"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 13 giugno 2014

Sfogliature. 25 Capitalismo e borghesia.



Per un fatto straordinario ed in verità alquanto strano è capitato che sia stato proprio il quotidiano della cosiddetta “borghesia”  a rivelare agli italiani una delle anomalie proprie del disastrato paese. Ha scritto infatti Gian Antonio Stella - “I reati finanziari invisibili” - sul “Corriere della sera” del 27 di gennaio 2014: (…). …nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto, il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false. Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, «plebei». È la conferma di una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: «I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada “Oddio, c’è il falso in bilancio!” ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore». Sarà… Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri si sono pressoché dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del 2001 all’1,2% di oggi? Non va così, dalle altre parti. (…). …è che in Germania i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari: 8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più. È un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del rispetto delle regole. Lo «spread» tra la nostra quota di detenuti per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è vistoso non solo nei confronti della Germania. In rapporto agli abitanti, i «colletti bianchi» incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino all’abisso che ci separa dai tedeschi. (…). Pensateci bene: su questo fronte siamo i primi della classe! Da noi delinquono tutti tranne quelli che un tempo venivano definiti i “colletti bianchi”. Ovvero delinquono e come i “colletti bianchi” ma nelle carceri non ci vanno a finire mai se non nella miserrima percentuale di “quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false”. È il paese di bengodi. Nelle carceri del bel paese i “colletti bianchi” sono come le mosche bianche. Avete mai vista una mosca bianca? Provate a trovare uno dei “colletti bianchi” nella anguste, sovraffollate carceri italiane. Tutto ciò sta a dimostrare l’arretratezza politico-sociale del bel paese. Tutto ciò sta a dimostrare anche quanto la legge sia disuguale nel bel paese. Ed a portarne la responsabilità storica è quella che un tempo veniva definita la “borghesia” delle arti, delle professioni e dei mestieri. Il 21 di ottobre dell’anno 2011 postavo su questo blog una riflessione dal titolo “Capitalismo e democrazia”. Ripropongo di seguito in parte il post di allora che ha inizio con una riflessione del “Moro di Treviri”:
(…). La borghesia, noi lo vediamo, è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di rivoluzioni nei modi di produzione e di comunicazione. Ogni tappa dell’evoluzione che la borghesia ha fatto era accompagnata da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso dal dispotismo feudale, associazione che si auto-governa nel Comune; ora repubblica municipale ora terzo stato tributario della monarchia: poi, all’epoca della manifattura, contrappeso della nobiltà nelle monarchie a potere limitato o assoluto; quindi pietra angolare del potere delle grandi monarchie; la borghesia, da quando si sono affermati la grande industria e il mercato mondiale (“mercato mondiale”; non è un “errore” di Marx, anche se il Manifesto è del 1848 n.d.r.), si è finalmente impadronita del potere politico nel moderno Stato rappresentativo, escludendone tutte le altre classi.(…). La borghesia ha svolto nella storia un ruolo essenzialmente rivoluzionario. Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci. (…). La borghesia ha fatto affogare l’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, il sentimentalismo del piccolo borghese nelle acque ghiacciate del calcolo egoistico. Essa ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; ha sostituito alle numerose libertà, conquistate a caro prezzo, l’unica e spietata libertà del commercio. In una parola; la borghesia ha messo al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche uno sfruttamento aperto, diretto, brutale e spietato. