"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 marzo 2014

Capitalismoedemocrazia. 45 “La deriva del capitalismo”.



La Cina festeggia l’anno del Cavallo, ma le imprese hanno già aperto la caccia agli operai. Milioni di lavoratori, terminate le vacanze del capodanno lunare, non torneranno nei distretti industriali. Il 30% dei posti resterà scoperto almeno fino a giugno. Per la prima potenza produttiva del mondo è un danno miliardario, tale da spingere le aziende a concedere bonus e aumenti di stipendio senza procedenti, pur di non bloccare per mesi le catene di montaggio. A fine di gennaio oltre 300 milioni di operai-migranti hanno fatto ritorno nei villaggi d’origine per le ferie. A scoraggiare un ritorno puntuale sul posto di lavoro, oltre alla prospettiva di un altro anno in solitudine, il costo del viaggio, i salari bassi, la nascita di piccole imprese anche nelle regioni lontane dalla costa, il ritorno dei profitti in agricoltura. Lo scorso anno il mancato ritorno operaio nelle metropoli industriali è costato alle imprese cinesi il 15% del giro d’affari. Un sondaggio dell’Accademia delle scienze rivela che nessuna azienda ha perso meno del 10% della propria forza lavoro. I capi del personale, da Shenzhen a Shanghai, sono dunque mobilitati: chi riuscirà a convincere il numero più alto di dipendenti a riprendere rapidamente il lavoro, passerà un anno del Cavallo senza assistere ad un'altra fuga di massa di lavoratori verso le potenze emergenti del Sudest asiatico. Per la prima volta la Cina fa dunque conoscenza con un fenomeno comune nell’Occidente pre-crisi: gli incentivi. In questi giorni a milioni di operai vengono promessi biglietti ferroviari, rimborso dei pasti e aumento della busta paga del 10% fino a giugno. L’invecchiamento della popolazione e la concorrenza di Cambogia, Vietnam, Mianmar e Thailandia, aumentano le difficoltà cinesi nel fidelizzare la forza lavoro specializzata. Chi rientra puntualmente al lavoro otterrà un premio tra i 100 e i 1000 yuan, ma pure biglietti per le nuove lotterie aziendali, dove si vincono 1500 euro, pari a cinque mensilità del reddito minimo. Alcuni gruppi promettono agli operai fedeli di organizzare party aziendali, giri turistici per i week-end, di costruire biblioteche, sale video, piscine e asili, oppure di donare tessere-sconto per fare shopping. Nel settore elettronica, dove la manodopera è più giovane, si offrono perfino serate romantiche per single, per favorire i contatti in una massa operaia vittima dell’isolamento. Tra febbraio e marzo i benefit per i ricercatissimi lavoratori fedeli saranno a doppia cifra, prospettiva che però, in molti casi, accresce il problema del mancato rientro dai villaggi. I dipendenti sanno che non ripresentarsi in azienda non espone più al licenziamento, come in passato, ma offre l’opportunità di essere premiati. Minacciare la stabilità occupazionale cinese, per l’operaio può rivelarsi un vantaggio. Per i colletti bianchi il reclutamento si fa invece sempre più difficile e oggi sono loro, in caso di fallimento, a rischiare il posto: risparmiare sui premi-fedeltà può causare il crollo della manodopera, ma promettere troppo può aumentare il ritardo del suo rientro. Anche in Asia si apre una fase nuova. Oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi si dichiarano pronti ad espatriare, pur di guadagnare di più e di vivere in ambienti meno inquinati, mentre i laureati aumentano del 34% all’anno, rispetto ad un meno 26% di operai. Non sono solo le ferie di capodanno ad obbligare le industrie del Dragone ad andare a caccia dei dipendenti in fuga: per la Cina termina l’era del lavoro a basso costo e la geografia globale delle multinazionali nomadi sta per acquisire un profilo nuovo. È la cronaca in forma di corrispondenza, sempre puntuale ed avvincente, che Giampaolo Visetti ha fatto, sul numero del settimanale Affari&Finanza del 10 di febbraio appena trascorso, da quell’impero che un tempo si diceva essere celeste. Titolo del Suo pezzo: “Cina, il caso dell’operaio che non torna dalle ferie”. Che poi è la cronaca che mette a nudo i “vizi” vecchi e nuovi del capitalismo. “Vizi” esasperati dal nuovo capitalismo a carattere eminentemente finanziario che sottrae al capitalismo manifatturiero quelle risorse necessarie a garantire e gratificare il lavoro. Capitalismo selvaggio, denudato da quella responsabilità sociale che pur gli dovrebbe appartenere. Accadrà che da quell’opificio del mondo la fuga delle imprese e delle aziende, sotto l’incalzare delle richieste delle maestranze a corto di diritti e di salari di dignità, impoverirà quello che è stato l’impero celeste, divenuto nel frattempo capitalista, per meglio sfruttare altri angoli del pianeta Terra ove dettare la legge inesorabile del cosiddetto “fattore limitante” del Liebig. Se ne è di già parlato su questo blog. È tornato a questo punto della “crisi” interessante riproporre una riflessione di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini su quella che essi hanno definito “La deriva del capitalismo”. L’interessante, ancor attuale riflessione è stata proposta sul quotidiano la Repubblica il 22 di settembre dell’anno 2012. Scrivevano i due studiosi: Lo strappo effettuato dai (…) leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario. A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso. Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni. Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione. (…). Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo. Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. (…). Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.

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