"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 marzo 2014

Storiedallitalia. 42 “Il gesto esclamativo e l’arte di governo”.



Quanto ci manca per il baratro? Non è dato sapere. Ci sorreggerebbe la speranza. Andata però perduta negli anni. O tutt’al più un atto di fede. Ma per chi non sia posseduto dalla fede? L’atto di fede sarebbe utilitaristico e di conseguenza inopportuno. Potrebbe ben essere definito di blasfemia. In verità ci rimane ben poco. Se non invocare l’inverarsi dell’impossibile. Vedo certe facce in giro che stanno lì a manifestare lo sconforto generale. Non sono facce rapite dal nuovo - che non c’è -. Non sono facce estatiche in preda ad un sommovimento interiore che pare aprirsi alla speranza. Vanno quelle facce con i loro passi e le loro disillusioni. La rimozione delle illusioni è forte e decisa. Anche perché disillusi da gran tempo, a far data da quella che ancor oggi viene definita la storica “discesa in campo”. Un milione di posti di lavoro! Giù le tasse per tutti! Meno lacci e lacciuoli per  chi intraprende! Riformare la giustizia! Bla bla bla. Tutto andato a male. Lo stacco col presente però è netto. Quello a rappresentare le sue vane promesse su vili cartelloni. Ché con albagia disdegnava il nuovo e si vantava di non aver letto un romanzo negli ultimi suoi vent’anni. Il nuovo smanetta di continuo, twitta, manda sms di continuo. Forse di continuo digita “condivido”, “mi piace”. Blatera. Ma è il nuovo che avanza. E piace. Fino a quando? Quale sarà la differenza nei fatti? Necessiterebbe un atto di fede. Che non c’è. Vedremo! Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc. Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico (…). Lo ha scritto Franco Cordero  sul quotidiano la Repubblica del 4 di marzo col titolo “Il gesto esclamativo e l’arte di governo”. Sembra essere rimasti fermi al tempo dei tonitruanti proclami. Per il nulla. Cosa se ne ricaverà di utile? Eppure c’era da aspettarselo uno scenario come questo. Basterebbe ritornare alle cronache di un anno addietro, all’indomani magari di quelle che sono state le ultime elezioni politiche nel bel paese. Se ne ritrova traccia in una riflessione a firma di Adriano Prosperi sul settimanale Left del 27 di aprile 2013 che ha per titolo “Un suicidio morale”. Rileggerla oggi? Una opportunità – forse - per capire il presente. Forse. Scriveva: Singolare quell’applauso. È pur  vero che in Italia, Paese belluinamente vitale, si applaude ai funerali. E forse questo è il vero significato della scena.  Si celebrava il funerale di un partito che aveva raccolto la maggioranza relativa dei voti con la promessa di rispondere a una domanda di equità, di giustizia sociale, di ritorno allo spirito della Costituzione. La base popolare del Paese  se ne attendeva un cambiamento radicale dopo un lungo ventennio dominato da un liberismo selvaggio che aveva impoverito la scuola e la ricerca, spazzato via i diritti dei lavoratori, premiato la corruzione e l’evasione, alterato il sistema elettorale, alimentato la xenofobia e il razzismo,  cancellata la nozione e la realtà dei beni comuni.  Quelle domande avevano trovato espressione pubblica in più occasioni: referendum, manifestazioni, anche tragedie individuali, suicidi. E che altro è se non una forma di suicidio morale la rinuncia silenziosa alla speranza di una impressionante quantità di giovani e disoccupati? Il voto aveva dato espressione chiara a  una volontà che  era maggioritaria nel Paese anche se una ben giustificata diffidenza nei confronti dei partiti che avevano sostenuto un governo “tecnico” aveva premiato prevedibilmente il M5s. Ma ecco che, mentre ancora si cercava la via di una maggioranza per il governo,  nella scelta del presidente della Repubblica il partito di maggioranza relativa, a cui  spettava proporre il candidato, si squagliava, balbettava, si faceva proporre i candidati dall’avversario col quale aveva giurato di non voler più avere rapporti, affondava una dopo l’altra le candidature dei suoi uomini più rappresentativi, non si vergognava di bocciare dopo avere proposto e – ancora una volta – applaudito il nome di Romano Prodi.  Ma il peggio doveva ancora arrivare: gli viene offerta su un  piatto d’argento  la possibilità di eleggere Stefano Rodotà, un nome che rappresenta di per sé un programma. (…). È uno di quei casi non nuovi nella storia dell’Italia in cui una straordinaria congiunzione di difetti, errori, viltà, incapacità appare nel cielo del nostro disgraziato Paese. Prima di questa settimana sapevamo che si doveva ripartire dal basso. Oggi scopriamo che la caduta è destinata a continuare. Aspettiamo di vedere che cosa prenderà il posto del partito che si è suicidato in Parlamento. Per la sua anima ci vorrebbero le parole che Machiavelli immaginò dette dal diavolo a quella di un politico fallito del suo tempo: «Che inferno? Anima sciocca, va’ su nel Limbo fra gli altri bambini». Oggi forse abbiamo la risposta che Adriano Prosperi cercava un anno fa. Che corrisponde al nuovo, nel senso di avvicendamento, sullo scenario della politica. Ché, pur adottando i nuovi strumenti della comunicazione e dell’imbonimento, percorre le vie tortuose ed anguste di sempre. Lo scenario renziano, senza un atto di fede, non cambia e non da inizio al nuovo. Si rifà alla Storia del secolo decimo-quarto Franco Cordero in quel Suo pezzo scritto sempre con maestria assoluta: Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. Canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso). (…). Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga. (…). Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani. E la Storia sta lì a presentare i suoi corsi e ricorsi. Indifferente agli affanni dei più.

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