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le professioni fino ad allora considerate venerabili, e venerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, lo scienziato in lavoratori salariati. La borghesia ha strappato il velo di sentimentalismo che ricopriva i rapporti familiari, riducendoli a puri e semplici rapporti monetari. La borghesia ha dimostrato come le brutali manifestazioni di forza dell’epoca medioevale, tanto ammirate dalla reazione, trovano il loro naturale complemento nella pigrizia più crassa. È la borghesia che per prima ha dato la prova di ciò che l’attività umana può compiere: creando ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni che le antiche migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali”. Mi si perdoni la lunga citazione. Essa è tratta da quel libello che ha avuto la forza di cambiare il corso della Storia grande. Lo si potrebbe definire un “incunabolo” poiché esso rappresenta la stampa primigenia del movimento operaio internazionale. La citazione è tratta da il “Manifesto del Partito Comunista” - capitolo primo “Borghesi e proletari”- di Marx ed Engels. In essa, nella citazione intendo dire, si parla della “borghesia” e del suo ruolo straordinario, nel bene e nel male, nel progresso della umana convivenza. Scrive, tra l’altro, l’Uomo di Treviri: “La borghesia ha svolto nella storia un ruolo essenzialmente rivoluzionario. Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci”. Ovvero, l’Uomo di Treviri parla della “borghesia” del fare, delle arti liberali. Oggigiorno sembra che la “borghesia” sia scomparsa dagli orizzonti sociali. A seguito di una “mediatizzazione” selvaggia delle moderne società essa è stata di fatto surclassata da quello che viene definito il “ceto medio”. Un “ceto medio” poco riflessivo, solo per usare le categorie care al professor Paul Anthony Ginsborg, molto ma molto mediatizzato. Della morte della borghesia ne ha scritto Simonetta Fiori sul quotidiano “la Repubblica” intervistando il professor Giuseppe De Rita, “La fine della borghesia”, in occasione della pubblicazione del volume “L’eclissi della  borghesia” edito da Laterza – De Rita-Galdo (2011) pagg. 92 € 14,00 -, intervista che di seguito propongo in parte.
Che fine ha fatto la borghesia? E perché è scomparsa? (…). La borghesia è sepolta, o forse non è mai nata. Una certificazione di morte. «Direi meglio, la fine di una speranza. S'è esaurita l'idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi collettivi. Sin dall'origine dello Stato nazionale, ci siamo illusi che da segmento relativamente piccolo - spazio intermedio tra cultura popolare e cultura d'élite - questo gruppo sociale sarebbe cresciuto fino a governare le sorti del paese. Questo non è accaduto. O è accaduto fino a un certo punto».
(…). Quando comincia il declino? «Negli anni del boom economico, con la grande avventura dell'italiano medio. È stata la cetomedizzazione della società italiana - mi piace chiamarla così - a causare la definitiva eclissi della borghesia».
Come è accaduto? «Fino agli anni Cinquanta la società era divisa in tre fasce. La classe esigua dei padroni. La classe numerosa di braccianti e operai. E un ristretto ceto medio, tra amministratori di latifondo e impiegati dello Stato. Tutto cambia quando scatta la molla del benessere. Allora si mette in moto un processo di imborghesimento collettivo. Una vera esplosione che risucchia dall'alto e dal basso tutti i settori della società».
(…). Qual è la differenza? «Si perde di vista l'interesse collettivo. Prevale il primato del benessere e della sicurezza, nell'indifferenza verso gli altri. In altre parole, lo spazio intermedio precedentemente occupato dalla borghesia viene invaso da questo nuovo ceto, che è preoccupato solo di mantenere lo status raggiunto e non riesce a esprimere una classe dirigente dallo sguardo lungo».
Ma perché accade in Italia e non altrove? Il boom economico non fu una nostra peculiarità. «La nostra peculiarità fu una Democrazia Cristiana che costruì il suo consenso sui cosiddetti collaterali: i coltivatori diretti, gli artigiani, i sindacati scolastici, le cooperative bianche. (…).». Lei sta dicendo che per cinquant'anni abbiamo favorito le corporazioni, le categorie, le piccole tribù? «Sì, l'abbiamo fatto usando il carburante della spesa pubblica. Lo Stato è diventato un gigantesco erogatore. E con i suoi soldi il ceto medio italiano ha visto garantiti benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità».
Ci siamo illusi di non essere più poveri, ma in realtà abbiamo continuato a esserlo. «L'economista Vittorio Parsi sostiene che in tutti i processi storici c'è un soggetto che garantisce il sistema e poi ci sono i free riders che fanno i loro affari. (…).
Che c'entra l'Italia? «Per vari decenni lo Stato italiano ha avuto il ruolo di Grande America, ossia ha garantito il contesto entro cui i free riders hanno potuto fare le loro scorrerie: gli imprenditori sommersi, gli artigiani senza fattura, anche i supplenti della scuola che chiedevano di entrare in ruolo. Tutto ciò ha rosicchiato le finanze pubbliche ma ha eroso anche il contesto.  (…).”

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