"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 8 maggio 2014

Capitalismoedemocrazia. 48 “Piketty e il capital in the XXI century”.



Scrive Stefano Feltri su “il Fatto Quotidiano” di ieri, mercoledì 7 di maggio, chiudendo la Sua presentazione del volume di Thomas Piketty “Capital in the XXI century” – Belknap press (2014), pagg. 696 - “Piketty riscrive l’economia: i ricchi vinceranno sempre” -:  Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”. E mi viene spontaneo chiedermi cosa ci sia “di sinistra” in tutto il bailamme di proposte che il rampante primo ministro del bel paese propone a getto continuo. Proposte che di converso vanno nella direzione opposta a quelle sensibilità che la sinistra sembra avere smarrito. Nell’era della globalizzazione il peccato più grande che la sinistra abbia potuto commettere è stato quello, e perdura nell’azione del governo dei giovani, di appiattirsi, se non inseguirle, sulle proposte economiche e politiche del liberismo della finanza.
Scrive Stefano Feltri: (…). …le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media. No, è la dinamica interna dell’economia: se il capitale (…) cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi. E tutto ciò avviene a tutte le latitudini laddove il capitale detta le regole di una finanziarizzazione senza morale alcuna fine a se stessa. Ad est come ad ovest. Nel paese del capitalismo storico e più avanzato così come nel paese divenuto capitalista nella storia sua più recente. Illuminano il quadro due straordinarie corrispondenze da quei due angoli opposti. “Far west” è la settimanale rubrica di Federico Rampini su “Affari&Finanza”. Nell’ultimo numero del settimanale del 5 di maggio Federico Rampini scrive – “Il maxi-schermo a prezzi stracciati ma la scuola sempre più cara” -: Che cosa significa essere poveri nel 2014 in America? La questione è di un’attualità terribile. Ricorre il 50esimo anniversario dalla “guerra alla povertà” che fu lanciata dal presidente democratico Lyndon Johnson, tenace continuatore delle politiche riformiste di John Kennedy. E il sindaco di New York, Bill de Blasio, constata che il 46% dei suoi cittadini vivono vicino alla soglia della povertà. (…). Dai tempi di Johnson non c’è dubbio che i poveri stiano meglio. L’accesso ad alcuni beni materiali e consumi essenziali è migliorato. Tuttavia l’America di oggi è per certi aspetti una nazione ancora più crudele di quella degli anni Sessanta. Ti dà il maxi-schermo tv ad alta definizione a prezzi stracciatissimi, quasi regalato. Ma rende sempre più difficile a tuo figlio l’accesso a quell’istruzione di qualità, che un tempo era la via maestra verso la mobilità sociale, il biglietto di viaggio verso un futuro migliore. Perfino la salute diventa un bene distribuito in maniera sempre più diseguale, con una sanità di serie A e una di serie B (…). È evidente inoltre che alcuni dei beni oggi accessibili anche ai poveri, vedi lo schermo tv ultrapiatto o il computer, sono per lo più prodotti in nazioni emergenti: mentre ai tempi di Johnson per fabbricare beni analoghi (…) si dava lavoro a colletti blu americani relativamente ben remunerati. Questo non significa che i settori dove c’è stata iperinflazione paghino delle retribuzioni stratosferiche: le rette universitarie salgono alle stelle ma per molti prof oggi due città come New York e San Francisco sono off limit, per gli affitti troppo cari. L’operazione nel tempo è stata molto più sottile. A quell’immenso corpo sociale che era stato costruito dal capitalismo manifatturiero – il cosiddetto “ceto medio” - si sono sottratti quegli strumenti di scalata sociale e di emancipazione duramente conquistati. E con l’illusione del maxi-schermo piatto si è dato modo di invertire una tendenza che avrebbe qualificato al meglio la vita delle grandi masse dell’Occidente industrializzato e cristianizzato. Nella disattenzione delle moltitudini. O meglio, forse, nell’indifferenza delle moltitudini. Si pensava che sarebbero bastate le conquiste di quei beni materiali per progetti di vita migliore. Un’illusione. Oggigiorno se ne sconta la pena. Uno sguardo poi sul versante opposto del nuovo capitalismo, in quello che fu denominato l’impero celeste. Ce lo propone Giampaolo Visetti nella Sua rubrica “Fra east” sempre sull’ultimo numero di quel settimanale – “Crisi conclamata e pechino ora ha paura dell’instabilità” -: La crisi economica cinese allarma il mondo. Fino ad alcuni mesi fa i mercati si chiedevano se la frenata della crescita ci sarebbe stata. Poi quanto duro sarebbe stato l’atterraggio. Oggi la crisi è un fatto acquisito: lo stop è considerato inevitabile e la domanda riguarda solo i tempi. (…). Il sintomo più evidente del problema sono le rivolte operaie. Dieci anni fa la Cina era scossa da 87mila manifestazioni all’anno con oltre cento lavoratori. Nel 2011 gli incidenti hanno sfiorato quota 200 mila. Nel 2013 e nei primi mesi del 2014, scioperi e proteste si sono moltiplicati al punto da costringere il governo a sospendere la diffusione dei dati. A preoccupare Pechino non è solo la sindacalizzazione operaia senza precedenti, favorita dall’accesso a Internet. Per la prima volta gli scioperi dilagano anche nelle regioni meno industrializzate, dove le autorità hanno indirizzato gli investimenti contando su costi produttivi inferiori. La prima generazione di lavoratori migranti si accontentava di non morire di fame. Figli e nipoti di quegli operai pretendono invece di diventare classe media. In aprile ha fatto il giro del mondo la notizia del maxi-sciopero che per quasi tre settimane ha paralizzato il colosso delle calzature sportive Yue Yuen, fornitore dei più importanti marchi globali. I lavoratori volevano assicurazione, previdenza e la garanzia del welfare per le proprie famiglie. Per scongiurare un contagio dell’instabilità, a 25 anni dalla rivolta studentesca repressa nel sangue in piazza Tiananmen, il governo ha costretto la proprietà taiwanese a promettere la concessione dei diritti rivendicati dai dipendenti. L’aumento dei costi minaccia però i profitti e i manager della Yue Yuen hanno avvertito che il trasferimento della produzione, nel Sudest asiatico o in America centrale, è un’opzione probabile. La vicenda rivela il cuore dalla crisi cinese. Il sistema industriale, ad alta intensità di lavoro, per reggere non può trattare equamente gli operai, né rispettare l’ambiente. Se viene costretto a farlo, ostaggio dell’export low cost, non è più in grado di affrontare la concorrenza straniera di altre nazioni in via di sviluppo. La Cina si scopre così stretta tra la nuova capacità di mobilitazione operaia, la necessità che i lavoratori cinesi si trasformino anche in consumatori, e la potenziale competitività dei mercati che fino ad oggi erano stati solo suoi clienti. (…). E così il quadro si completa. All’est come all’ovest. Scrive ancora Stefano Feltri: Gli attuali super stipendi dei top manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere). Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe. (…). Ma (…) non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale. Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta (…) di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. (…). …i critici più liberisti, (…), hanno concluso che nel mondo (…) i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa. Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it’s the economy, stupid. (…). Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia. (…). …c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. (…). Quali “politiche re-distributive” ha in mente il rampante primo ministro del bel Paese? Non è dato sapere.

Nessun commento:

Posta un commento