sul piano strettamente ideologico e culturale. (…). …questo cambiamento è stato possibile dal venire meno, e poi dal dissolversi anche a sinistra, dei criteri di un’analisi materiale della situazione e dei rapporti sociali e politici e dall’imporsi di un sistematico rovesciamento del rapporto tra apparenza e realtà. Si è persa la capacità di distinguere, cioè di capire. Sta qui una delle radici essenziali del populismo sul piano ideologico. Ne è conseguito un offuscamento nella capacità di comprendere, afferrare e contrastare la sostanza dei processi storici sia in Italia che a livello mondiale, con il diffondersi di un forte provincialismo sul piano politico e culturale. Soprattutto ne è conseguito, specie a sinistra, un progressivo ritirarsi verso impostazioni e prospettive di tipo moralistico, che, se da un lato possono garantire consenso, dall’altro sono del tutto impotenti come «strumenti» di trasformazione della realtà: si finisce, infatti, con il guardare alla realtà dal «buco della serratura». Esistono molte forme di populismo, ma esse hanno tutte alcuni elementi in comune: la critica, anzi il disprezzo, verso la democrazia rappresentativa e i suoi strumenti; il rigetto della mediazione e quindi della politica; l’identificazione dell’avversario con il nemico; la riduzione del lessico a puri insulti, (…). Per questo parlare del populismo significa affrontare il problema della democrazia e del suo destino; (…). Se si vuole prospettare il futuro occorre sollevare lo sguardo ai grandi problemi e ricordarsi, ogni tanto, che c’è anche quella che si chiama «alta politica». Così scriveva Michele Ciliberto. Ma che senso ha per la “nouvelle vague” al potere andare a leggere Michele Ciliberto? Ma il pericolo della «democrazia dispotica» è reale. Ha scritto Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” di ieri 27 di luglio – “Il senso di Renzi per lo scazzo” -: Più che le riforme Renzi sembra agognare lo scontro, il casino, l’immagine del cantiere bloccato dai nemici del nuovo mentre gufi e sciacalli complottano a difesa della conservazione dei loro laidi interessi personali. Poi, al momento giusto si rivolgerà agli italiani che già ne hanno le scatole piene delle lungaggini della politica e dei politici formato casta e sarà un plebiscito. In un certo senso, gli oppositori stanno lavorando per lui. Ma è così chiaro. Ma la mia parte politica – che sarebbe poi quella del Renzi - ha pensato bene a sostenerlo “purché si vinca”. Costi quel che costi.  

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