"A fianco: Telemaco e Calipso".
Rubo l’incipit di un pensiero del bravissimo Gianni
Mura che si può sempre leggere a pie’ di pagina di questo blog: “mettiamola
così”. “Mettiamola così”, ma dal Renzi Matteo non mi è mai pervenuto
un refolo di simpatia. Non so per voi. È che il suo parlare, o sproloquiare, continua
nello stesso verso del ventennio tenebroso che siamo stati chiamati a subire. È
che il suo irridente idioma fatto di “professoroni”, “rosiconi” e facezie
varie mi rimanda a quella benemerita pubblicazione che è “Il Vernacoliere” che, come riportato in testata, è un “Mensile
di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano”.
Ecco, avrei pensato ad un Renzi Matteo molto ben inserito in quella redazione
gloriosa. Ché del resto condivide, con l’arrembante primo ministro, la
regionalità. È chiaro che il Renzi Matteo debba necessariamente affidarsi ad
una squadra di “ghostwriter”, lautamente ricompensati, affinché il suo parlare
si ammanti di una conoscenza profonda che suppongo non gli appartenga. Ma come
quel cavaliere che lo ha preceduto nel ventennio decorso utilizza linguaggi ed
atteggiamenti che non hanno nulla con quel “cambiamento di verso” che vanagloriosamente
ed impudentemente assicura di aver impresso al bel paese. Poiché al bel paese
un Renzi Matteo che mandi cultura e garbo a quel paese è figura sempre ben
accolta.
Scriveva Giovanni
Valentini - “Il bunga bunga come ideologia” – sul quotidiano la
Repubblica del 6 di novembre dell’anno 2010: “Al fondo c'è l'ipertrofia di un insano egoismo che declina via via in
narcisismo, machismo, sessismo. E che non distingue soltanto la Mala Italia
dalla Buona Italia, quella della responsabilità e della solidarietà, (…); ma in
quanto categoria esistenziale pretende ormai di distinguere anche la destra
dalla sinistra. (…). Dopo
aver plasmato per un quarto di secolo il senso comune, attraverso quella che
Eugenio Scalfari definisce la diseducazione di massa prodotta dall'imbonimento
televisivo, il paradosso è che oggi il popolo dei teledipendenti continua a
identificarsi proprio in quel modello propinato e imposto dalla concentrazione
della tv commerciale. A Sua immagine e somiglianza, si potrebbe dire, se
l'accostamento non
risultasse blasfemo. Come la televisione pubblica aveva favorito a partire
dagli anni Cinquanta l'omologazione
culturale e sociale degli italiani, così la televisione privata ha innescato
dalla metà degli anni Ottanta una progressiva degenerazione del linguaggio, dei
consumi e dei costumi. Berlusconi parla come la sua tv ha abituato la maggior
parte dei cittadini - quelli che non leggono solitamente né giornali né libri -
a parlare. Pensa e dice le cose che la gente si aspetta che il premier-tycoon
pensi e dica: dalle tasse all'immigrazione,
dalle donne ai neri, dagli ebrei ai gay. E perciò è ancora incline a credere
alle sue promesse, alle sue versioni di comodo e perfino alle sue bugie”. Ne deriva che il corso
nuovo che avremmo dovuto veder spuntare come novello sole dell’avvenire è
invece un sole pallido pallido. Come non accorgersene se non perché privati,
come lo si è in gran numero, di quella robusta coscienza democratica e di
quella solida formazione civica e culturale che dovrebbe contraddistinguere un
paese avanzato? Attecchisce a fa presa invece quel linguaggio che irride ai “professoroni”
che hanno e fanno cultura e che indica al pubblico ludibrio i “soi-disant”
“rosiconi”
rei d’opporsi alla mortificazione del linguaggio ed alla “scarnificazione del pensiero”
personale e collettivo. Ne ha scritto Antonello Caporale su “il Fatto
Quotidiano” del 15 di giugno ultimo col titolo “Noi vogliamo: il dizionario del rottamatore”. Ha scritto Antonello
Caporale: È bello: si può cambiare verso a tutte le ore e in ogni modo. Il
piemontese Chiamparino appena eletto governatore guarda in casa sua: “Voglio
far cambiare verso al Piemonte”. Il perugino Guasticchi, appena sconfitto: “Noi
dobbiamo cambiare verso all’Umbria”. Anche ad Ascoli Piceno si sono battuti per
cambiare verso. Figurarsi a Roma. Noi. Quasi sempre si parte col noi. Fa
comunità, democrazia, condivisione, sintesi. Si aggiunge un vogliamo. È un
verbo volitivo, positivo, intransigente e ottimista. Vogliamo cosa? Cambiare,
naturalmente. Il lessico renziano è basico, è una proposizione elementare, un
dispositivo multifunzione. La frase inizia nello stesso modo tutte le sante
mattine, e finisce allo stesso modo ogni sera. Muta il finale per necessità ma
si nota che è questione accessoria. Bisogna anzitutto cambiare. (…). Il
fenomeno del copia/incolla lessicale è un altro elemento che dà velocità al
mondo renziano e risolve il comando in una sola parola. Ascoltato lui è fatta.
