"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 14 aprile 2014

Capitalismoedemocrazia. 46 “La catastrofe di un mondo senza politica”.



Ha scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 2 di aprile col titolo “Osare più democrazia”: «Per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre». (…). In fondo è qualcosa di già visto e sentito. Portato ora a compimento. E già che si è sul viale della “rottamazione” a tutto spiano si era pur sentito dire che nelle cosiddette “camere” sarebbe stato bastevole fare votare non i rappresentanti eletti dal sempre cosiddetto popolo sovrano ma solamente i cosiddetti capi-gruppo. Una semplificazione annunciata ed auspicata quando della “rottamazione” non si aveva ancora contezza. Ma c’è un “ma” che induce a riflettere.
Scrive in proposito Barbara Spinelli: Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (…). Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. (…). È in fondo la tanto attesa “confessione” da parte di una politica che si sente messa all’angolo e che misura, in quel suo agitarsi forsennato e senza senso, l’inadeguatezza della propria risposta “politica” alle esigenze di un mondo che si globalizza sempre più e di fronte al quale essa, la politica che non sa fare più politica, si trova spiazzata nelle analisi e nelle proposte. Avviene così che il soverchiante potere del capitalismo della finanza possa dettare l’agenda alla politica che rinuncia di fatto ad intervenire sulla realtà nuova di un mondo senza più limiti interni. L’anacronismo dell’oggi – sempre che così lo si possa definire - è che le ambizioni di semplificazione e di “rottamazione” proprie di una destra becera ed avventuriera e senza ambizioni di governare le nuove realtà siano state messe in cantiere proprio da quella parte avversa che un tempo veniva definita la sinistra. E l’anacronismo sta proprio in ciò, ovvero nella constatazione dell’inesistenza di una “sinistra” che possa contrapporsi validamente e contenere lo straripante potere della finanza che incontrastata detta le sue regole al mondo sempre più globalizzato.  A questo proposito ho trovato interessante l’intervista di Paolo Griseri al sociologo Marco Revelli – “Post-sinistra: la catastrofe di un mondo senza politica” -  pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 22 di marzo: (…). Revelli, che cosa resta oggi della sinistra? «Resta ben poco. Perché resta molto poco della politica, della capacità di offrire un’alternativa razionale a quello che è sempre stato definito l’ordine naturale delle cose, l’immutabile susseguirsi di scelte che privilegiano una piccola parte della società a scapito di una maggioranza subalterna».
Politica e sinistra sono dunque sinonimi? «Nell’Occidente capitalista è così. La destra non propone di mettere regole all’economia e al sistema sociale. Al contrario, propone di toglierle: non si fa carico di una proposta organica di società ma si limita a suggerire le ricette ideali perché sia il libero mercato con i suoi istinti a plasmare la realtà».
Dunque dire che non c’è più la politica, significa dire che ha vinto la destra? «In un certo senso è così. Non ha vinto una destra politica in senso stretto, ma hanno vinto i tecnocrati che applicano le sue ricette. Mi colpì molto, un anno fa, la considerazione che fece il neogovernatore della Bce, Mario Draghi, all’indomani del controverso risultato elettorale alle politiche italiane. Eravamo effettivamente in una situazione di stallo, aperta a tutti gli esiti possibili. Draghi commentò: “Non c’è da preoccuparsi in modo particolare. Chiunque alla fine governerà, sulle grandi scelte c’è un pilota automatico che garantisce la rotta”».
Perché la colpì quella frase? «Perché quella frase è la negazione della politica. È come se i passeggeri spendessero molto tempo a scegliere il pilota per poi scoprire che, chiunque sia ai comandi, la rotta è già tracciata da altri ».
Chi può oggi invertire la rotta tracciata dai tecnocrati? «Non vedo molte possibilità. Il mercato della politica offre poche alternative credibili. Ci sono diversi populismi che provano non a invertire la rotta ma a rassicurare (o a aizzare, che è lo stesso) i passeggeri dell’aereo. Sono tutte quelle proposte che promettono di tutelare settori particolari della popolazione: difendere gli indigeni dagli immigrati, i benestanti dall’assalto dei poveri, ma anche i cittadini dalla casta dei politici».
Per riassumere, dalla Lega a Grillo? «Con le loro diversità, naturalmente. Ma li ascriverei tutti alla categoria dei populismi».
Poi c’è la sinistra rappresentata dal Pd e, oggi, da Renzi. Qual è il suo giudizio? «Il Pd è una forza politica che non ha più nulla a che vedere con la tradizione della sinistra italiana del Novecento. Renzi è l’ultima bandiera di un’idea della politica che si fonda sulla personalizzazione e sull’illusione della cosiddetta ripresa. L’idea cioè che la crisi di questi anni sia come una malattia che passa e poi tutto torna come prima. Sappiamo tutti che non sarà così ma ci piace credere che con 85 euro al mese in più in busta paga l’economia riprenderà e passeranno tutti i problemi».
Eppure non si può certo aspettare che arrivi la catastrofe per cambiare il mondo. E se la catastrofe non arriva? Siamo ancora ad aspettare la caduta tendenziale del saggio del profitto... «Non si tratta di attendere la catastrofe ma di guardare la realtà. È evidente che l’attuale situazione non può proseguire a lungo. Un mondo in cui 85 miliardari possiedono la ricchezza di tre miliardi di persone non è un mondo che abbia grandi prospettive. Possiamo far finta che non sia così, possiamo credere che ci sia la luce in fondo al tunnel ma sappiamo che non è vero».
Un tempo la sinistra aveva proposte di sviluppo. Modelli alternativi ma realistici per il cambiamento. Oggi non rischia di proporre solo suggestioni per un mondo che verrà chissà quando? «La sinistra si è identificata per molti anni con la modernità, con una certa idea di ammodernamento del mondo. Ma dopo la fine del Novecento che cosa è la modernità? Velocità e cemento? Pura mitologia del fare?» (…). Conclude Barbara Spinelli la Sua analisi: L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. (…). Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo». Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. (…). I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. (…). Manca uno spirito cosmopolita della democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda; non si conquistano «in sequenza ». O si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra. Un pro-memoria per le elezioni del 25 di maggio.

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