"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 5 luglio 2014

Cosecosì. 84 “La missione di Telemaco”.



"A fianco: Telemaco e Calipso". 

Rubo l’incipit di un pensiero del bravissimo Gianni Mura che si può sempre leggere a pie’ di pagina di questo blog: “mettiamola così”. “Mettiamola così”, ma dal Renzi Matteo non mi è mai pervenuto un refolo di simpatia. Non so per voi. È che il suo parlare, o sproloquiare, continua nello stesso verso del ventennio tenebroso che siamo stati chiamati a subire. È che il suo irridente idioma fatto di “professoroni”, “rosiconi” e facezie varie mi rimanda a quella benemerita pubblicazione che è “Il Vernacoliere” che, come riportato in testata, è un “Mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano”. Ecco, avrei pensato ad un Renzi Matteo molto ben inserito in quella redazione gloriosa. Ché del resto condivide, con l’arrembante primo ministro, la regionalità. È chiaro che il Renzi Matteo debba necessariamente affidarsi ad una squadra di “ghostwriter”, lautamente ricompensati, affinché il suo parlare si ammanti di una conoscenza profonda che suppongo non gli appartenga. Ma come quel cavaliere che lo ha preceduto nel ventennio decorso utilizza linguaggi ed atteggiamenti che non hanno nulla con quel “cambiamento di verso” che vanagloriosamente ed impudentemente assicura di aver impresso al bel paese. Poiché al bel paese un Renzi Matteo che mandi cultura e garbo a quel paese è figura sempre ben accolta. 
Scriveva Giovanni Valentini  - Il bunga bunga come ideologia” – sul quotidiano la Repubblica del 6 di novembre dell’anno 2010: Al fondo c'è l'ipertrofia di un insano egoismo che declina via via in narcisismo, machismo, sessismo. E che non distingue soltanto la Mala Italia dalla Buona Italia, quella della responsabilità e della solidarietà, (…); ma in quanto categoria esistenziale pretende ormai di distinguere anche la destra dalla sinistra. (…). Dopo aver plasmato per un quarto di secolo il senso comune, attraverso quella che Eugenio Scalfari definisce la diseducazione di massa prodotta dall'imbonimento televisivo, il paradosso è che oggi il popolo dei teledipendenti continua a identificarsi proprio in quel modello propinato e imposto dalla concentrazione della tv commerciale. A Sua immagine e somiglianza, si potrebbe dire, se l'accostamento non risultasse blasfemo. Come la televisione pubblica aveva favorito a partire dagli anni Cinquanta l'omologazione culturale e sociale degli italiani, così la televisione privata ha innescato dalla metà degli anni Ottanta una progressiva degenerazione del linguaggio, dei consumi e dei costumi. Berlusconi parla come la sua tv ha abituato la maggior parte dei cittadini - quelli che non leggono solitamente né giornali né libri - a parlare. Pensa e dice le cose che la gente si aspetta che il premier-tycoon pensi e dica: dalle tasse all'immigrazione, dalle donne ai neri, dagli ebrei ai gay. E perciò è ancora incline a credere alle sue promesse, alle sue versioni di comodo e perfino alle sue bugie. Ne deriva che il corso nuovo che avremmo dovuto veder spuntare come novello sole dell’avvenire è invece un sole pallido pallido. Come non accorgersene se non perché privati, come lo si è in gran numero, di quella robusta coscienza democratica e di quella solida formazione civica e culturale che dovrebbe contraddistinguere un paese avanzato? Attecchisce a fa presa invece quel linguaggio che irride ai “professoroni” che hanno e fanno cultura e che indica al pubblico ludibrio i “soi-disant” “rosiconi” rei d’opporsi alla mortificazione del linguaggio ed alla “scarnificazione del pensiero” personale e collettivo. Ne ha scritto Antonello Caporale su “il Fatto Quotidiano” del 15 di giugno ultimo col titolo “Noi vogliamo: il dizionario del rottamatore”. Ha scritto Antonello Caporale: È bello: si può cambiare verso a tutte le ore e in ogni modo. Il piemontese Chiamparino appena eletto governatore guarda in casa sua: “Voglio far cambiare verso al Piemonte”. Il perugino Guasticchi, appena sconfitto: “Noi dobbiamo cambiare verso all’Umbria”. Anche ad Ascoli Piceno si sono battuti per cambiare verso. Figurarsi a Roma. Noi. Quasi sempre si parte col noi. Fa comunità, democrazia, condivisione, sintesi. Si aggiunge un vogliamo. È un verbo volitivo, positivo, intransigente e ottimista. Vogliamo cosa? Cambiare, naturalmente. Il lessico renziano è basico, è una proposizione elementare, un dispositivo multifunzione. La frase inizia nello stesso modo tutte le sante mattine, e finisce allo stesso modo ogni sera. Muta il finale per necessità ma si nota che è questione accessoria. Bisogna anzitutto cambiare. (…). Il fenomeno del copia/incolla lessicale è un altro elemento che dà velocità al mondo renziano e risolve il comando in una sola parola. Ascoltato lui è fatta. Si sa già che i collaboratori edificheranno il pensiero nello stesso modo, con la medesima postura e uguale vocabolario alla mano. Renzi: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Simona Bonafè, eurodeputata: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Renzi: “Non accettiamo diritti di veto da Mineo”. Pina Picierno, eurodeputata: “Non accettiamo che Mineo tenga in ostaggio il partito”. Renzi: “Il partito ha discusso e votato non una ma tre volte”. Luigi Zanda, capogruppoo al Senato: “Il partito ha discusso e votato non una ma quattro volte”. Renzi: “L’Italia ci chiede di fare le riforme”. Maria Elena Boschi, ministro: “È l’Italia che ci ha chiesto di fare le riforme”. Renzi: “Abbiamo una grande responsabilità. Alessandra Moretti, eurodeputata: “La nostra responsabilità è grandissima”. Renzi: “Il voto delle primarie è stato chiaro”. Debora Serracchiani: “Il voto delle primarie è stato chiarissimo”. Renzi dopo le europee: “Vogliamo cambiare l’Europa”. Il ministro Poletti: “Vogliamo cambiare l’Europa”. (…). Era dicembre e Stefano Fassina, allora viceministro del governo Letta, si ribellò al neosegretario. “Fassina chi?”, chiese Matteo. L’interrogativo ebbe un successone. Il poveretto fu asfaltato in due giorni. Si dovette dimettere e la sua figura divenne una nebulosa, l’immagine svanì e fu dichiarato il diritto all’oblio. Adesso, con l’insubordinazione di Mineo, il rapporto di forza si è fatto spaventoso e allora Renzi nemmeno si è degnato di utilizzare la spada dell’interrogativo. Il chi? è passato nella bocca di Dario Nardella, neosindaco di Firenze. La scenetta è stata preparata con cura: fila di microfoni, domanda su Mineo, un attimo di attesa. Sorrisino anticipatore e poi bum: Mineo chi? ha risposto Nardella dileguandosi immediatamente, cosicchè l’effetto fulmine è stato ancora più devastante. Mineo è morto all’istante, bruciato da un numero due, o forse tre del partito. (…). Di Matteo ce ne era uno, da oggi due. Anche Orfini, il neo presidente dell’assemblea, un oppositore a modo, ha lo stesso nome del caro leader. Che tira il filo delle riforme, e ne tratteggia la prospettiva, la forza del cambiamento, la vastità dell’innovazione con un terzo Matteo, il leghista Salvini. Tutto, come si vede, nel segno della semplificazione, della velocità, di non dare spazio ai dubbi e alle ostruzioni. Un Matteo tira l’altro, e finalmente si cambia verso. E poi c’è stato il “ghostwriter” di turno che gli ha parlato di Telemaco. Gli avrà chiesto il Renzi Matteo: “Telemaco, chi?”. Ma poi, superata la sorpresa, “Telemaco” qui, “Telemaco” là. Opera meritoria ha fatto Massimo Recalcati che sul quotidiano la Repubblica – “La missione di Telemaco” - del 3 di luglio ha alzato i veli da quella mitologica figura. Ma con cultura. Ha scritto Massimo Recalcati: Telemaco si configura (…) come l’immagine del figlio giusto, cioè del giusto erede. Essere figli giusti, essere giusti eredi, significa riconoscere il debito simbolico con chi è venuto prima di noi. È entrare in una relazione generativa con i nostri avi.(…). Il riconoscimento del debito è la condizione necessaria per essere giusti eredi. Ma Telemaco e con lui le nuove generazioni, sa bene che l’eredità non è acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni. Piuttosto — (…) — per possedere davvero quello che i padri hanno lasciato devi riconquistarlo. È questo il movimento più autentico dell’ereditare. Ecco perché Telemaco non è solo una figura della nostalgia. Egli non si limita ad attendere dal mare il ritorno glorioso del padre per riportare la Legge ad Itaca offesa dai Proci. Non assomiglia per nulla ai personaggi beckettiani di Aspettando Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. È necessario invece che il figlio si cimenti nel suo proprio viaggio e che corra il pericolo più grande, è necessario che sfidi il mare. È con il viaggio di Telemaco e non con quello di Ulisse che si apre l’Odissea di Omero. I Proci attentano la vita del figlio che vuole ristabilire la Legge nella sua città. Eppure i nostri figli — (…) — , diversamente da Telemaco, non sono figli di re, non ereditano regni. Piuttosto viene lasciato loro un mondo incerto, senza futuro e senza speranza. Ma il figlio giusto, il giusto erede, è anche colui che sa assumere fino in fondo la propria responsabilità. L’etimologia del termine erede — (…) — viene infatti dal greco cheros che significa spoglio, deserto, mancante e che rinvia a orphanos, orfano. Questo significa che è solo il viaggio del figlio che rende possibile la fondazione di una nuova alleanza tra le generazioni. Il nostro tempo non è il tempo degli adulti che non esistono più e di cui la crisi della politica è stata una delle manifestazioni più acute. I padri si sono persi nella maschera paradossale di una giovinezza che non vorrebbe mai finire confondendosi coi loro figli. La notte dei Proci che ha caratterizzato i nostri ultimi venti anni è anche la notte di una caduta della differenza simbolica tra le generazioni. Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio: Telemaco, diversamente da Edipo non vuole la pelle del padre, non rifiuta la filiazione, non entra in un conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni. Massimo Recalcati chi? Un “professorone”!

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