Si sa già che i collaboratori edificheranno il pensiero nello stesso modo, con
la medesima postura e uguale vocabolario alla mano. Renzi: “Siamo qui per
cambiare le cose non per annunciarle”. Simona Bonafè, eurodeputata: “Siamo qui
per cambiare le cose non per annunciarle”. Renzi: “Non accettiamo diritti di
veto da Mineo”. Pina Picierno, eurodeputata: “Non accettiamo che Mineo tenga in
ostaggio il partito”. Renzi: “Il partito ha discusso e votato non una ma tre
volte”. Luigi Zanda, capogruppoo al Senato: “Il partito ha discusso e votato
non una ma quattro volte”. Renzi: “L’Italia ci chiede di fare le riforme”.
Maria Elena Boschi, ministro: “È l’Italia che ci ha chiesto di fare le
riforme”. Renzi: “Abbiamo una grande responsabilità. Alessandra Moretti,
eurodeputata: “La nostra responsabilità è grandissima”. Renzi: “Il voto delle
primarie è stato chiaro”. Debora Serracchiani: “Il voto delle primarie è stato
chiarissimo”. Renzi dopo le europee: “Vogliamo cambiare l’Europa”. Il ministro
Poletti: “Vogliamo cambiare l’Europa”. (…). Era dicembre e Stefano Fassina,
allora viceministro del governo Letta, si ribellò al neosegretario. “Fassina
chi?”, chiese Matteo. L’interrogativo ebbe un successone. Il poveretto fu
asfaltato in due giorni. Si dovette dimettere e la sua figura divenne una
nebulosa, l’immagine svanì e fu dichiarato il diritto all’oblio. Adesso, con
l’insubordinazione di Mineo, il rapporto di forza si è fatto spaventoso e
allora Renzi nemmeno si è degnato di utilizzare la spada dell’interrogativo. Il
chi? è passato nella bocca di Dario Nardella, neosindaco di Firenze. La
scenetta è stata preparata con cura: fila di microfoni, domanda su Mineo, un
attimo di attesa. Sorrisino anticipatore e poi bum: Mineo chi? ha risposto
Nardella dileguandosi immediatamente, cosicchè l’effetto fulmine è stato ancora
più devastante. Mineo è morto all’istante, bruciato da un numero due, o forse
tre del partito. (…). Di Matteo ce ne era uno, da oggi due. Anche Orfini, il
neo presidente dell’assemblea, un oppositore a modo, ha lo stesso nome del caro
leader. Che tira il filo delle riforme, e ne tratteggia la prospettiva, la
forza del cambiamento, la vastità dell’innovazione con un terzo Matteo, il
leghista Salvini. Tutto, come si vede, nel segno della semplificazione, della
velocità, di non dare spazio ai dubbi e alle ostruzioni. Un Matteo tira
l’altro, e finalmente si cambia verso. E poi c’è stato il “ghostwriter”
di turno che gli ha parlato di Telemaco. Gli avrà chiesto il Renzi
Matteo: “Telemaco, chi?”. Ma poi, superata la sorpresa, “Telemaco”
qui, “Telemaco”
là. Opera meritoria ha fatto Massimo Recalcati che sul quotidiano la Repubblica
– “La missione di Telemaco” - del 3
di luglio ha alzato i veli da quella mitologica figura. Ma con cultura. Ha scritto
Massimo Recalcati: Telemaco si configura (…) come l’immagine del figlio giusto, cioè del
giusto erede. Essere figli giusti, essere giusti eredi, significa riconoscere
il debito simbolico con chi è venuto prima di noi. È entrare in una relazione
generativa con i nostri avi.(…). Il riconoscimento del debito è la condizione
necessaria per essere giusti eredi. Ma Telemaco e con lui le nuove generazioni,
sa bene che l’eredità non è acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni.
Piuttosto — (…) — per possedere davvero quello che i padri hanno lasciato devi
riconquistarlo. È questo il movimento più autentico dell’ereditare. Ecco perché
Telemaco non è solo una figura della nostalgia. Egli non si limita ad attendere
dal mare il ritorno glorioso del padre per riportare la Legge ad Itaca offesa
dai Proci. Non assomiglia per nulla ai personaggi beckettiani di Aspettando
Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. È necessario
invece che il figlio si cimenti nel suo proprio viaggio e che corra il pericolo
più grande, è necessario che sfidi il mare. È con il viaggio di Telemaco e non
con quello di Ulisse che si apre l’Odissea di Omero. I Proci attentano la vita
del figlio che vuole ristabilire la Legge nella sua città. Eppure i nostri
figli — (…) — , diversamente da Telemaco, non sono figli di re, non ereditano
regni. Piuttosto viene lasciato loro un mondo incerto, senza futuro e senza
speranza. Ma il figlio giusto, il giusto erede, è anche colui che sa assumere
fino in fondo la propria responsabilità. L’etimologia del termine erede — (…) —
viene infatti dal greco cheros che significa spoglio, deserto, mancante e che
rinvia a orphanos, orfano. Questo significa che è solo il viaggio del figlio
che rende possibile la fondazione di una nuova alleanza tra le generazioni. Il
nostro tempo non è il tempo degli adulti che non esistono più e di cui la crisi
della politica è stata una delle manifestazioni più acute. I padri si sono persi
nella maschera paradossale di una giovinezza che non vorrebbe mai finire
confondendosi coi loro figli. La notte dei Proci che ha caratterizzato i nostri
ultimi venti anni è anche la notte di una caduta della differenza simbolica tra
le generazioni. Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio: Telemaco,
diversamente da Edipo non vuole la pelle del padre, non rifiuta la filiazione,
non entra in un conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge
ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni.
Massimo Recalcati chi? Un “professorone”!
Un saluto affettuoso. Siamo politicamente in sintonia. Franca.
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