"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 13 dicembre 2013

Storiedallitalia. 34 Quelli che “non se ne può più".



Torino è (…) la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». (…). La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. È la cronaca – “L’invisibile popolo dei nuovi poveri” - che Marco Revelli ha fatto sul quotidiano “Il Manifesto” di oggi degli avvenimenti che stanno scuotendo il bel paese dalle Alpi al Lilibeo. È che il movimento, che non è ancora tellurico (e non lo sarà mai, non ne abbiamo la stoffa), mi ha colto mentre per motivi personali mi preparavo ad affrontare una condizione che oggi mi viene da definire di chiaro-scuro. E dalla quale condizione mi accingo ad uscire, virando verso dove? È che, avvolta com’era la mia persona in una condizione inusitata, le voci che mi giungevano mi spingevano a pensare al movimento che si stava per avviare come a qualcosa di già visto negli anni trascorsi, con l’affannarsi dei cosiddetti “padroncini” per spuntare alla politica quei “bonus” che avrebbero consentito loro di continuare a sopravvivere nelle loro attività imprenditoriali. Mi sbagliavo e di grosso. Lasciata la condizione mia di chiaro-scuro ho trovato l’interessante pezzo di Marco Revelli che mi ha ampliato ed illuminato gli orizzonti sugli ultimi avvenimenti. Continua Marco Revelli: E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». E qui ho provato a riflettere. Ed a pensare a tutti questi anni che avremmo dovuto spendere in maniera più virtuosa. E così pensando a giungere ad una amarissima conclusione: questa volta la coperta è veramente troppo corta. E se prima essa riusciva, tirata per i suoi lembi, a coprire abbastanza, oggigiorno risulta sempre più misera ed inadeguata a soccorrere i tanti. Non che dell’insufficienza di quella coperta non ci siano stati i segnali. Eccome. Ma si era tutti come presi da quella cieca ed imprevidente necessità di “mungere” dalle generose mammelle dello Stato sociale quanto più possibile - ora e subito – senza pensare al rischio di mandare tutto in rovina. E come d’incanto montare oggi questi scenari d’apocalisse che, ne sono convinto, svaporeranno appena le “santa natività” richiamerà i più nel dolce, tenero tepore delle proprie case. Cosa ne rimarrà del «non ce la facciamo più» di queste giornate dicembrine? Ben poca cosa. L’indifferenza dei tanti per la mala politica, il voltare altrove lo sguardo di fronte alle rivelate malversazioni compiute dalla mala politica sulla cosa pubblica hanno condotto alle attuali pirotecniche condizioni che non avranno la forza di determinare esplosione alcuna. Solamente fuochi d’artificio. Aspettiamo tutti il natale! E del «non ce la facciamo più» ha provato a scriverne anche Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 12 di dicembre: “È vero – (…) – questo dimostra a che punto siamo arrivati. Non se ne può più; c’è un clima, una pressione che non sono più tollerabili”. Qualcosa nel tono, nell’enfasi, mi ha fatto sospettare che i miei amici e io non stavamo raggiungendo le stesse conclusioni. Il seguito del discorso mi ha levato ogni dubbio. “Ti rendi conto che nessuno si compra una macchina nuova? E che, se proprio la vecchia cade a pezzi, altro che Porsche o Mercedes, al massimo un’utilitaria da 10.000 euro. Appena sali un po’, subito l’accertamento”. “Bè sì; ma ti difenderai, contabilità, bilanci, lo sai come si fa”. (…). “Ma insomma, non se ne può più. Io ho aperto un locale. Avevo ereditato un po’ di soldi e li ho investiti. Mi hanno fatto l’accertamento e ho dovuto dargli il testamento, l’accettazione dell’eredità, le mie dichiarazioni dei redditi degli anni precedenti e un sacco di altri documenti”. Commenti disgustati di tutti gli altri. “C’è un clima insopportabile, così non si può andare avanti”. “Ma scusa – gli ho chiesto – come è finita?” “Bè, non è successo niente, hanno archiviato”. “Vuoi dire che ti hanno dato ragione?” “Sì. Ma sai quanto ho dovuto penare per raccogliere tutti i documenti. E poi la perdita di tempo, l’ansia, la violazione della privacy”. Ho cominciato a spiegare. C’è un’evasione fiscale da 130 miliardi l’anno (probabilmente di più). Recuperassimo questi soldi, potremmo diminuire il carico fiscale sulle imprese, aumentare le pensioni, finanziare la spesa pubblica, insomma incrementare i consumi e favorire la ripresa. Quindi la lotta all’evasione è necessaria. E dove si può fare? Certo non su lavoratori dipendenti e pensionati: quelli non possono evadere. Resta la gente come te. Sono venuti a controllare, hanno trovato tutto in regola e se ne sono andati. Tu sei la prova che il sistema funziona. Di che ti lamenti? Ti fossi comprato la Porsche (da lì eravamo partiti) sarebbe stato lo stesso. Non c’è stato niente da fare. Come quell’esercito con cui simpatizzavano (“i forconi” n.d.r.), erano incapaci di ragionare. Non ho ottenuto risposte coerenti nemmeno quando gli ho detto: “Ma vi rendete conto che non vi state lamentando di un accertamento sbagliato ma di una verifica? Che, in realtà, semplicemente non volete essere controllati?”. (…). È che i “forconi” sono nati nella splendida terra della “Trinacria”. Splendida terra spolpata dalla mala politica, dalla malavita e dal malaffare, e dalla dissipazione – spesso penalmente perseguibile - delle risorse pubbliche. Spolpata perché? E come, se non nell’indifferenza generale? Ora quel modello di “riviviscenza” sociale lo si vuole esportare altrove. Per farne cosa? Ché, per il dizionario Sabatini Coletti, “riviviscenza” è per “alcuni organismi, ripresa delle funzioni vitali temporaneamente sospese; med. ritorno in vita dopo una fase di morte apparente”. La morte sociale, la morte di una cittadinanza responsabile ed attiva. Scrive più avanti Marco Revelli: Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica. Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. Società che è senza un progetto che sia, se non un immediato tornaconto che non tenga conto della generalità dei problemi e dei bisogni. Presto che arriva il natale!

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